24 marzo 2005

DaTe PuBbLiCaZiOnI + InCoNtRo LiVe

Da buon ADMIN del Blog prendo la situazione in mano :-)
DATE SCADENZA PRESENTAZIONE RACCONTO: 15 Aprile
(Fa fede arrivo alla mia MAIL! :-))

Se per la data tutti gli autori hanno mandato il racconto l'incontro LIVE sarà fissato per il 30 APRILE

(Se ci fossero problemi per le date fate sapere attraverso commenti sul blog al presente POST! Oppure infamatemi direttamente in MAIL!!!!)

BUON LAVORO
Simo!

23 marzo 2005

MeSsAgGiO AgLi AuToRi

Ciao a tutti!
A quattro o cinque mesi dalla fondazione del nostro diciamo 'gruppo di
lavoro', ritengo sia il caso di tracciare un piccolo bilancio della nostra
iniziativa. Abbiamo il nostro sito diciamo 'privato', siamo giunti a quota 7
partecipanti attivi, ed abbiamo messo on-line una quindicina di racconti. La
domanda è 'che cosa vogliamo fare adesso?'. La risposta potrebbe anche
essere di continuare semplicemente così, ma sinceramente temo che in un
tempo breve la nostra iniziativa imploda. Specialmente una cosa che un po'
mi preoccupa è la scarsa partecipazione sotto il profilo delle letture e dei
commenti, ed anche un po' della qualità dei commenti (anche i miei, in
realtà...). Della serie: chi mette un racconto on-line lo fa ovviamente
(anche) per avere un riscontro, di conseguenza sarebbe il caso che chi legge
cercasse di commentare tutto quel che legge e specialemente che cercasse di
farlo in una maniera più articolata possibile. Voglio lanciarvi inoltre una
proposta che sia di stimolo a noi tutti: che ne dite di porci come
obbiettivo di scrivere (ciascuno di noi, e quant'altri fossero interessati,
ma specialemente TUTTI noi) un racconto ex-novo e di publicarlo on-line
entro il 30 aprile? Dopodichè porci magari l'obbiettivo, diciamo entro il 15
maggio, di leggerli e commentarli tutti, sempre on-line? si potrebbe anche
pensare di volgere la cosa nei termini di una specie di 'torneo' (in questo
caso magari con votazioni e commenti anonimi) tra di noi... o magari anche
no. Alla fin fine l'unica priorità dal mio punto di vista è che la cosa
stimoli un po' tutti a fare e a fare 'il meglio possibile'... volevo infine
segnalarvi tre concorsi a scadenza 30 aprile che potrebbero essere di
discreto interesse per noi tutti, sia chiamano 'Trofeo Rill', 'Triora terra
di streghe' e 'Dall'Altrove', sono tutti a sfondo fantastico e con
possibilità di pubblicazione, vi rimando alla sezione "concorsi letterari
italiani" da www.latelanera.com (il mio sito FARO per questo genere di
cose...) per avere i link ai bandi.

Max

22 marzo 2005

Candidi Suoni

Neve. La città ne è ricoperta. Ancora scende. Lentamente. Mi sembra di essere dentro a una di quelle sfere di cristallo che si comprano dai rigattieri. Magari qualcuno si sta divertendo a scuoterla per poi rimanere ad osservare in silenzio quella bianca cascata. Tutto tace. Il bello della neve è questo in fondo. Porta i rumori lontano, in un luogo remoto. Crea una strana atmosfera di pace e luce. Un mondo surreale in cui vorresti stare per sempre. La neve mi fa sentire un ghiro. Un bel ghiro paffuto che si ritira sotto un bel piumone caldo. Invece sto in piedi davanti alla finestra coi capelli ancora arrufati e una tazza di te bollente in mano. Mi dico che oggi è la giornata giusta per scrivere qualcosa di buono e più me lo dico più me ne convinco. Ci ripenso. Non so se sia il giorno giusto oggi. Guardo fuori. Le strade sono vuote. Solo qualche impavido, con grossi scarponi, affronta la tempesta per recuperare il suo latte. Tutto tace. Poi, come la voce di un angelo che emerge dal paradiso, un suono. Soave. Pieno e affascinante. Mi lascio cullare per un attimo assaporandolo. Mi domando da dove venga questa melodia. Cerco la fonte e la trovo. Difronte a me, dalla mia finestra, la vedo. La Dama dell'inverno.
La pelle bianca brillava immersa in tutta quella luce. Sembrava liscia e morbida. Le gambe lunghe avvolte in bende di seta. Solo i piedi restavano scoperti. Piedi da fata li avrei definiti. Perfettamente proporzionati. Le dita lunghe, appoggiate al parquet, erano leggermente piegate e il tallone alzato. Quella posizione metteva in risalto la curvatura della pianta. Sensuale nella sua semplice forma. Immaginai di stringerli delicatamente e solleticarli con la punta della lingua. Le ginocchia, armoniosamente disegnate, si strigevano vigorosamente sul massicio corpo bruno del violoncello avvinghiandolo con decisa delicatezza. La mano era appoggiata sulla tastiera dello strumento. Le dita esili si muovevano sulle corde, fermandosi a volte come ad assaporarne la consistenza. Il pollice premeva maggiormente sul lucido legno del manico. Mi affiorò nella mente l’immagine di quella mano che sfiorava in ugual modo il collo del suo amante guidandolo in un vortice di piacere. Percepivo i suoi lunghi capelli neri che si appoggiavano su di lui, su di me, mentre la guancia e le carnose labbra lo sfioravano. Sentii i sospiri di lei che riempivano le mie orecchie così come in quel momento stavano riempiendo l’aria della sua stanza. L’archetto, stretto con sinuosa decisione, percuoteva le quattro corde dello strumento con struggente impeto e passione. I suoni che si creavano sembravano dolci gridolini di piacere come quelli di un amante felice di essere battuto.
Il ventre piatto sussultava come un metronomo che batte il tempo in modo regolare e ipnotico. Lei si muoveva e di rimando lo strumento, vivo, spingeva e premeva il suo seno pieno e sodo fino a farne inturgidire i capezzoli. Entrambi seguivano la musica. Una suite di Bach se le mie reminescenze scolastiche non mi ingannano. Stretti l’uno all’altra. L’uno sull’altra oscillando sullo sgabello avanti e indietro. Cullati dalla musica. Incatenati da uno spartito. La musica sale sempre più velocemente. Poi riscende. Si stabilizza mentre i due amanti godono del rispettivo tepore. Poi la melodia accellera nuovamente. Ora mi lascio andare anch’io. Li seguo nel loro moto sussultorio attraverso la loro armonia. Sento il mio membro che si indurisce. Lo afferro come farebbe lei con l’archetto. Penso alle sue dita. La musica sale. Raggiunge il suo vertice. Percepisco il respiro di lei farsi affannato. Il mio si fa affannato. I battiti frenetici dei nostri cuori si fondono alla melodia. Veniamo insieme. La musica si ferma. Il suo capo si abbassa sul violoncello; il mio picchia sul vetro della finestra. La ragazza alza lo sguardo. Mi vede e mi sorride. Il volto ancora arrossato ma per niente imbarazzato. Ricambio il sorriso e realizzo che il mondo non è altro che eterna ed estatica armonia.
Il silenzio della neve torna a farsi strada per le vie della città.
Ripensandoci oggi è proprio la giornata giusta per scrivere qualcosa di buono.

AUTORE - SIMONE

BeNvEnUtA Leila B!!!

Diamo il benvenuto a una nuova scrittice... LEILA B!!!

Conosciuta a una soirée Romana è rimasta affascinata dalla nostra idea e così ha chiesto di poter pubblicare qualcosa sul nostro sito…

Quindi ecco qua il suo primo racconto!!!!
Occhio alle coronarie! :-)

13 marzo 2005

Vittoria!

Il bussolotto gira freneticamente. Uno, due, tre giri; rallenta e poi si ferma. La mano della bambina di turno, bendata a simulacro della dea della fortuna, si immerge tra le novanta palline argentate che vi si trovano all’interno. Per sei volte la stessa manovra. Per sei volte una voce chiama i numeri che compongono il codice della fortuna.
Ventisette!
Dodici!
Settantasette!
Due!
Sette!
I Numeri mi rimbalzano nella testa. Penso alla sequenza appena ascoltata. Il mio sguardo passa e ripassa sul tagliandino giocato la sera prima nella tabaccheria sotto casa.
Due...due.
Sette...sette.
Dodici...dodici.
Ventisette...ventisette.
Settantasette...settantasette!

Mi dico di stare stranquillo.Impossibile. Controllo ancora e ancora. Fermo l’immagine nella tv. Controllo ancora una volta. Non ho più dubbi! Ho vinto!

