24 dicembre 2009

Auguri e novità


Ciao a tutti gli appassionati lettori del nostro blog e naturalmente Buon Natale e Buon Anno.
Scrivo questo breve post natalizio per comunicarvi alcune novità.
La prima e più importante è un aggiornamento sullo stato di avanzamento del romanzo. Il gruppo di Xomegap si è riunito domenica sera insieme all’editor “esterno” che aveva l’incarico di leggere il romanzo, correggerne la forma e fare una valutazione sulla sostanza. Con nostra grande gioia entrambi i giudici sono stati molto positivi.
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08 dicembre 2009

Le sorgenti del Dumrak: la trama


Cinquecento anni sono passati da quando i popoli provenienti dalla foresta oltre la Catena Impervia hanno invaso l’Impero delle Tre spade. L’invasione è stata respinta ma ha precipitato l’Impero in una spirale di decadenza e anarchia culminati nella secessione del regno di Vùos. L’Impero è sopravvissuto ma da allora Finisterra non è più stata unita. Ora una nuova invasione è alle porte e se vogliono sopravvivere Regno e Impero dovranno superare le reciproche diffidenze e fronteggiare insieme la comune minaccia…


Questa è “l’intestazione” del nostro blog e diciamo che potrebbe costituire l’ideale quarta di copertina del primo romanzo della saga...

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02 dicembre 2009

Il potere del Comando

Il soldato bussò due volte ed entrò.
L’uomo che lo stava aspettando si alzò di scatto poggiando le mani sul tavolo scuro e lo apostrofò con tono urgente “Quali notizie, mio buon amico?”
Il soldato chiuse la porta dietro di sé; l’altro, guardando l’espressione dipinta sul suo volto, lentamente, con un sospiro, tornò a sedersi.
“Mi dispiace, mio lord, ma non porto nessuna buona notizia”
“Siediti e raccontami tutto”
Il soldato si sedette pesantemente sulla sedia libera di fronte al tavolo. Il lord davanti a lui, i capelli più grigi di quanto ricordasse, le rughe più profonde sul suo volto, riempì due calici di vino scuro.
“Gli eserciti dell’ovest stanno definitivamente avanzando guidati dal bastardo di Greytower”
“Quali bandiere con lui?”
“La rosa dei Lancel, il leone dei Nest, voci parlano di un possibile accordo con la flotta delle Isole Bianche”
“Maledizione!”
“Se la flotta delle Isole entrerà nel Golfo del Sole saremo stretti in una morsa senza uscita”
“Lo so, dannazione, lo so!” il lord colpì il tavolo con un pugno che fece tremare i calici.
Il soldato continuò a fissare il suo signore, indeciso se proseguire o meno con le brutte notizie, ma lui lo precedette.
“Finora hanno risposto al nostro appello di fedeltà i Markeer del sud e i Sender delle montagne, ma anche se i loro eserciti si unissero domani stesso al nostro, potrebbe non essere sufficiente… o già troppo tardi… se solo arrivasse una risposta da Vancer…”
A quel punto il soldato non poté più attendere oltre “Mio signore… ho incontrato personalmente il messo di Lord Vancer mentre tornavo in città”.
Il lord alzò su di lui uno sguardo colmo di sospetto “Ha parlato con te senza neppure entrare al castello?”
“E’ fuggito subito dopo aver riferito il messaggio del suo Lord, Signore. Lord Vancer non si unirà a noi nella resistenza contro gli usurpatori”.
Il soldato vide la rabbia salire e poi scomparire dagli occhi del suo re, lasciando in lui solo una pesante e definitiva stanchezza.
“E’ tutto perduto dunque? Qui termina il mio regno, la mia vita, tutto quanto ho costruito?”
Il soldato sentì un moto di compassione nei confronti di quell’uomo che per tutta la vita lui aveva ammirato. Non sopportava di vederlo così, lasciato solo da coloro che lo avevano osannato quando era salito al trono.
“Non tutto è perduto, mio Signore. La vostra famiglia possiede ancora un’arma imbattibile con cui potrete spazzare via i nostri nemici”
Il re inizialmente parve non averlo neppure sentito. Il soldato attese e dopo diversi istanti di silenzio l’uomo di fronte a lui tornò ad alzare il capo e a drizzare la schiena, puntandogli contro uno sguardo di nuovo fiero.
“Una speranza remota, mio buon Vincent, sai meglio di me che non vuole più avere a che fare nulla con noi”
“Ma è pur sempre una speranza, mio Signore. E, se mi permettete, la vostra ultima, Signore”
“Vai a riposare Vincent, hai fatto un buon lavoro, come sempre; spero di poter vivere abbastanza per poter ricompensare la tua fedeltà”
Quando Vincent uscì chiudendosi la porta alle spalle, Jorges Draakenthal, Lord della Pianura e signore di Lyssa si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra. Il vento che entrò nella stanza quando aprì il vetro era gelido e portava l’odore aspro del mare in tempesta. Il fischio che lanciò venne catturato da esso e portato lontano fra le nubi incombenti. Bastarono pochi istanti e dal grigio tumultuoso che copriva il cielo si materializzò una figura che in un paio di battiti d’ali finì per posarsi sul davanzale di pietra.
Il piccolo drago emise un verso stridulo e si appollaiò sul braccio del suo padrone. Jorges gli accarezzò il capo con la mano libera, chiudendo poi la finestra.
Quando tornò a sedersi sul suo scranno il drago si spostò con un balzo sul tavolo dove si accucciò richiudendo le ali e continuando a fissarlo.
“Un’arma imbattibile…”
L’uomo grattò la gola del piccolo animale che socchiuse gli occhi ed emise una sorta di gorgoglìo di piacere.
“Se solo fossi stato io l’erede del Comando…”
Il vecchio lord vuotò il calice di vino in un solo lungo sorso, poi posandolo stancamente sul tavolo, riprese a parlare con il drago.
“Se tu potessi essere grande come i draghi di mia sorella, piccolo mio… ma la legge è legge, e nella nostra famiglia solo il primogenito eredita il Potere del Comando ai grandi draghi, sia esso uomo, donna, re o sacerdote. Agli altri rimane l’Empatia Animale che ci permette di avere amici come te” allungò il dito che la bestiola prese a mordicchiargli “che purtroppo sei un tenero cucciolo incapace di uccidere e distruggere”.
“Jenna se ne andò molti anni fa, quando suo marito venne ucciso durante un torneo. Lei disse che non era stato un incidente e che avremmo dovuto muovere guerra ai Greytower, ma gli dei sanno quanto non eravamo pronti ad affrontare quei ricchi bastardi. Allora come oggi.
Jenna se ne andò, piena di furore, portando con sé Argo e Zelda, gli ultimi grandi draghi che solo a lei dovevano ubbidienza. Figli di quegli stessi draghi che per secoli avevano difeso la nostra famiglia”
“Lei rinunciò alla sua posizione, ai suoi castelli e alla sua vita da nobile per ritirarsi nelle lontane foreste del nord a vivere sola come un’eremita. Noi invece siamo rimasti qui, in questo castello appollaiato alla rocca come un drago, anche se dei draghi ci resta ormai solo il nome, orfani di quel legame che aveva reso celebre la nostra stirpe”
“Non so neppure se Jenna sia ancora viva. Quando fuggì era una giovane guerriera, ma gli anni devono essere trascorsi anche per lei, più duri dei nostri in quei luoghi selvaggi. Se dovesse essere morta i draghi saranno fuggiti alle loro terre natie, oppure saranno morti con lei… e questo significherebbe la fine di ogni nostra speranza. Oltre che la fine della nostra stirpe”
Il piccolo drago emise un verso stizzito
“Hai ragione piccolo mio. Non c’è tempo per questi rimpianti da vecchio pentito. Il nemico è alle porte e l’unico modo per sopravvivere è che i draghi tornino a casa”.
Lord Jorges prese da un cassetto un foglio di carta, una penna e un’ampolla d’inchiostro.

Mia cara sorella,
ti chiedo di leggere queste poche righe prima di gettare la lettera nel baratro più profondo del nord.
Se riceverai questa mia missiva significa che sei ancora viva e di questo sinceramente mi rallegro, perché da troppi anni manchi al cuore di quel fratello che nonostante tutto ti ha amato molto.
Non è mia intenzione nascondere la vera natura di questa lettera dietro ad un’apparenza bugiarda.
Greytower sta muovendo verso Lyssa. Al suo seguito i vessilli di molti traditori del trono, compreso quello delle Isole Bianche.
Pochi giorni ci separano ormai dallo scontro che decreterà la nostra caduta e la fine del nostro regno.
Le forze pur consistenti del nostro esercito e di quelli dei nostri alleati non basteranno per difendere la città e i confini, senza draghi non abbiamo reali speranze di poter sopravvivere.
Per questo ti chiedo di spezzare il ghiaccio del tuo isolamento e di mettere da parte l’odio che provi per noi.
Il regno ha bisogno di te, la famiglia ha bisogno dei tuoi draghi, come primogenita dei Draakenthal hai dei precisi doveri nei nostri confronti e con questo messaggio ti invito a rispettarli.
Nonostante siano trascorsi molti anni io so che la tua sete di vendetta non ha mai trovato pace. Ora ti è offerta la possibilità di lavare nel sangue dei Greytower l’onta che ti fu arrecata quel giorno al torneo.
Con la speranza di rivederti presto, tuo fratello Jorges Draakenthal, Signore di Lyssa.

Quando l’inchiostro fu asciutto e le parole ormai impresse a memoria nella sua mente, Jorges arrotolò fra le mani il messaggio e lo inserì in una capsula di acciaio. Poi invitò il piccolo drago ad avvicinarsi e assicurò la capsula alla sua zampa.
“Ora vai, piccolo mio, trovala e riportala qui. Lei e i suoi draghi”
Il piccolo drago si lanciò con forza giù dal davanzale e le sue ali lo portarono presto lontano dalla torre.