Mi alzo dalla poltrona e inizio a guardarmi attorno. Tutto mi sembra diverso. Mi sento spaesato, ho bisogno d’aria. Mi devo schiarire le idee. La mia vita sta cambiando.
Esco di casa. Passeggio un paio d’ore per una città vuota in una notte silenziosa. Mi sento bene, un uomo nuovo. La mia mente si alleggerisce. Non penso più a quel maledetto lavoro da impiegato che mi stava pian piano divorando. Non penso più al mutuo. Non penso più al quello strozo del mio capo che mi guarda dall’alto al basso solo perchè ricopre un posto di potere. Sento che le idee ritornano. Ritorna la creatività. Ritorna la libertà della gioventù che tanto mi è mancata. Guardo i negozi. Poi un’idea, o meglio una follia. Sorrido al pensiero di ciò che mi è venuto in mente. Più ci penso più mi sento libero. Mi sembra il riscatto di questi anni spesi a conformarmi ad un mondo che non mi appartiene. Un mondo che violenta la mia natura obbligandomi ad una vita insensata. Bene è deciso. Domani mi aspetta una giornata campale!

Sono le nove quando l’Inno alla Gioia mi sveglia e apro gli occhi su questa mattina di cambiamento.
La sera, prima di coricarmi, avevo previdentemente staccato tutti i telefoni. Ero deciso ad essere irrintracciabile almeno per quel giorno e forse anche per altri a venire.
Ancora assonnato mi gettai sotto la doccia e, dopo essermi asciugato, mi infilai una maglietta e un paio di vecchi jeans. Misi in tasca il portafoglio e le chiavi. Inforcai gli occhiali e dopo venti minuti ero già fuori casa.
La banca era a cinquecento metri, in linea d’aria, da dove abitavo. Una piccola filiale di zona con due soli sportelli e altrettanti gentili cassieri. Lasciate le chiavi nella cassetta di sicurezza entrai passando prima per il controllo della bussola. Entrambi gli sportelli erano vuoti quindi scelsi quello della giovane ragazza bionda che, vedendomi avvicirare, si prodigò in un enorme sorriso.
“Buongiorno mi dica.”
“Buongiorno a lei. Mi potrebbe dare il saldo del mio conto.”
“Certamente.”
La ragazza, dalle lunghe e agili dita, battè il numero di conto sulla tastiera e poi scrisse l’importo su di un foglietto che mi passò.
Nel conto c’erano circa diecimila euro. Ottimo pensai, il mio piano può proseguire!
“Mi potrebbe dare quattromila euro?”
“Certo. Come li vuole in tagli da cinquecento e cento euro?”
“Vorrei tre mazzette con venti pezzi da cinquanta e una con dieci pezzi da cento.”
“Perfetto ci vorrà qualche minuto.”
“Non c’è fretta. Faccia pure con comodo.”
La cassiera contò i soldi davanti ai miei occhi. Fece le mazzette, le fasciò e me le mise dentro una busta gialla. Firmai il foglio del prelievo. Salutai e uscii dalla banca contento per aver completato il primo punto del mio piano.
La seconda parte del progetto aveva lo scopo di dare una certa credibilità alla mia persona.
Entrai da Arnaldo Coiffeur, un parrucchiere alla moda, di cui avevo sentito parlare dalle mie colleghe. Il locale era molto minimalista. Tutto sui toni del grigio, con superfici in vetro, poltrone color ghiaccio e una miriade di specchi. Arnaldo, un omino minuto dai capelli corti e dagli occhi chiari, mi accolse come se mi conoscesse da una vita. Mi fece sedere proponendomi una serie di tagli che spaziavano dal punk post moderno al revival anni ’70. Decisi per un taglio classico. Capelli molto corti e all’indietro, e per un’aggiustata a pizzo e baffi. Le mie colleghe in effetti avevano ragione. Uscito da Arnaldo mi vedevo molto meglio. Mi aveva reso un pò più aristocratico.
La mia persona era quasi a posto mancava un bel vestito e qualche accesorio giusto per completare il tutto.
Perchè il mio piano riuscisse dovevo fare le cose in grande e così feci.
In piazza Voltaire c’era uno dei più vecchi, nonchè cari, negozi di abbigliamento sartoriale della città.
“Buongiorno”
“Buongiorno in cosa posso esserle utile?”
“Mi servirebbe un vestito in giacca. All’arrivo all’aereoporto ho scoperto che il mio bagaglio è andato perso e stasera ho un’importante cena d’affari. Il tassista a cui ho chiesto mi ha indirizzato qui da voi dicendomi che, se cercavo qualcosa di speciale, voi eravate il negozio giusto per me.”
“L’ha indirizzata indubbiamente bene. Nel nostro negozio troverà certamente qualcosa di suo gusto. Abbiamo più di cinquecento vestiti.”
Dopo circa un’ora in cui vidi e provai una decina d’abiti corredati di camicie, cravatte e scarpe mi decisi per un abito blu, leggermente gessato in marrone, di fresco di lana, corredato da una camicia azzurra in cotone battista. Le scarpe, bicolor sul marrone e beige, in stile “Old England” . Evitai la cravatta per non sembrare troppo formale e aggiunsi una cappello alla lobbia, delle stesso blu del vestito, per avere ancor di più l’aria eccentrica.
Vedendomi allo specchio del negozio così vestito e con il nuovo taglio di capelli stentavo io stesso a riconoscermi. La magia del vestir bene!
Feci mettere dal negoziante i miei vecchi abiti in un sacchetto e tenni indosso il vestito, le scarpe e il capello. Spostai le mazzette dei soldi dalla busta gialla alle tasche interne della giacca.
Pagai il mio nuovo abito e me ne uscii dal negozio.
Dopo pochi passi vidi un uomo seduto in terra che chiedeva le elemosina.
Lo guardai e senza neanche fermarmi gli lasciai il sacchetto coi miei vecchi vestiti.
Il suo grazie mi raggiuse che ormai ero lontano.
Camminavo con passo sicuro, come se non temessi più di scontrarmi con il mondo esterno.
Non mi sentivo più in balia degli eventi.
Ultima tappa prima di etrare nel vivo del mio progetto, era il negozio di antiquariato “L’Antico pozzo”. Buio come tutti gli antiquari, l’esercizio era gestito da un vecchio signore canuto che emanava lo stesso odore di polvere e lucido per legno di tutti quegli oggetti stipati nella bottega.
“Benvenuto, se ha bisogno mi dica pure” mi sussurò senza alzare gli occhi, incorniciati da spessi occhiali, dal giornale.