La speranza era ormai scemata. Jorges Draakenthal fissava con occhi sbarrati i nemici che dal porto si riversavano attraverso le brecce aperte nelle mura dai lanci delle catapulte.
I nemici erano troppi e troppo forti e loro ormai erano indeboliti dalla fame, dalla sete e dalla mancanza di sonno.
“Mio Signore, voi perdete sangue”
Il re rivolse un amaro sorriso al soldato che era accorso al suo fianco “Tutto questo sangue non mi servirà sottoterra Vincent, posso anche versarlo sulle rovine del mio castello”
“I Greytower hanno sfondato la porta ovest, tra poco saranno qui, permettetemi di aiutarvi a fuggire”
“Fuggire? Fuggire dove? Fuggire per cosa Vincent? Sono vecchio e non ho avuto figli, non c’è nulla al mondo che sia mio tranne queste pietre. Se è così che hanno deciso gli dei è qui che mi troverà Greytower, qui che voglio morire”
Il soldato annuì “Allora io resterò con voi, mio Signore”
I due erano pronti, con le spade in pugno, per affrontare i nemici che presto si sarebbero riversati come insetti sulla cima della torre del re.
Ma per un lungo istante nessuno uscì dalla stretta scala.
Jorges lanciò con la coda dell’occhio una fugace occhiata al cortile in basso e vide che tutti avevano smesso di combattere “Cosa diavolo…?” il re si voltò verso la direzione verso cui erano puntati tutti gli sguardi.
“Vincent!”
Il soldato volse gli occhi al cielo, a nord “Mio signore quelli sono…”
“I draghi Vincent! E sono tre! Jenna ha risposto al mio appello!”
I tre draghi neri sfrecciarono sul castello come comete infuocate seminando panico e distruzione fra le fila dei nemici e fra le loro macchine da assedio.
Uno di essi, con precisi getti di fiamme, distrusse in pochi minuti le navi che avevano invaso il porto, gli altri due presero a volare in cerchio attorno alle mura uccidendo centinaia di nemici alla volta.
“Ma quella non è Jenna”
Il re riuscì ad intravedere una figura che cavalcava il più grande dei tre draghi. Era un giovane uomo dai lunghi capelli rossi, accesi e inconfondibili come i capelli di Lord Aaron, il defunto marito di Jenna.
Jorges si accasciò a terra, la schiena appoggiata al parapetto della torre e prese a ridere.
“Mio signore…” Vincent, preoccupato, fu subito su di lui
“Ora posso morire in pace Vincent, i draghi e il Potere del Comando sono tornati a reclamare il trono, il nostro regno è salvo”.

25 novembre 2009

La situazione politica di Finisterra III: Il regno di Vùos


Vuos è un regno essenzialmente di stampo feudale. Il territorio ha mantenuto in larga parte la suddivisione delle vecchie satrapie dell’Impero ed è suddiviso in diciassette partizioni. Contrariamente alle satrapie, il cui amministratore era nominato dall’Imperatore, i feudi di Vùos sono assegnati per via ereditaria ad altrettante famiglie nobili, le quali a parte gli oneri tributari dovuti alla casa reale Koilev e l’obbligo di fornire uomini in caso di guerra, godono per il resto di una elevata dose di autonomia. I limiti imposti e le libertà concesse da questa autonomia sono stati spesso, nel corso degli anni, fonte di grande discordia all’interno del regno. Tale discordia...
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22 novembre 2009

La situazione politica di Finisterra II: L'Impero delle Tre Spade


L’Impero delle Tre Spade è una monarchia assoluta ed ereditaria in cui l’Imperatore, un membro della famiglia Teophan fin dalla fondazione, unisce in sé tutti i poteri politici mantenendo la sacralità degli antichi re-sacerdoti di Addoneis.
Le decisioni vengono condivise con un Consiglio ristretto, composto dal Primo Scriba, depositario della sapienza antica, dal Gran Sacerdote della Triade con funzioni di Gran Visir e dai principi ereditari. In casi particolari il Consiglio può...
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18 novembre 2009

La situazione politica di Finisterra I: Una visione d'insieme


Attualmente Finisterra è suddivisa in due unità territoriali: l’Impero delle Tre Spade, con capitale Addoneis, che occupa la parte della penisola a nord del fiume Dumrak ed è retto dalla casata Teophan, e il Regno di Vùos, dall’omonima capitale, che ha come territorio la porzione a sud del Fiume e su cui regna la casata Koilev.

Per un millennio circa la penisola di Finisterra è stata unita sotto il dominio della casata Teophan in unico Impero, fino a quando cinquecento anni fa...
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15 novembre 2009

FIGLIO

Quando ero bambino amavo i fumetti dei Peanuts.
Mi piacevano i personaggi, il forte contenuto morale delle strisce che non di rado si trasformavano in storie. Mi piacevano quei bambini che parlavano come i grandi. Anche io ero così, in qualche modo. Mi riconoscevo in Charlie Brown, nella sua indecisione e passività. Dentro di me sognavo che un giorno o l’altro “il bambino dalla testa rotonda” si arrabbiasse e gliela facesse vedere, a tutti gli altri, che era una persona di valore. Perché io lo vedevo che lo era.
Ma nelle storie di Schultz non accade.
Mai.

C’è una striscia in particolare che ora mi torna alla mente.
Grossomodo si svolgeva così, o almeno così io la ricordo e sono certo di non tradirne il senso generale: Piperita Patty e Marcie erano seduti sui loro consueti banchi di scuola. Piperita Patty seduta sul banco davanti si sporgeva verso Marcie e le diceva di avere compreso una grande verità, ossia che ci sono due tipi di domande, quelle che qualcuno ti fa per verificare se conosci la risposta e quelle alle quali nessuno sa rispondere.
Vorrei tanto avere compreso il senso di quella striscia quando era il momento, e invece lo capisco solo ora.

Mamma.
Mi hai educato ad essere un bravo bambino.
Mi hai insegnato che era importante studiare, che era importante essere persone tolleranti, essere buoni con gli altri, essere prudenti e coscienziosi. E io ho imparato.
Non credo di essere una persona molto intelligente, però studiavo e i risultati venivano.
Gli altri bambini correvano, saltavano, gridavano, facevano le marachelle, cadevano e si rialzavano.
Io no.
Non era da bravi bambini fare baccano, non era da bravi bambini trasgredire le regole, non era prudente correre e cadere. Tu mi avevi insegnato così, e io ho imparato.
Ho imparato fin troppo bene.
Gli altri bambini non si interessavano a me. A volte tentavo di unirmi a loro e alcuni, pochi per la verità, a loro modo cercavano di darmi una possibilità. Ma a dieci anni parlavo già come un adulto: a loro non piaceva. Loro volevano che salissi sugli alberi, ma io non me la sentivo, era pericoloso. Volevano giocare a palla, ma per me era un gioco che non aveva senso, e comunque sarei stato sconfitto in partenza. Non mi trattavano male, semplicemente mi lasciavano in disparte.
Ero diverso da loro, e se ne accorgevano.
Quante volte sono tornato a casa da te piangendo?
Tu mi tenevi tra le braccia e mi dicevi di avere pazienza, perché un giorno gli altri avrebbero capito. Un giorno non mi sarei più sentito così solo.

A dodici anni mi sono innamorato. Era una mia compagna di classe delle medie e tutti la chiamavano Lalla. Era stata bocciata un anno ed era l’unica a cui sembrava piacere lo stare con me. Forse perché anche lei era tenuta in disparte, forse perché era più matura e mi vedeva già come un figlio.
Non lo so.
Io però volevo toccarla, lei invece andava coi ragazzi delle superiori.
Mi respinse con una risata.
Non ero un uomo per lei e un uomo, questa è la verità, non lo sono mai diventato.
Rimasi comunque suo amico, quel po’ di affetto che lei mi dava era l’unico che conoscessi a parte il tuo. Quel giorno, quello in cui mi respinse, corsi a casa da te a piangere come ogni volta.
Tu mi dicesti quello che mi dicevi sempre: che un giorno, quando fossi stato più grande e anche gli altri miei coetanei fossero diventati più maturi, come io ero già, avrei conosciuto una ragazza; una ragazza che avrebbe capito che io ero una persona buona, che avrebbe compreso tutto l’amore che avevo dentro e che potevo darle, che avrebbe capito che l’avrei resa felice. Non come mio padre aveva fatto con te, quel tipo d’uomo che io mai sarei dovuto diventare.
Io ti credevo. Dovevo crederti, non potevo non farlo.
Prima ho atteso fiducioso, poi ho pregato disperatamente perché quel tempo venisse.
Ma non è accaduto.
E col tempo quell’amore che avevo dentro è imputridito.

Mamma.
Una parte di me in realtà lo sapeva.
Io non potevo essere amato da altre che da te, perché non potevo essere uomo, e dunque ero destinato a rimanere per sempre figlio. Lo sapevo, nel più profondo di me.
Credo di averlo anche accettato, a mio modo, anche se era una cosa inaccettabile.
Finché c’eri tu ad amarmi la vita era comunque sopportabile.
Ma poi sei morta e nella mia vita non è rimasto più nulla.
E allora sono impazzito, credo.
Si deve essere così, per forza.

Ora che sono qui davanti a lei capisco tutto.
Innanzitutto quella striscia dei Peanuts.
Ero un bambino adulto, sono divenuto un adulto bambino.
Per tutta la vita ho dato soltanto le risposte giuste alle richieste che tu mi facevi, non ho mai cercato una risposta che fosse davvero mia, a nessuna delle domande della vita.
Le richieste non me le facevi davvero, naturalmente, non più da molti anni.
Sono convinto che in realtà non te ne accorgessi nemmeno. E io neanche.
Era come mi avevi educato, o forse come io avevo recepito quell’educazione.
O magari soltanto il mio essere costantemente prigioniero della paura.
Per tutta la vita sono rimasto un bravo bambino, in modo da garantirmi almeno il tuo amore.
Quando sei morta ho scoperto che senza di te non ero nulla.
Per mesi ho cercato Lalla, ma non l’ho trovata. E’ stata una fortuna per lei, credo.
Chissà dov’è finita.
E allora tutto quel rancore che ho accumulato in questi anni ha cominciato a premere verso la superficie, finché non ho fatto quello che Charlie Brown non ha mai fatto.
Mi sono arrabbiato.

Un mese fa ho avvicinato la ragazza.
Lei era così giovane e graziosa, fragile e fiduciosa.
Si vedeva che si sentiva già una donnina, come Lalla.
Credevo che fossimo diventati amici, ma come possono diventare amici un adulto di quarant’anni e una ragazzina di tredici? Ora capisco tutto, ma come sempre è troppo tardi.
Non era colpa di Lalla, né tua. E’ sempre stata solo colpa mia.
Quanto vorrei poter riavvolgere il nastro del tempo fino alla mia infanzia, ricominciare tutto da capo. Ma anche tornare indietro di un mese sarebbe sufficiente, già così molte cose si potrebbero ancora salvare.
A questo punto anche solo dieci minuti basterebbero: per tutto il resto sarei pronto a pagare.
Vorrei solo non averla già uccisa.