Mi diedi un’occhiata attorno già conscio di quello che stavo cercando. Spaziai lo sguardo su vecchie credenze in noce sulle quali erano appoggiati ninnoli di vari tipi in argento e ceramica. Tavolini intagliati, madonne in ebano e lampade in ottone dagli splendidi cappelli in vetro in stile liberty.
Poi finalmente il mio sguardo cadde su una rastrelliera di bastoni. Ne contai dieci Sette coi pomi in argento e tre dagli splendidi pomi in osso. Due in particolare attirarono la mia attenzione. Il primo aveva lo stelo intagliato, sembrava una colonna dorica che finiva, non con un capitello ma, con la testa argentea di un tucano. L’altro dallo stelo liscio e laccato di nero finiva con la testa di un segugio le cui orecchie cadevano lungo il bastone stesso. Soppesai i due oggetti. Entrambi davano l’idea di robustezza e solidità, eppure quello col tucano conquistò i miei favori stuzzicando la mia fantasia.
“Quanto per questo?”
“Centocinquanta euro. Sa è inglese dei primi del ‘900. Viene dall’India”
“Lo prendo, me lo può lucidare?”
“Certo signore. Glielo incarto?”
“No non si disturbi. Penso che un pezzo del genere abbia bisogno di un pò d’aria. Chissa da quanto tempo non fa il suo lavoro!”
“Sicuramente sono almeno trent’anni che non viene usato.”
“Pensi che noia poveretto!”
Preso il mio nuovo bastone da passeggio, ottimamente lucidato dal vecchio antiquario, uscii dal negozio incamminandomi verso la conclusione del mio folle progetto.
Attraversai un vicoletto che sbucava in una grande piazza circondata da quattro grossi palazzi dell’ottocento. Era possibile percorrere il perimetro della piazza anche nei giorni di pioggia senza bagnarsi grazie agli enormi portici siti sotto le quattro costruzioni. Dalla stradina si potevano già intravedere, sotto i porticati, i locali che ospitavano i negozi più belli della città. Quello era il centro nevralgico dello shopping della “gente bene”. Vi erano gioiellerie internazionali, pelliccerie, atelier d’alta moda, gli aperitif bar più trandy e alcuni dei negozi più importanti della città. Sotto quei portici c’era anche il mio obbiettivo ultimo. Sei vetrine ad angolo d’oggettistica d’arredo.
Il negozio era stato ricavato da una specie di chiostro. Al centro del negozio c’era una fontanella che raffigurava una donna nell’atto di versare una brocca d’acqua. Intorno ad essa si disegnava un quadrato di ciotoli e da li prendeva vita la pavimentazione in marmo che ricopriva l’intera superficie dell’immobile. Gli oggetti erano posti ordinatimente all’interno di vetrinette o su scaffali che, a sbalzo, uscivano dalle pareti, dando l’idea di essere un’estensione stessa del muro. Nelle vetrine non vi erano scaffali o mobiletti. Gli oggetti venivano presentati nella loro essenza semplice e splendente. Inseriti in scenografie idilliache nel rispetto del più fine design moderno.
Vi erano due banconi in cristallo posti vicino agli angoli, come ad ammirare l’intero ambiente o ad aspettare, come guardini silenti, i prossimi clienti. La luce che entrava dal chiostro creava splendidi effetti di colore quando si andava a infrangere sulle superfici dei vasi multicolori o dei pregiati cristalli multisfacettati. Dall’esterno sembrava un giardino delle meraviglie. Osservando quel luogo mi sentii in pace e non potei non pensare a come si fosse sentito Lucifero nel Giardino dell’Eden.
Guardai l’orologio e mi accorsi che era ancora presto per compiere l’ultimo atto della mia opera. Decisi quindi di sedermi ad un tavolino del Merilyn, situato proprio difronte al negozio, in attesa del momento propizio.
Arrivò circa verso l’una, quando mi accorsi che il negoziante stava per chiudere per la pausa pranzo.
Mi alzai sistemandomi l’abito. Tastai le tasche interne per accertarmi che le mazzette fossero ancora lì poi, con passo deciso, percorsi la breve strada che mi separava dal mio obbiettivo.
“Buongiorno signore.”
“Buongiorno a voi! Si può ancora o stavate chiudendo?”
“In verità stavamo per andare a pranzo ma possiamo benissimo rimandare a più tardi.”
“Ottima decisione, visto che sono qui per farvi fare un bell’affare.”
Il negoziante non fece niente per nascondere la sua perplessità.
“Sono un ricco nobile di madre inglese. Penso che voi mi possiate aiutare. Vedete questa sera sono stato invitato a cena da una mia cara amica è ho pensato di sorprenderla con un oggetto d’arredo per la sua nuova casa.”
“Siamo a sua completa disposizione Signore.”
“Benissimo perchè io sono molto esigente e amo fare shopping a modo mio.”
Estrassi dalle tasche della giacca le tre mazzette da cinquanta euro e le appoggiai sul bancone lasciando i due a bocca aperta
“Orbene, questi sono tremila euro, vorrei che la sua commessa si mettesse al bancone e tenesse il conto del costo di ogni singolo oggetto e lo sottraesse immediatamente dalle mazzette mentre lei mi mostrerà i suoi pezzi migliori.”
“Come desidera” rispose il negoziate incredulo.
Come da me richiesto mi portò i vasi più cari del suo negozio. Tre pezzi meravigliosi.
“Vorrei, se possibile, vederli alla luce. Potrebbe allinearli vicino alla fontana?”
“Certo signore.”
Servizievole come tutti i commercianti di quella zona che avevano a che fare tutti i giorni con ricchi pedanti e pieni di richieste.
“Ora si che ci siamo. Le dispiacerebbe iniziare a decantarmi le particolarità di ognuno di essi partendo dal meno caro?”
“Certamente. Il vaso alla sua destra, di un intenso blu cobalto ha la classica forma a cratere. La lavorazione è quella del vetro soffiato, un prodotto italiano fatto a Murano una trentina d’anni fa dai maestri vetrai veneziani. Nonostante la sua imponente mole, ben trenta centimetri di diametro, è estremamente leggero, quasi unico nel suo genere. Al suo fianco possiamo ammirare un vaso dalla foggia moderna. Un parallelepipedo, leggermente svasato al centro, dall’altezza di sessanta centimetri. Il pezzo, formato da un doppio strato di cristallo di Boemia, ha uno spessore di mezzo centimetro. Per ultimo ma non per importanza abbiamo un pregiatissimo vaso in cristallo Swarosky .
La sua forma classica è resa particolare dal motivo elicoidale che lo avvolge creando diverse sfacettature sulla sua superficie. Questo tipo di lavorazione è stata scelta per valorizzare la bellezza del cristallo. Infatti la luce che passa attraverso il vaso viene riflessa creando splendidi giochi di luce e colore.”
“Impressionante. La sua spiegazione mi ha fatto innamorare di ognuno di questi vasi. Sarà veramente difficile fare una scelta. Il primo ha veramente un colore splendido e nella sua mastodonticità è di una eleganza incomiabile...Quanto viene?”
“Cinquecento euro”
“Conti cinquecento euro signorina” dissi rivolto alla commessa che, con una certa riluttanza e incomprensione, aprì una mazzetta e ne contò le banconote fino ad arrivare alla cifra stabilita.
Appena la ragazza fini l’operazione appoggiando da parte la mazzetta da cinquecento, mi affiancai al vaso facendo piroettare il bastone che ripresi per il fondo.
“Si molto bello ma a pensarci bene penso che con l’arredo della mia amica non ci stia un granchè. Scartato.”
Con un colpo da fare invidia a Tiger Woods mandai il vaso in frantumi. I pezzi di vetro soffiato di murano volarono in aria per poi ricadere come una leggera pioggia estiva sul pavimento del negozio.
Il negoziante, ripresa la sua postura dopo essersi accartocciato su se stesso per lo spavento, iniziò ad inveire.
“Ma è impazzito?!!”
“Assolutamente no. Il vaso non era adatto e quindi non mi interessava. Passiamo oltre.”
Vidi nel suo sguardo il puro sbigottimento e sentii un sorriso nascermi dentro.
Non volevo dargli il tempo di riprendersi completamente quindi procedetti con il secondo oggetto.
“Questo forse è più adatto. La sua casa nuova è molto moderna quindi le linee semplici di questo vaso le piacerebbero sicuramente. Quanto le devo per questo?”
“Mille euro” mi rispose la timida voce della commessa da dietro il bancone.
“Prenda pure la seconda mazzetta. Sono esattamente mille.”
Dandole appena il tempo di appoggiare nuovamente la mazzetta sul mucchietto precendente e anticipando una lieve reazione del negoziante, come un pendolo che segna l’ora del destino, il pesante becco d’argento del tucano sfondo il doppio strato di vetro di Boemia. Nel tornare nella posizione di partenza il tucano finì la sua opera polverizzando quello che rimaneva del vaso e lasciando nell’aria una scia di frammenti, come una stella cadente che attraversa l’oscurità della notte.
“Mi è venuto in mente che la mia amica odia il cristallo di Boemia!”
“Lei è pazzo! Esca immediatamente di qui o chiamo la Polizia!”
“La Polizia e per quale motivo?! Se ci pensa quei due vasi erano miei e quindi delle mie cose ho il diritto di farci ciò che voglio.”
“Ma non nel mio negozio!”
Il negoziante era completamente paonazzo ed io faticavo a non ridere.
“Si calmi ormai ho deciso prendo quello di Swarosky. Quanto?”
“Millecinquecento euro!”
“Ottimo neanche troppo esoso. Conti pure signorina!”
Il mio mucchietto era finito, mentre quello del negoziante era bello corposo.
Sollevai il vaso e mi avviai al bancone osservando l’ultimo prezioso monile rimasto con interesse.
“Glielo incarto?” chiese la commessa con gli occhi arrossati mentre il negoziante continuava a fissarmi pieno d’ira.
“Ecco cosa mi stavo dimenticando! La mia amica ha una casa molto buia. Neanche questo va bene!”
Lanciai il vaso contro la porta di ingresso. Mai visto niente del genere. Il doglio esplose letteralmente. Per un attimo il negozio fu invaso da milioni di arcobaleni. Polvere di diamanti ecco cosa mi venne in mente in quel momento. Eravamo rimasti tutti sbalorditi chi per un motivo chi per l’altro.
Uscii dal negozio lasciando la ragazza con l’arduo compito di calmare e far riprendere il negoziante che per il disturbo si ritrovò più ricco di altri mille euro.
Attraversando la piazza dopo quella follia mi sentii sempre più felicie. Ero finalmente libero. Rinato. Fui invaso da una gioia smisurata che si sfogò in una fragorosa risata e in una corsa a perdifiato verso casa.
Ve lo immaginate un uomo elegantemente vestito che corre ridendo come un pazzo facendo ruotare il bastone sopra la testa per le strade di una tranquilla città?!