AUTORE - MAX

07 novembre 2009

La geografia di Finisterra II: Le principali città


Addoneis: La Capitale dell’Impero delle Tre Spade si è sviluppata ai piedi del Santuario dell’Oracolo di Thiln, tanto che in un antico idioma “Addoneis” significa proprio “Città del Santuario”. In essa sorgono numerosi antichissimi luoghi di culto dei Cento Dèi. In seguito, quando i Teophan abbracciarono il culto della Triade, vennero costruiti i Simulacri di Sennak, Kerib e Naker con annesso il Tempio Tripartito, cuore del potere del clero imperiale. Altro luogo significativo è la Cittadella che, all’interno di una possente cinta di mura racchiude il palazzo imperiale, la biblioteca, la caserma dei Cavalieri Argentati.


La città è cinta da una cerchia di mura incardinata su quattro torri e collegata al Baluardo di Fortebraccio, che sorge nei pressi del porto. Il grosso della città si è sviluppato sulla riva nord-occidentale, dove si distendono i quartieri abitati dalle famiglie degli Uguali, caratterizzati da ville basse dotate di parchi e costruite in pietra, e della ricca borghesia, che abita ai piani bassi di palazzine di più piani, che ai livelli più alti ospitano servitori e operai.
Quando Addoneis dominava su tutta Finisterra e al Trono di Porpora giungevano i tributi di milioni di sudditi la città si era estesa anche a est del porto dove erano sorti quartieri di case di fango e legno, distese su vicoli molto stretti.