Autore - Simone

Iniziazione

I due ragazzini entrarono furtivamente nella chiesa. Entrarono dalla sacrestia, muovendosi come fantasmi nel gioco d’ombre e luci che le candele votive proiettavano nella grande navata centrale. Era mezzanotte, tutto era buio e immerso nel silenzio. Si recarono furtivi dietro l’altar maggiore, facendo il segno della croce mentre passavano sotto il grande crocifisso di legno raffigurante il Cristo trionfante; ad ogni passo l’eco rimbombava nel grande edificio vuoto. Dietro all’altare c’era un pesante portone di ferro e legno, molto antico. Lo stipite della porta recava incomprensibili motti latini, in parte corrosi dal tempo. Uno dei due, il figlio del sacrestano, infilò una grossa chiave di bronzo nella serratura e la girò; l’antico meccanismo sferragliò e il portone si socchiuse con uno scatto.
“Marco, non puoi fare più piano?!” chiese l’altro, mentre le mani gli tremavano.
“Stai tranquillo: mio padre ha il sonno pesante e queste mura sono spesse. Ricordati, noi tutti lo abbiamo già fatto, ci manchi solo tu.
“Lo so. Non c’è bisogno che me lo ricordi, sono già abbastanza spaventato”
Marco spinse il portone, rivelando un centinaio di scalini scavati nel tufo. “Entra, Luca ¬– disse all’altro – scendi la scala e sarai nel corridoio dei morti. Vai fino in fondo, sono circa cinquecento metri di tombe. Alla fine c’è un muro di pietra, con delle iscrizioni, quella è la tomba dell’abate. Fermati lì, tra cinque ore ti verremo a prendere, e sarai uno di noi. Lascerò la porta socchiusa, così se avrai paura potrai uscire. In quel caso però la prova non sarà superata.
Luca iniziò a scendere la scala, mentre l’altro accostava il portone fino a lasciare solo un piccolo spiraglio e vi apponeva solennemente un rudimentale sigillo fatto con chewing-gum e fil di ferro. “Così non potrai barare”
Ad ogni scalino Luca sentiva il cuore battere a velocità sempre più forte; aveva con se una torcia e la tenne ben dritta di fonte a se. Alla fine della scala la galleria, scavata nella montagna cui era adagiata la chiesa, si strinse e Luca si trovò nel corridoio dei morti.
Il corridoio era un angusto cunicolo scavato nella montagna cui era appoggiata la chiesa. Un tempo, in quel luogo, c’era stato un complesso monastico piuttosto grosso, intorno al XII secolo; per trecento anni i frati avevano sepolto i propri morti in quella galleria, in nicchie scavate su ambedue i lati. Poi il monastero era decaduto e ora di quel complesso restava solo un paese di poche anime stretto intorno alla chiesa adagiata nella roccia. Il corridoio era rimasto dov’era, con i suoi antichi ospiti, oggetto di culto e di leggende. Il luogo non era aperto al pubblico ma solo alla preghiera dei paesani durante la festa del patrono, per questo era poco illuminato. Gli antichi sacelli di pietra erano ora protetti da un vetro, da cui le ossa bianche dei frati ammiccavano coperte da sai sdruciti. Non vi era il nome sulle tombe, ma solo la data di morte: i più antichi si trovavano all’inizio, i più recenti in fondo.
Il ragazzino si mosse con passi cauti, la torcia accesa, stretta maniacalmente tra le mani. Aveva con se una borraccia d’acqua, ne bevve un sorso. Stava attento ad illuminare solo davanti a se. Aveva la percezione delle tombe ai suoi lati, ma non voleva vederle; ogni tanto con la coda dell’occhio coglieva un teschio, un dito incartapecorito e il sudore gli imperlava la fronte. L’odore di chiuso e di cera gli seccava le mucose. “Chi me lo ha fatto fare – pensò – per entrare in questo stupido gruppo”
Si fermò attirato da un rumore in lontananza, girandosi di scatto verso il portone socchiuso, che era ancora a poche decine di metri. Rimase in attesa. Il rumore non si ripeté e Luca si rimise in cammino, cautamente, col terrore di pestare, nella penombra, un osso o qualche topo.
Impiegò un tempo lento ed incalcolabile per percorrere i cinquecento metri del corridoio roccioso. In fondo la galleria era stata chiusa, in epoche lontane da un muro di pietra, ricoperto da iscrizioni in latino e da simboli religiosi. Secondo la tradizione dietro quel muro era stato sepolto vivo l’ultimo abate del monastero nel XV secolo. Suo padre gli aveva raccontato che l’Abbazia era diventato un centro di pratiche occulte ed eretiche; più volte il Sant’Uffizio aveva indagato su quello che avveniva nel monastero. L’abate, un certo Filippo, fu scoperto mentre partecipava ad un Sabba con varie streghe. Le donne furono tutte bruciate sul rogo mentre Filippo e la sua concubina, pure lei una strega, per rispondere ad una strana premonizione dell’inquisitore, furono murati nelle catacombe. I vecchi raccontano che l’Abate maledisse il monastero ed il paese. Pochi anni dopo una grande epidemia decimò la popolazione della zona e un terremoto danneggiò il monastero; poco dopo il complesso monastico fu abbandonato e andò in rovina. Solo la cattedrale restò e con essa il corridoio dei morti. Pare che di notte vi si aggiri lo spettro dell’Abate, lamentandosi e maledicendo tutti. Luca non credeva a quella storia, ma il posto era alquanto tenebroso: cinquecento metri di tombe lo separavano da una porta socchiusa. Stese il modulo da campeggio e si sedette, prestando attenzione a non appoggiare la schiena alla fredda pietra della tomba dell'Abate. Il pavimento era duro e scomodo; aveva sperato di portare un materassino gonfiabile, invece che la sottile stuoia da campeggio, ma non aveva potuto. Aveva detto ai suoi che sarebbe andato a campeggiare nel bosco con gli amici. “Li ti è sufficiente il modulo – aveva detto la madre – l’erba è morbida e il materassino mi serve pulito per tua sorella, che parte con gli scout domenica”. Lui non aveva potuto dirle la verità e ora si trovava a tentare di rilassarsi sulla nuda roccia.
Scrutò il quadrante luminoso dell’orologio, uno Schwatch avuto come regalo di compleanno; era quasi l’una di notte: mancavano più quattro ore alla sua liberazione. Rabbrividì.
Si aggiustò più comodamente sul modulo e prese un fumetto di Paperino dallo zainetto, tentando di leggere alla luce della torcia. Per un po’ da Zio Paperone nella ricerca di un tesoro del quale, come al solito, il povero nipote dell’avarastro non avrebbe visto un cent. Puntuali i Bassotti tentavano di mettere i bastoni tra le ruote ai paperi, ma la sagacia di Qui, Quo e Qua e il loro onnisciente Manuale salvavano la situazione. Luca ridacchiava mentre scorreva il giornalino, sicuro che con quel talismano sarebbe rimasto fresco come una rosa fino all’ora x.
Qualcosa si mosse nel buio, rompendo l’incantesimo. Il ragazzo urlò ottenendo l’amplificata risposta di un’eco. Puntò la torcia tutto intorno, freneticamente. Gli scheletri muffiti erano immobili, ma a Luca parve di cogliere un’espressione divertita tra quei denti malfermi e in tra le occhiaie vuote. Bevve un sorso d’acqua e riprese a leggere di come Paperone aveva guadagnato il suo primo fantastiliardo.
Di nuovo il rumore lo distolse, più vicino e nitido: uno sbattere d’ali frenetico. Un’ombra calò sulla sua faccia, lui urlò di nuovo, colpendo l’aria con la torcia. Poi finalmente il pipistrello entrò nel fascio di luce della torcia, per un istante; Luca mosse il cilindro luminoso e le mani all’impazzata, finché l’animale, che evidentemente era spaventato più di lui, si infilò in una crepa da qualche parte sopra il muro dell’Abate, dopo essersi dimenato contro il soffitto un paio di volte. Dunque al di la della parete c’era davvero qualcosa. Il ragazzino rabbrividì: forse la storia dell’Abbazia posseduta dal dominio e dell’Abate eretico era vera; forse davvero Filippo e la sua donna strega davvero erano stati murati dietro quella parete. Una delle salme parve annuirgli, dal suo letto di pietra; il cappuccio sembrò fremere come se il teschio stesse muovendosi in segno affermativo. Luca illuminò la parete rocciosa e la osservò meglio, mentre la pelle d’oca lo avvolgeva e i testicoli si rimpicciolivano al rango di noccioli. Era un muro vecchio e con parecchie crepe e fenditure; varie immagini di roghi e processioni erano state dipinte sulla roccia e ora in gran parte erano state cancellate dal tempo e dall’incuria. Evidentemente in pochi erano intenzionati a restaurare quel muro sacrilego. Lui non capiva le iscrizioni, ma gli avevano raccontato che erano in latino e che erano riti di protezione, perché gli spiriti non uscissero. Non ci aveva mai creduto, fino a quella sera almeno.
Finalmente vide una crepa più profonda, nel punto in cui il muro incontrava la parete destra della galleria. Era abbastanza grande per guardare al di là; ci introdusse, tremante la torcia. Il corridoio scavato nella montagna proseguiva fin dove la luce poteva illuminare. Vedeva un'altra nicchia nella parete, stavolta senza ospite incappucciato; forse avevano predisposto altre sepolture, poi vi avevano rinunciato. Tutto era vuoto e silenzioso.
Si rilassò un poco e si sedette di nuovo. Non si era certo immaginato di vedere una sorta di riunione spettresca, dall’altra parte, ma il non aver visto qualche scheletro pronto a sorprenderlo nel sonno lo aveva un po’ tranquillizzato. Visto che i frati morti non si erano mossi per secoli, si disse, poteva spegnere la luce e tentare di rilassarsi: non voleva rischiare che la pila della torcia si esaurisse; ne aveva portata una di riserva, ma non era facile cambiarla alla luce dei ceri, con la mano che ti tremava.
Guardando il buio dove doveva trovarsi il soffitto, stringendo la pila spenta in grembo, pensò ai frati che avevano scavato pazientemente un cunicolo nella montagna per seppellire i propri morti, invece che seppellirli comodamente nel cimitero del paese, quasi a volerli tenere segregati, piuttosto che per dargli degne esequie; pensò al terrore dell’Abate costretto a morire lentamente dietro un muro di pietra che lo separava da una catacomba: quanto ci aveva messo a morire di fame e sete? Era morto prima lui o prima la sua strega? Ma lo avevano veramente murato vivo? O era già morto?
Mentre lasciava la mente libera di fantasticare, lentamente un torpore lo avvolse e incredibilmente si addormentò in mezzo a decine di scheletri. Sognò uno spettro, l’abate, che correva verso la porta di uscita tra le ovazione degli altri morti, urlando e maledicendo tutti i vivi. Vide un altro spettro volare su una scopa dietro il primo, pronunciando frasi in una lingua sconosciuta.
“Li distruggeremo tutti!” Urlava l’Abate
“Si distruggiamoli” rispondevano in coro gli altri, mentre scendevano agili dai loro sacelli in pietra. “Impareranno a chiuderci qui dentro”. Il portone fu spalancato, tutti i ceri si spensero all’unisono e i morti uscirono dal loro corridoio, lasciandolo solo.
Si svegliò di soprassalto. Tutto era piombato nel buio: i ceri erano spenti. Tremando col cuore che gli rimbombava nel petto cercò tentoni di accendere la torcia. Quando il rassicurante fascio di luce squarciò il buio, Luca trasalì. Gli scheletri vicino a lui si erano mossi: uno di essi, che era stato riposto nella fila più alta di tombe, giaceva fracassato sul pavimento. Una parte di muro, dove prima c’era la fenditura in cui aveva guardato dentro, era crollata rivelando la galleria vuota. “Tranquillo – tentò di controllarsi – non è niente. Sarà stato un terremoto. Ora è meglio uscire da qui. Non mi importa un fico secco di quello che penseranno gli altri: quel muro non mi sembra molto stabile, la prossima volta potrebbe cascarmi in testa. Si alzò di scatto ma qualcosa lo trattenne.
Sentì una stretta energica alla spalla sinistra. Urlò e tirò più forte in preda al panico. La torcia gli scivolò dalle mani viscide di sudore e si spaccò sulla roccia. Il buio lo avvolse di nuovo. “NO” urlò. Si era dimenticato di portarne un’altra. In lontananza gli sembrò di sentire un ghigno e uno scuotersi d’ossa. Tirò con tutte le sue forze, il cuore diventato un martello pneumatico. Per un attimo tutti i lumini parvero riaccendersi, poi il buio lo avvolse.