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03 novembre 2009

RICORDI


La neve aveva smesso di cadere. Sul fornello la caffettiera gorgogliava mentre un sottile filo di fumo si innalzava dall’argenteo beccuccio. Astolfo ruotò la manopola del gas lasciando che le accese lingue blu si esaurissero dopodichè versò l’aromatico liquido in un’unica tazza.
“Eccoti il caffé cara”
“Dove stai andando Astolfo?”
“Esco un paio d’ore” rispose infilandosi il giaccone imbottito e calandosi sulla testa uno zuccotto di lana.
“E quella?”
Astolfo aumentò la stretta sull’impugnatura della torcia elettrica poi, chinandosi sulla moglie, le baciò delicatamente la fronte.
“Non sei più un bambino” sentenziò lei “Almeno copriti per bene”
Astolfo si arrotolò la sciarpa attorno al collo e, senza replica, uscì.
L’aria era pungente e la notte si era già impossessata delle strade innevate di Piombino.
Il bar di Umberto era ancora pieno: Astolfo sbuffò irritato.
Per l’ennesima volta avrebbe dovuto sostenere gli sguardi degli avventori, curiosamente compassionevoli. Come se lui fosse un animale dello zoo: lì semplicemente per essere ammirato.
“Il solito Astolfo?” lo accolse Umberto al di la del banco.
“Il Solito” rispose Astolfo passandogli la fiaschetta di metallo “e non essere tirchio.”
“Tirchio io! Senti un po’ che novità. Guarda che l’altra volta sei stato tu a dirmi di fermarmi”
“Bé stavolta non risparmiarti. Falla bella piena che la fuori c’è un freddo del Diavolo! La Maremma se lo prenda!”
Umberto prese la bottiglia di grappa e ne versò il contenuto riempiendo fino all’orlo la fiaschetta.
“Non vorrai startene al faro anche stasera?” chiese Umberto.
“Certo. Non ho saltato una sera in dieci anni e non intendo lasciarmi scappare neanche questa”
“Questa mania proprio non la capisco Astolfo. Guarda che i marinai hanno di meglio da fare che parlare con te.”
“Non ti impicciare degli affari miei” fece brusco Astolfo sorridendo al barista.
“Non mi impiccio dico solo che se vuoi far due chiacchiere le puoi fare anche qui senza dover stare ore al freddo. In più se ti va puoi anche farti una bella partita a carte.”
“Non sopporto le carte e poi a me piace stare all’aria aperta, mi si schiariscono le idee specie quando la grappa me le offusca.”
“Fa un po’ come ti pare. Sei il solito testardo”
“E tu un tirchio impiccione. Ecco qui i quattro euro per la grappa. Ci vediamo domattina”
Umberto aveva la mezza idea di replicare a quelle accuse infondate, ma il suo più vecchio cliente era ormai uscito dal locale.
Astolfo percorse la strada che lo separava dalla piazza del vecchio faro di Piombino con passo svelto. Le parole di Umberto avevano riportato in superficie motivi dimenticati, che lo spingevano a lasciare sola la moglie tutte le sere. La perdita di suo figlio Marco lo aveva cambiato.
Varie volte, nei giorni seguenti la tragedia, aveva pensato di togliersi la vita.
Aveva anche programmato come: un colpo in testa seduto in auto. Era deciso e, ne le parole confortanti della moglie, ne il sapere che le avrebbe procurato altro dolore, lo avevano dissuaso dal suo obbiettivo. Non aveva mai avuto una tale determinazione in tutta la vita. O almeno così credeva. Il giorno del suicidio con la canna della pistola premuta contro la fronte mentre ripercorreva i momenti splendidi passati con Marco, un ricordo si fece largo nella sua mente.
Una nottata al faro. Suo figlio acconto a lui, poco più che un bambino. Quella notte per la prima volta gli aveva parlato del codice morse e di come, attraverso segnali di luce o suoni, si potesse comunicare a distanza con altre persone. Poi insieme, con una torcia, avevano iniziato a trasmettere messaggio alle navi, accendendola e spegnendola a intervalli precisi. Inviavano sempre lo stesso segnale: buona navigazione. Quando dal mare era giunto in risposta un grazie, gli occhi di Marco si erano illuminati, ed era rimasto incredulo di fronte a quella semplice magia.
Un altro ricordo si era legato a quello. Questa volta il ragazzo incredulo era Astolfo e il giovane uomo al suo fianco, che gli parlava del codice morse, era suo zio ufficiale della Marina Militare.
Quel ricordo perso nei meandri della sua infanzia aveva dato nuova luce al suo spirito dissipando in un colpo quella patina grigia sotto cui stava soccombendo. In quell’istante uccidersi aveva perso di significato. Avrebbe potuto semplicemente ricordare e attraverso quei ricordi tenere in vita anche Marco. Magari suo figlio lo stava osservando da qualche posto lontano. E quel semplice rituale avrebbe potuto strappargli ancora un sorriso ingenuo, accompagnato dai sogni nascosti dietro quello sguardo sbalordito. Per dieci anni aveva parlato ogni sera con le navi che attraversavano il braccio di mare tra Piombino e l’Isola d’Elba. Uniche compagne tangibili di quegli appuntamenti erano la grappa e la sua amata torcia.
Superato il faro Astolfo si avvicinò alla balaustra di mattoni. Il mare sotto di lui era leggermente mosso. Con una mano scostò la neve, che cadde a terra, e in quel piccolo spiazzo appoggiò la torcia.
Senza perdere altro tempo iniziò a trasmettere i primi messaggi della serata. In cuor suo temeva che nessuno, in quella notte sferzata dal vento, si sarebbe prestato al suo rituale.
Alcune navi correvano sulla distesa cerulea indifferenti al suo lampeggiare. Astolfo non ebbe risposte per parecchi minuti finché una luce limpida non si fece timidamente avvistare.
Il segnale sembrava venire dall’isola di Cerboli. Astolfo conosceva bene il canale di Piombino e non aveva alcun dubbio sul fatto che il segnale provenisse dalla terra ferma e non da una nave.
La cosa strana era che Cerboli era completamente disabitata. Ma ancor più strani erano i primi due messaggi inviati dall’isola: sos - sos
“Come posso aiutarti? Devo chiamare la guardia costiera?” trasmise Astolfo.
-. --- --- -... “No vecchio mio.”
“Chi sei?”
.-. “Tu chi sei?”
“Mi chiamo Astolfo Sicari. Tu invece come ti chiami? Come sei arrivato a Cerboli?”
.-. “Tu chi sei?”
“Ti ho già detto chi sono. Astolfo Sicari”
-. --- .-. “Non sai chi sei?”
“Io so chi sono. Stai tranquillo. Forse non stai bene. Dimmi il tuo nome e come sei arrivato sull’Isola così potrò aiutarti”
... .-. .. “Spiacente”
“Cosa significa spiacente?” Astolfo si stava irritando. La sua mente provava a dare un senso a quel breve scambio di battute. Ma nulla di quello che stava succedendo pareva averne.
... .-. .. -.-. ..- --.. -. --- .-. “Spiacente per te. Perché non ricordi chi sei.”
“Ora vado a chiamare la Guardia Costiera perché mi sono stancato”
.- ... ... .- .--. . .-. .-. “Aspetta Astolfo. Non vuoi sapere chi hai nascosto in te. Chi, Astolfo Sicari, ha dimenticato di essere?”
“Non mi interessa parlare con chi non conosco. Ti serve aiuto. Ora vado”
... . .-. .- ..-. .. -. --- “Un nome: Serafino”
Un brivido freddo, più freddo del ghiaccio, attraversò la schiena la vecchio. La sua espressione si fece ancor più rugosa mentre le sue percezioni si estraniavano dall’ambiente circostante. Astolfo era concentrato solo sulla luce del suo interlocutore.
“Non puoi essere Serafino”
Nessuna risposta seguì quella affermazione.
“Serafino è morto nel ’44”
... .- .--. . .-. . “Lo so Astolfo”
La dita del vecchio corsero rapide sotto il giaccone fino a chiudersi sulla fiaschetta. Il primo sorso di grappa gli bruciò la gola. Il liquido cominciò a espandersi trasmettendo a tutto il corpo una lieve sensazione di calore.
.-. .. -.-. --- .-. -.. .. ... . .-. .- ..-. .. -. --- “Cosa ricordi di Serafino?”
“Stavamo scappando dai tedeschi. Ci siamo nascosti in un casolare. Loro erano vicini. Ci avrebbero preso se non fossimo stati attenti. Serafino non lo fu e loro lo uccisero.”
... .-. .. ...... .-.. .. -.. -. --- - . -.. . ... -.-. .... .. “Spiacente Astolfo. Non è così che andò. Questo è quello che hai sempre sostenuto tu. In realtà ricordi i singhiozzi e quella mano sulla bocca.”
Astolfo si guardò il palmo della mano. Percepiva un respiro che man mano si affievoliva: umido e caldo. Quella sua mano stava trattenendo con tutta la sua forza qualcosa di vivo, che lottava, le cui lacrime bagnavano i ferrei polpastrelli. Una serie di sordi singhiozzi cominciò a riempirgli le orecchie. Astolfo inizio a sfregarsi i palmi violentemente mentre scuoteva la testa per rigettare quei suoni. Chi lo avesse visto in quel momento avrebbe pensato a una crisi epilettica.