Quando Marco sentì la scossa di terremoto corse a tirar fuori l’amichetto. Temeva che il padre andasse a vedere i danni della cripta e vi trovasse Luca. Arrivò al portone socchiuso e lo aprì. “Luca – chiamò – la prova è finita, l’hai superata. È troppo rischioso stare lì, ora”. Nessuna risposta. “dai non fare lo scemo, rispondimi” urlò scendendo alcuni gradini. Solo giunto all’imboccatura della cripta si accorse che tutto era immerso nel buio. Per rendere più sinistro l’ambiente non aveva detto all’amico che la galleria aveva un’illuminazione elettrica. Ora si diresse al quadro e l’accese.
“Oddio!” gridò facendosi il segno della croce e correndo verso il fondo del corridoio.
Luca giaceva appoggiato al muro dell’Abate, gli occhi sbarrati e un rivolo di sangue che gli era uscito dalla bocca. La sua pila era spaccata a terra; alcune salme erano state sbalzate sul pavimento dalla scossa tellurica. Quando Marco gli fu più vicino, vide che Luca era rimasto impigliato nell’ossuto dito di una mano scheletrita. Il cadavere cui apparteneva doveva essere stato murato dentro la parete di pietra. Il terremoto lo aveva liberato. Quando Marco lo liberò da quella stretta il corpo di Luca si accasciò al suolo come una marionetta. “Papà – chiamò a gran voce, mentre fuggiva letteralmente da quel luogo malefico – corri. Una disgrazia”
Infarto, avrebbe in seguito sentenziato l’autopsia

AUTORE - GABRIELE

SCONFITTO

IN FASE DI PUBBLICAZIONE CARTACEA
A PRESTO IL LINK DELL'ANTOLOGIA IN CUI POTRETE TROVARLO
AUTORE - GABRIELE

UN'ALTRA POSSIBILITA'

IN FASE DI PUBBLICAZIONE CARTACEA
A PRESTO IL LINK DELL'ANTOLOGIA IN CUI POTRETE TROVARLO
AUTORE - GABRIELE

12 marzo 2005

NuOvO AuToRe!!!

Benvenuto a Gabriele Sorrentino che da oggi fa parte degli autori di questo Blog e che si presenta subito con tre suoi racconti!


BENVENUTO GABRIELE!!!!! :-)

07 marzo 2005

Il tarlo, il chiodo

E’ una sensazione strana. Ti prende all’improvviso. Ti chiede attenzione, e se non gliela dai, se la prende lo stesso. E’ come quando guardi un tramonto, senza vederlo veramente, e non appena realizzi la sua bellezza, rimani senza fiato e devi costringerti a respirare. Per non morire. Una sensazione odiosa, perché percepisci la forza della sua necessità. Una forza a cui non ti puoi sottrarre, non puoi contrapporti, perché sai che ne usciresti malconcia, zoppa, sconfitta.

E’ un tarlo che scava nella mente. Un chiodo piantato in una mano. E’ un’ulcera, che insidiosa decide di darti noia e sofferenza è lei a deciderlo. Il pensiero subdolo e urgente di quello che gli faresti, se lo avessi lì accanto, e foste soli, ti invade e non ti abbandona fino a che, in qualche modo, non si sente soddisfatto. Un pensiero tanto più invasivo quanto più inaspettato. E ti chiedi perché proprio lui, che magari non avevi visto fino al giorno prima. Non lo avevi notato, presa da altre faccende, da altri uomini, da altre possibilità. Non è il tuo tipo. Non ce l’hai nemmeno un tipo ideale, ma questo non lo prenderesti in considerazione, proprio mai. Eppure una prima volta c’è sempre, per tutto. Anche per uno come lui.

E così, cerchi il suo sguardo. Inizi a chiedere di lui, quando non c’è. Sogni, di lui. Fino ad arrivare a chiederti se stai diventando pazza. L’uomo che hai accanto non sa niente. Condivide con te la vita di tutti i giorni, ma non sospetta nulla. Non sa che, nella notte, nel vostro letto, ti accarezzi e lo fai pensando a un altro, ma non a uno qualsiasi. Non sa che stai diventando schiava di una fantasia, e che faresti di tutto per soddisfarla. Non sa che ti svegli al mattino, ti alzi e gli prepari la colazione, come se niente fosse, ma in realtà senti l’inguine che brucia, lo stomaco sottosopra, e una biglia di fuoco che spinge nel tuo ventre. Non sa e non deve sapere. La gelosia lo corroderebbe dall’interno, gli scioglierebbe le interiora come soda caustica. E’ un segreto che hai con te stessa, e ti va bene così.

Il tarlo scava. Il chiodo spacca. L’ulcera grida. E ti ritrovi davanti allo specchio a farti bella, perché quella sera a cena c’è anche lui. Ti guardi, dai l’ultimo ritocco al trucco, indossi il gloss luminoso, il vestito scollato, e cerchi di capire che cosa sia scattato. Il perché di tutto questo. Il motivo dell’urgenza, della frenesia, del desiderio. Ti domandi che cosa sia successo. Che cosa manca nella tua vita che ti porta a volerlo con tutte le tue forze. Escludi tutte le possibilità, una dopo l’altra. E ti accorgi, senza quasi rendertene conto, che non ti manca nulla, assolutamente nulla. Capisci che forse il problema è quello: hai tutto, cosa puoi volere di più. Eppure, è evidente, capisci che qualcosa di altro da desiderare c’è sempre.

Vuoi sentirti viva. Vuoi amarlo. Vuoi vederlo senza vestiti addosso. Vuoi conoscere il suo sapore. Vuoi mordere i suoi fianchi e affondare le unghie nella sua schiena. Vuoi avvinghiare le tue gambe attorno a lui, tenerlo stretto, addosso a te. Vuoi farti schiacciare. Vuoi farti prendere. Vuoi farti scopare. Da lui. Lui, che fino al giorno prima vedevi come un semplice amico, e nulla più. E che, se più ci pensi, più ti sfugge il meccanismo. L’ingranaggio si cela ai tuoi occhi. La molla diventa mistero. E rimani col dubbio, col tarlo, con la solita, fottuta domanda. Perché?

Ma non importa, in fondo. Vuoi conoscere. Vuoi che quella sensazione di necessità ti abbandoni, ti lasci in pace. Vuoi che il pensiero martellante di lui, sedotto, che ti prende senza inibizioni né remore, ti abbandoni, perché non ne puoi più. Ti serve una tregua. Sei sull’orlo della follia, stai per scoppiare, ti serve una scusa, in fretta. Lo chiami sul cellulare, hai il suo numero da un po’ di tempo, è tuo amico. Gli chiedi un aiuto, per la cena, lo inviti a casa tua mentre il tuo uomo non c’è. Ci mette poco, suona il campanello, tu gli apri e lo fai entrare. E lui capisce dal tuo sguardo che qualcosa non torna. Che non è per il vino che è lì, e nemmeno per il dessert. E’ lì per te. Perché lo desideri, glielo fai capire chiudendo la porta con un movimento da gatta, inarcando la schiena e spingendo in alto il sedere. Non fa domande, e nemmeno tu. Hai già le risposte in testa e non ti serve altro. Ti avvicini a lui, morbida, insinui la tua lingua nella sua bocca, assapori quello che vai agognando da tempo, non ricordi da quanto. Sai quello che vuoi. Gli sfili la giacca senza pudore, lo tocchi, sfrontata, in mezzo alle cosce. Lo spingi sul divano, ti alzi il vestito, sei nuda sotto, e ti fai prendere. Ti fai godere. Ti lascia godere.

Hai conosciuto. Rimani in silenzio, in ascolto. Qualche secondo. Lui fa per parlare, ma gli metti il dito sulle labbra, decisa, a chiudergli la bocca. Senza dire nulla, lo guardi negli occhi, ma non lo vedi. Ascolti, e all’improvviso, dopo tanto, non senti nessun rumore. L’ulcera non grida più. Il chiodo ha smesso di battere e pulsare nella mano. Il tarlo è svanito. E’ stato più veloce di quello che avevi immaginato, l’intensità e l’eccitazione di quel momento hanno bruciato in fretta i minuti. Non ti importa. Il tarlo tace, ormai. E mentre lo osservi rivestirsi, mentre tu ti ricomponi, ti chiedi all’improvviso come diamine hai fatto. Dopotutto, anche se non hai un tipo ideale, tra tanti, proprio lui: ci deve essere qualche motivo oscuro. Così oscuro, che non lo saprai mai. Ma capisci che, dopotutto, non te ne importa più.

Autore - Eliselle

01 marzo 2005

Ricordi d'acciaio

Nessuna voce. Nessuna parola.
L’ambiente riecheggia del rumore dell’acciaio che cozza contro altro acciaio.
L’aria è sferzata da fendenti parate e affondi. Poi, come se una magia avesse fermato il mondo, tutto tace. Tutto è immoto. La vita riprende solo nel momento in cui esce dal corpo di uno dei due contendenti. La vita scorre in quel fluido, caldo e rosso, che fuoriesce dallo squarcio alla gola. Niente rimorsi. Niente rimpianti, solo odio. L’odio di una vendetta ormai finita. L’odio che per anni ha dato forza al suo animo. L’odio che si è fuso all’amore, in eterno racchiuso nella lama di suo padre. La lama che ha perpetrato la loro vendetta…


Nel tepore della fucina si sentiva a casa. Riparato e al sicuro come quando da piccolo si nascondeva nel grembo di sua madre. Il fuoco della forgia aveva il potere di ipnotizzarlo. A volte, mentre batteva il rosso acciaio, alzava lo sguardo e nel tempo che impiegava a detergersi il sudore dal viso gli capitava di rimanere incantato da quella danza cremisi. perdendosi in lunghi pensieri. In ricordi lontani estremamente vividi. Il fuoco aveva il potere di rapirlo completamente.
Il suono di un campanello lo strappo alle sue considerazioni riportandolo alla realtà. Qualche cliente era entrato nella bottega. Con passo svelto lasciò la fucina oltrepassando la piccola porta in legno che divideva i due ambienti.
“Buongiorno mastro Andrea!”
“Buongiorno a lei Signor Rupieri! Mi dica, in cosa possa aiutarla?”
“Vede mastro Andrea, giorni fa, feci fare alcuni scavi nei pressi di una vecchia chiesa di campagna su uno dei miei poderi. Durante gli scavi venne ritrovata una vecchia cripta al cui interno, ancora stretta nella mano del suo presunto proprietario fu ritrovata questa…”
Rupieri appoggiò sul bancone un involto di tessuto legato agli estremi da un paio di nastri di spago.
Sciolti i nodi e aperti i due lembi di panno si scopri che l’involto non era altro che il sudario di una splendida spada.
Dal tipo di fornimento la spada poteva risalire all’incirca alla seconda metà del XVII secolo. Vari rami d’acciaio intrecciati con oro secchino e argento si univano, infittendosi sempre più, a creare una schermatura per il dorso della mano. Altri rami sembravano partire dalla stessa lama e con flessuosità paragonabile alle spire di un serpente, si fondevano creando l’elsa. Il pomo, una specie di gabbia con la forma di un fiore ancora chiuso, dava l’idea di proteggere all’interno dei suoi petali un bene prezioso. La lama, leggermente ossidata, era lunga all’incirca ottanta centimetri e percorsa nella sua interezza da un motivo arabesco.
“Veramente un capolavoro!” Escalamò Andrea.
“Sapevo che avreste apprezzato” disse Rupieri sfoggiando un ampio sorriso.
“Voi siete l’unica persona a cui potevo affidare il restauro di questo antico gioiello. Una volta che il vostro lavoro sarà finito e la spada sarà tornata al suo antico splendore la regalerò al nostro museo. Quanto tempo pensiate vi occorra per compiere questo miracolo?”
“Non saprei Signor Rupieri. Sono cose molto delicate. Devo capire quanto lo scorrere del tempo e le ossidazioni abbiano intaccato l’acciaio. A prima vista l’arma mi sembra in buone condizioni. Guardi il cuoio dell’impugnatura. Se non fosse per questa leggera scollatura sarebbe ancora perfetto”
“ Vedo… Penso che vi lascerò una settimana per fare le vostre valutazioni. Arrivederci.”
Senza lasciare possibilità di replica ad Andrea, il basso ometto dai folti baffi, girò le spalle al bancone e riprese la porta immergendosi nel secco freddo dell’inverno montano.
Scosso da una così repentina uscita di scena dell’uomo, Andrea afferrò l’arma e con passo deciso ritornò nella sua amata fucina.