... - .- - --- - ..- -. --- - . -.. . ... -.-. .... .. “Ricordi di esser stato tu Astolfo . Tu, non i Tedeschi.”
“Serafino continuava a piangere. Aveva dieci anni non poteva piangere a quel modo. Gli avevo detto di smetterla. Che i Tedeschi ci avrebbero trovato per colpa di quei singhiozzi. Che da disertore mi avrebbero fucilato all’istante. Ma più gli chiedevo di smettere più lui continuava. Poi sotto di noi si sentirono dei passi soffocati dalla paglia. Ho dovuto zittirlo. Gli ho premuto la mano sulla bocca abbracciandolo forte. Si è dibattuto ma sono riuscito a tenerlo fermo. I colpi delle scarpe sul legno avrebbero fatto più rumore del suo pianto. Poco dopo si è calmato. Sono rimasto così tutta la notte. Con lui fra le braccia: immobile”
--. ..- -.. “Bravo Astolfo. Qualcosa di te è tornato”
“Come fai a sapere queste cose? Chi sei? Voglio sapere? Me lo devi maledizione”
--. ..- -.. -.. .- .-. . -.-. --- ... .- “Hai ragione Astolfo. Ti devo qualcosa. Qualcosa ti darò”
“Dimmi allora”
.. ... .- -... . .-.. .-.. .- “Ti darò un altro nome: Isabella”
“Non puoi. Non puoi giocare con me. Addio!”
-. --- .- -. -.. .- .-. . .---- ----. -.... ---.. “So che non te ne andrai. Lo sai anche tu. Cos’era il 1968?”
Alfonso adirato prese un altro lungo sorso dalla fiaschetta che si era di parecchio alleggerita.
-.-- .-.. -.. .. ..-. ..-. .. -.-. .. .-.. . --- -... “Quella volta fu più difficile che con Serafino. Ma te la cavasti bene ugualmente vecchio mio. Pensare che Marco era appena nato e tua moglie ti aspettava in ospedale.”
“Smettila. Fu un incidente. Le autorità non mi coinvolsero mai.”
Astolfo cadde in ginocchio. Dopo quarant’anni di prigionia quel volto era riemerso, prepotente.
Isabella aveva vent’anni. Una ragazza sveglia in un corpo acerbo, quasi androgino. In lei c’era sempre stato qualcosa di famigliare. Forse il taglio di capelli o lo sguardo innocente. Quella ragazza lo aveva subito colpito. Professore di lettere in quegli anni di fermento, stanco della quotidianità e del peso di una famiglia, Astolfo si era lasciato coinvolgere in quella relazione difficile.
-.-- .-.. .-. .. -.-. --- .-. -.. --- ... . .-. .- ..-. .. -. --- “So perché quella ragazza ti piaceva e so perché l’hai amata così tanto durante il suo trapasso. Isabella ti ricordava il piccolo Serafino. Esile, impaurita, fragile sotto le tue mani.”
Astolfo si teneva la testa mentre le grida di Isabella, arrabbiata con lui, rimbombavano alte: lo voleva solo per se. Poi la ragazza gli si lanciò contro in un abbraccio che finì in un bacio. Tra quelle mura c’erano solo loro: la scuola era stata chiusa quasi due ore prima. Nell’aula spoglia Astolfo prese Isabella sulla cattedra. Ricordava la dolcezza di quegli attimi. Il volto della ragazza premuto sulla verde superficie di formica. Le braccia che si dimenavano nel tentativo di respingere quella forza che la schiacciava, impedendogli di respirare. Astolfo si allontanò da lei, ancora nudo sotto la cintola, inebriato dalla passione di quell’orgasmo. Non più trattenuta Isabella scivolò a terra. Il peso morto delle braccia fece stridere il piano della cattedra portandosi dietro un’umida scia di lacrime.
.- --. -. ... .- .-.. ...- --- --- -... “La discarica è stata una bella trovata. Era passato troppo tempo dal ritrovamento all’omicidio e tu ti salvasti. Ancora”
“Basta. Ti prego”
..- .- --. -. --- .--. -. --- --. --- “Puoi andartene Astolfo. Quando vuoi. Non posso trattenerti. So solo che non lo farai. Non ti sei chiesto perché continui a trasmettere? Non ti domandi perché sei ancora qui?”
Astolfo non sapeva che rispondere. Una parte di lui voleva andarsene. Tornare a casa e rigettare nuovamente quei ricordi nel pozzo più profondo della sua mente. Ma qualcosa, in realtà lo teneva lì, ad ascoltare. Voleva rimanere. Sembrava quasi che il suo corpo si gestisse in autonomia. Senza il bisogno di un cervello a comandarlo. Solo in quell’istante di riflessione e astrazione dai ricordi si accorse della luce. La luce di Cerboli, quella con cui parlava, era aumentata. Non solo di intensità ma anche di dimensione. Sembrava quasi più vicina. Un terrore sottile si fece strada in lui. Percepiva gli angoli della bocca arricciarsi in una smorfia mentre tutto il suo corpo iniziava a tremare.
“Chi sei?” questo il suo unico pensiero.
-.-. ... -- .. -.-. .... . .-.. . “Chi sono forse non importa. Potrei essere più d’uno. Oppure avere un nome. Ti piace Michele?”
Astolfo cadde in altro incubo. Le quattro facce attorno a lui avevano la pelle olivastra, bruciata dal sole. L’odore di sporco e gli abiti macchiati lo avevano costretto a tenersi distante quanto necessario ad allungare le quattro banconote da cento mila lire. Uno di loro afferrò il denaro bofonchiando qualcosa in una linguaggio duro e strascicato. Astolfo aveva sempre odiato gli zingari. Per questo aveva puntato a loro: se gli avessero presi si sarebbe liberato di due fastidi. Il lavoro era semplice. Più volte si era concentrato sul fatto che sarebbe stato sufficiente mandarlo all’ospedale. Dovevano spezzargli un braccio o una gamba: nulla di più. Diede loro altre duecento mila lire per sicurezza. Qualcosa però era sfuggito ad ogni controllo. Michele era uno che si sapeva difendere e gli Zingari si sa tendono al rancore, specie se lasci un loro amico in fin di vita. Michele era stato pestato più del dovuto e il suo fisico non aveva retto oltre la notte in ospedale.
.- --. -. ... .- .-.. ...- --- “Ancora una volta nessuno ti ha cercato vero Astolfo?”
“ Non sono stato io ad ammazzarlo.”
...... ..- -.-. .-.. --. “Questa tua affermazione è opinabile vecchio mio. Tu sei il mandante. Quindi la sua morte ricade su di te”
“Non me ne dispiaccio se lo meritava”
...... “La meritava? Non è stato lui ad uccidere tuo figlio.”
“Si invece. Quello stramaledetto ragazzo era alla guida. Nell’incidente lui si è salvato mentre Marco no. Per cosa poi? Un cane. Un dannatissimo cane che attraversava la strada: mai scartare.
Michele invece ha sterzato e sono finiti nel canale e Marco è morto. Morto a trent’anni: una vita sprecata.”
..- -.-. --- .-.. .--. . ...- --- .-.. . “E tu Astolfo? Non sei forse colpevole più di lui?”
“Non ho ucciso Marco! Amavo mio figlio più della vita!” gridò attraverso i battiti di luce della sua torcia.
-.. .... - .- .-.. - .-. .. “No. Ma hai ucciso Serafino e Isabella e infine Michele. Tre vite sprecate.”
Il freddo all’esterno non era nulla paragonato al freddo che Astolfo aveva dentro. Il viso era solcato dalle lacrime che si contorcevano attraverso la pelle rugosa. Marco era il suo riscatto. In suo figlio aveva visto il bene che era nel suo cuore e attraverso di lui avrebbe fatto ammenda dei suoi errori. Poi il destino glielo aveva portato via. E lui era ricaduto nella disperazione.
...... ..- -.. --- ...- . .-. . -.. - .... “Sei un uomo egoista Astolfo. La tua è stata una vita vissuta con l’inganno. Rubata alla morte stessa. Il dolore che hai provato non era per la morte di tuo figlio, ma per te stesso. Volevi ucciderti per liberarti da un peso: ma infondo sei un codardo. Lo sei sempre stato.”
“Non ci sono riuscito. Volevo, ma non ce l’ho fatta. La mia mente, il mio istinto di sopravvivenza ha preso ancora una volta il sopravvento, aggrappandosi a qualsiasi cosa pur di salvarsi. Quel ricordo della mia infanzia, dell’infanzia di mio figlio era così innocente e puro. Perfetto a nascondere i miei peccati.”
.-.. ..- -.-. . -. .- ... -.-. --- -. -.. . --- ... -.-. ..- .-. .. - --- -... “Astolfo sai che oltre la luce più abbagliante si nasconde sempre un’impenetrabile oscurità. Addio vecchio mio”
Astolfo iniziò a tremare, fino a scivolare a terra con la schiena appoggiata alla balaustra. Le mani erano strette intorno alla torcia. La luce dell’isola di Cerboli si era fatta sempre più minacciosa e avvolgente. Attraverso la sua pelle sentiva il chiarore penetrarlo. Aveva gli occhi pieni di luce, sempre più intensa e bruciante. Finché tutto non si fece buio.