***

L’ora del pranzo era ormai giunta e, come succedeva ormai da dieci anni, Lara entrò nella fucina dalla porta sul retro. Teneva in mano un bel cestino di vimini. Andrea vedendola sorrise. Avvolta com’era nel suo cappotto, col cappuccio ben calcato in testa e il cestino in mano non potè fare a meno di pensare alla piccola cappuccetto rosso che portava il pranzo alla nonna.
“Buongiorno piccolo!” gridò prima di lanciargli le braccia intorno al collo e affondare il viso fra i suoi capelli.
“Ciao amore mio! Com’è andata la giornata a scuola?”
“Meravigliosamente!Oggi abbiamo parlato del mio personaggio storico preferito. Dovevi vedere i bambini com’erano presi. È stato incredibile. Una delle poche volte che non ho dovuto imporre il silenzio neanche una volta!”
“Anche per me è stata una giornata davvero incredibile e sono convinto che ciò che ti mostrerò riempirà di stupore anche il tuo grande cuore.”
“Di cosa si tratta? Dai Dimmelo!” insisteva Lara fissandolo con quei suoi occhietti furbi e pieni di curiosità. Andrea si sentiva sempre indifeso di fronte a quello sguardo. Non vi era nulla da fare. Ogni volta che gli occhi blu di lei gli si posavano addosso in quel modo a lui non rimaneva altro da fare che assecondare le sue richieste.
“Allora! Me lo vuoi dire oppure mi vuoi tenere sulle spine ancora per molto tempo?!”
“Ok hai vinto. Te lo dirò ma ad una sola condizione.”
“Cioè?” rispose lei alzando un sopracciglio e lasciandogli intuire che non sarebbe stato facile raggirarla.
“Che tu mi dia il contenuto di quello splendido cestino!”
Lara rimase un attimo incredula e poi scoppiò in una grossa risata.
“E sia!”
Alzò il panno, che aveva messo per coprire le vivande, rivelando un bel paio di cosciotti di pollo, una pagnotta di pane ancora caldo e una bottiglia di vino rosso.
“Adesso tocca a te! Su fammi vedere questa cosa, a tuo dire, stupefacente!”
Andrea, con già le mani nel cestino, le indicò l’involto che il signor Rupieri gli aveva lasciato invitandola ad aprirlo.
Lara rimase sbigottita. La spada era splendida.
“Incredibile Andrea. Dove l’hai presa?”
“Il signor Rupieri l’ha trovata in uno scavo. Me l’ha portata da restaurare.”
“Ma se è perfetta. La lama è così lucida che mi ci potrei specchiare nonostante la sua brunitura.”
“Avresti dovuto vederla quando mi è stata portata. Lama e fornimento erano leggermente ossidati, così ho iniziato a ripulirli con alcuni solventi che solitamente uso nei restauri. Ero convinto che questo primo trattamento avrebbe tolto solo la ruggine più superficiali dato che l’arma ha più o meno duecentocinquantanni. Invece, come per magia, il solvente ha ripulito l’intera superficie come se l’ossidazione che la ricopriva fosse di appena una ventina d’anni!”
“Incredibile” sussurrò Lara sbigottita.
“Posso prenderla?”
“Certo. Soppesala. Senti che perfetto bilanciamento”.
Lara sollevò l’arma e la fece mulinare sopra di se tirando alcuni fendenti e simulando diverse parate.
“Sorprendente. Veramente un’arma versatile. Sicuramente fu fabbricata per un nobile molto ricco…”

Per un anno intero il maglio colpì ininterrottamente. L’acciaio entrava e usciva dal fuoco e poi dall’acqua. Mani possenti afferravano quel metallo che sarebbe diventato arma. Mani possenti lo modellavano. Le stesse mani, lo stesso cuore ne incideva la lama ormai pronta. Ricamava il fornimento con fili d’oro zecchino e d’argento. Ricopriva l’impugnatura di un cuoio nero come pece. Una voce parlava. Un pensiero fuggiva. Figliolo guarda il capolavoro di tuo padre. Qui è il suo cuore. Qui la sua arte. Qui la sua anima. Il buon Conte ne sarà soddisfatto. Amerà l’arma come io l’amai nel farla. Questo amore ti permetterà di divenire qualcuno mio caro figliolo...
Una mano guantata afferra l’arma. Leggeri delicati i movimenti nel sferrar fendenti; nel soppesare il peso e il bilanciamento. Ben fatto amico mio. Indolenza in quella voce. Non curanza per nessuno. Ti ricompenserò per la tua arte. Ti darò un mondo solo per te così non dovrai farne di più belle. Ti darò il mondo dei Cieli!
Un colpo fendette l’aria. Leggero. Veloce. Incontrastato. Un colpo letale che inondò la lama rendendola cremisi come solo il fuoco o il sangue può fare. Il cuore che creò quel capolavoro si spense. Il corpo che conteneva quel cuore si accasciò. Una sola immagine rimase di quell’attimo.
Gli occhi vacui di un figliolo che mai più diverrà qualcuno se non la stessa vendetta.


“Finalmente ti sei ripresa. Stavo per chiamare il dottore.”
“Andrea che succede? Come mai mi trovo sdraiata a letto?”
“Come, non ricordi?!“
“Stavi provando la spada quando, improvvisamente, ti sei bloccata. Sembrava avessi visto un fantasma. Vedendoti in quello stato ho iniziato a chiamarti. Niente. Non rispondevi. Continuavi a fissare il vuoto. Mi sono avvicinato per scuoterti. Proprio in quel momento hai lasciato cadere la spada e mi hai fissato con occhi vacui. Sembrava che non mi avessi riconosciuto. Subito dopo sei svenuta e ti ho portato in braccio fino al letto. Non ricordi proprio niente?”
“Ricordo solo di aver avuto una strana sensazione. Mi sono trovata al di fuori della fucina. La mia mente è stata come invasa da un flusso di immagini lontane. Ho avuto, per un istante, il sentore di vivere i ricordi di un altro. Ero con lui, ma in realtà non c’ero. Come può essere possibile?”
“Forse è stata l’emozione. Avere un oggetto così antico tra le mani potrebbe avere attivato il tuo subconscio e averti fatto vivere una specie di sogno.”
“E lo svenimento come te lo spieghi?”
“Potrebbe esser stato un semplice mancamento dovuto alla pressione o a un po’ di stress emotivo”.
“Eppure… Sembrava così vivido. Come se fosse accaduto realmente in un qualche luogo del passato”.
“L’importante è che tu stia bene” le sussurro Andrea sfiorandole la fronte con un bacio.
“In ogni caso sarà meglio che tu faccia, ugualmente, una visita al dottore. Tanto per stare più tranquilli.”
Lara sorrise vedendo sul volo di lui i segni della preoccupazione.
“Certo caporale!!!” lo canzonò lei ricambiando il suo bacio.

***

Le mattine invernali erano una delle poche cose che Andrea non amava. Detestava dover abbandonare il suo caldo rifugio notturno tanto quanto dover attraversare la camera, per raggiungere il bagno, in balia di fredde e repentine correnti d’aria che gli riempivano le ossa di freddo. In quelle mattine tutto era avvolto dalla bruma. I raggi del sole combattevano per farsi strada attraverso di essa. Solitamente Andrea si rigirava nel letto un paio di volte prima di uscirne. In quel rotolarsi allungava le braccia in cerca della sua Lara per condividere insieme il risveglio. Quella mattina, con suo grande stupore, Lara si era già alzata. In dieci anni di convivenza Lara non si era mai alzata prima di lui per nessun motivo. Incuriosito da questo strano evento saltò giù dal letto e, infilatosi i pantaloni, iniziò a cercarla per tutta la casa. La cerca fu infruttuosa fino a che Andrea non passò distrattamente davanti ad una finestra della sala. L’apertura dava sul retro dell’abitazione dove vi era un ampio spiazzo lastricato usato dai due per tenere le lezioni di scherma nel periodo estivo. Lara era lì. Si stava prodigando, con la solita grazia e maestria, nel riprendere alcune forme schermistiche. Ripeteva tecniche e guardie in un balletto di estrema eleganza. Andrea rimaneva sempre colpito da quella danza. I movimenti mettevano in risalto non solo le sue qualità atletiche ma anche il suo corpo. I fianchi sinuosi, la vita stretta e il seno pieno trattenuto dalla pettorina blu in nabuk. Quella mattina però Andrea rimase ancora più colpito. C’era qualcosa di diverso in lei.
I suoi movimenti sembravano ancora più veloci e precisi del solito e, la spada nella sua mano, quella di Rupieri, sembrava quasi vivere di vita propria.
Andrea, intrigato dal comportamento della moglie, afferrò una delle spade da allenamento che teneva appese in sala e, aprendo la porta a vetri, si portò velocemente sullo spiazzo.
“Buongiorno passerotto! Ti sei alzata di buon ora stamattina!”
“Già” rispose lei continuando a roteare la lama davanti a se.
“Che ne dice il mio passerotto di incrociar le lame con il sottoscritto?!”
A quelle parole Lara fermò la sua danza.
“Perché no!” Replicò lanciando una vacua occhiata al suo sfidante.
Quello sguardo lasciò Andrea senza fiato. In quegli occhi non vi era niente della sua amata Lara. Erano occhi freddi. Occhi che non guardavano. Occhi che miravano a uno scopo più alto. Più distante.
I due si salutarono e si misero in guardia. Lara portò il suo primo attacco. Una punta al ventre.
Andrea la deviò con una parata a piovere. I due si scambiarono una serie di colpi. Ad ogni colpo Andrea si convinceva sempre più di non star combattendo contro Lara. Tutti i colpi portati dalla ragazza erano di una precisione e di una velocità che non possedeva. Sembrava stesse saggiando il suo avversario con la consapevolezza di essere a lui superiore. All’improvviso Lara attaccò tirando un colpo così violento da aprire la guardia di Andrea poi, ruotando su se stessa, concluse l’attacco con un tondo al volto. Andrea fece appena in tempo a schivare il colpo mortale che riuscì ugualmente a mordergli una guancia.
“Lara che ti prende! Avresti potuto uccidermi!”
“Lo so.”
La sua voce era fredda quasi come l’aria intorno a loro.
“Ma sei impazzita?! Cosa vorrebbe dire che lo sapevi?!”
“So che questa lama assaggerà il tuo sangue e ti darà il mondo dei Cieli.”
Lara si lanciò nuovamente all’attacco vibrando un fendente dall’alto verso il basso.
Andrea velocemente si spostò di lato e, insinuandosi sotto la guardia di lei, fece volteggiare la sua spada nel palmo della mano e la colpì con un movimento ascendente del pomolo nel plesso solare. Lara, con il respiro spezzato da quel colpo, indietreggiò. La spada le scivolò di mano mentre, inginocchiata a terrà, si teneva il ventre con gli occhi pieni di lacrime.
“Andrea aiutami. Che mi succede?! Dimmi che mi sta succedendo!”
Andrea corse da lei e l’abbraccio forte.
“Calmati. Va tutto bene.”
“No non va bene! Stavo per staccarti la testa.”
“Guarda cosa ti ho fatto” disse avvicinando delicatamente la mano alla ferita sulla guancia di lui mentre il suo viso era rigato dalle lacrime che le scendevano copiose dagli occhi.
“È solo un graffio. Non ti preoccupare. Su adesso alzati.”
La sollevò accompagnandola, ancora dolorante, dentro casa dove la fece sedere sulla vecchia poltrona di pelle di suo nonno.
“Asciugati le lacrime. Come va lo stomaco?”
“Meglio grazie.” La voce, ancora tremante e spezzata dal pianto, era tornata nuovamente dolce.
Andrea si era seduto di fronte a lei osservandola mentre con calma si medicava la ferita.
“Non so che mi sia preso” iniziò lei rompendo il silenzio che si era creato fra loro.
“Mi è successo come ieri nella fucina. Mille immagini hanno invaso la mia mente. Una radura circondata dagli alberi. Un ragazzo che si allenava giorno e notte con quella spada” indicò l’arma che ancora stava sul lastricato esterno.
“Poi ho sentito la tua voce e una tremenda forza mi ha invasa. Sentivo freddo. Il freddo che solo la solitudine e l’odio portano. Sentivo di odiarti perché ti frapponevi tra me e il mio scopo. No… non ti frapponevi a me …non capisco caro” pronunciò con voce rotta mentre le lacrime facevano nuovamente capolino sul suo volto.
“Lara devi riposare. Neanch’io capisco cosa sia successo. Forse è semplicemente stress.”
“No ti dico!” Gridò lei.
“C’è dell’altro… o forse qualcun altro. Andrea mi sembra di star vivendo la vita di un’altra persona. Una persona che sta cercando vendetta e che mai si placherà finché non l’avrà ottenuta.”
“Su Lara è solo una tua impressione. Il tuo subconscio ti sta giocando un brutto tiro.”
“Lo dici sempre anche tu. Tuo nonno lo ripeteva in continuazione. Le lame portano sempre al loro interno l’anima e il cuore di chi le ha fabbricate. Spesso anche di coloro che le hanno impugnate per perpetrare grandi scopi.”
“Mio nonno ripeteva sempre quella frase per far capire che anche la lavorazione dell’acciaio è un’arte e come tale richiede sentimento e passione.”
“Io dico che quella spada, in qualche modo, mi sta contaminando.”
“Tu stai delirando. Una spada non può controllare le persone. Semmai è il contrario. Non trovi?!
Adesso smettiamo di fantasticare e dimmi piuttosto come ti senti.”
“Direi bene.”
“Ottimo! Io faccio un salto al pronto soccorso a far controllare la ferita e poi vado alla bottega. Se hai bisogno di qualcosa chiamami. Promettimi che oggi ti prenderai un giorno di riposo completo.”
“Promesso.”
“Ti amo.” Le disse lui arruffandole i capelli.
“Anch’io” rispose lei guardandolo mentre prendeva le chiavi della macchina e usciva di casa lasciandola sola con i suoi pensieri.

***

Dopo l’incidente del mattino la giornata trascorse splendidamente. Al pronto soccorso gli dissero che la ferita era pulita e che sarebbe guarita bene. In bottega erano venuti dei turisti che avevano acquistato alcune delle sue armi per arredare la loro vecchia casa di campagna. Lara non aveva chiamato e Andrea pensò che tutto fosse tornato alla normalità con alcune ore di sano riposo. Stava già pregustando la cena che le avrebbe preparato per farsi perdonare anche se, in cuor suo, Andrea sapeva che non vi era niente da farsi perdonare. Il loro amore era così forte che avrebbe superato ogni ostacolo. Tutti questi pensieri gli attraversarono la testa nel momento stesso in cui chiuse la macchina e infilò la chiave nella toppa di casa. Varcata la soglia però le sue narici non furono colpite da nessuno di quei profumi che accompagnavano le belle e ricche portate che Lara era solita cucinargli. La casa era buia. L’unica luce che illuminava quegli ambienti veniva dai lampioncini da giardino che con tanto amore lui e Lara avevano comprato e installato insieme.
Andrea appoggiò le chiavi in una ciotola d’argento sistemata sul mobile dell’ingresso. Notò che vi erano anche quelle di Lara. Toltosi la giacca decise di salire al piano superiore per raggiungere la camera da letto dove, molto probabilmente, la moglie stava ancora riposando. Il fabbro non aveva mai notato quanto anche la sua casa, piena delle sue cose e così famigliare, potesse essere così tetra. La scala, con la balaustra in legno, sembrava quasi stringerlo, ad ogni passo, contro la parete. I volti nelle fotografie e nei quadri alle pareti non erano altro che tetre ombre. Aloni su fondali del grigio più scuro che si potesse immaginare. Le porte che si affacciavano sul corridoio del piano superiore, appena delineate nell’oscurità, davano l’idea di nascondere un tremendo segreto. Andrea si muoveva con estrema cautela. Con un’inconscia circospezione temendo di poter svegliare la moglie. La porta della loro camera era socchiusa. L’uomo vi scivolò dentro di lato per evitare di farla scricchiolare aprendola. Lara era lì ma al contrario di quello che lui si era immaginato non era sdraiata nel suo letto. La donna si trovava in piedi davanti alla finestra in una immobilità quasi statuaria.
“Lara che stai facendo? Tutto bene tesoro?”
La donna non rispose. Si girò guardando l’uomo con quel suo sguardo vacuo e l’antica spada ben stretta in mano.

Nessuna voce. L’aria è sferzata da fendenti e affondi. Poi come se una magia avesse fermato il mondo tutto tace. Tutto è immoto. La vita riprende solo nel momento in cui esce dal corpo dell’uomo. La vita scorre in quel fluido caldo e rosso che fuoriesce dallo squarcio alla gola. Niente rimorsi. Niente rimpianti. Solo odio. L’odio di una vendetta ormai finita. L’odio che per secoli ha dato forza al suo acciaio. Odio che si è fuso all’amore in eterno racchiuso nella lama del padre. La lama che ha perpetrato la loro vendetta sul buon Conte. Mai più parlerà con voce indolente. La vendetta di un figliolo che mai più diverrà qualcuno se non, eternamente, la stessa vendetta.


“Ecco Commissario” disse Franco passando la spada imbustata dalla scientifica al Commissario Tonelli.
“La donna è già stata fatta portare in centrale. Avete visto i suoi occhi Commissario?
Sembrava impazzita. L’abbiamo trovata nella camera che cullava la testa del marito dopo avergliela staccata dal corpo con quel grosso spadone.”
Il Commissario soppesò l’arma mentre con lo sguardo scorreva la facciata della villetta soffermandosi sulla finestra della camera dei due giovani.
“Sai Franco, conoscevo quei due. Lara e Andrea. Mi sembra impossibile che sia successa una cosa simile a due persone felici e innamorate come loro. Lara era una persona splendida e un’ottima maestra.”
“Commissario non si può mai sapere cosa passa per la testa della gente oggigiorno” ribatte Franco con tono distaccato.
“Conoscevo anche il nonno di Andrea. Lui era solito dire che le lame portano sempre al loro interno l’anima e il cuore di chi le ha fabbricate e a volte di chi le ha impugnate per perpetrare un grande scopo.”
“Commissario… mi sta dicendo che le spade avrebbero un’anima?!”
Il Commissario fissò quell’arma dal luccichio quasi innaturale.
“Potrebbe essere Franco. Tutto è possibile a questo mondo”.

Autore - SIMONE