Lo ritrovarono la mattina seguente. Il corpo senza vita. Gli arti irrigiditi per il freddo. Gli occhi spalancati in uno sguardo vuoto e acquoso. La torcia ancora accesa, puntata contro il viso di Astolfo, rilasciava ritmici flash.
…---… (sos: save our souls)


AUTORE - SIMONE

24 ottobre 2009

La geografia di Finisterra

Due parole di introduzione: con questo post comincia ufficialmente il nostro viaggio all'interno del mondo di Finisterra, abbiamo pensato a lungo a come organizzarlo e riteniamo che il primo passo per entrarvi sia cominciare a conoscerne la geografia. Poi parleremo della situazione politica, della storia, della religione, delle casate nobiliari, dei personaggi della nostra avventura, e così via. Ma la cosa più importante per cominciare ritenevamo fosse avere una mappa da mostrarvi, per cui ecco qui l’attuale mappa di Finisterra. E’ ancora molto grezza (l’abbiamo fatta con power point…): quando ne avremo una disegnata meglio, e ci stiamo già attivando in questo senso, non dubitate che sarete i primi a saperlo.


Continua a leggere e scarica la mappa cliccando sul blog di Finisterra

16 ottobre 2009

Il blog di Finisterra


Eccoci qui.
Siamo un po’ in ritardo con i tempi che ci eravamo dati (ma questo in qualche modo è fisiologico), però ci siamo. In questi mesi, ossia in quelli che sono intercorsi tra l’articolo in cui per la prima volta avevamo annunciato ufficialmente al web l’esistenza del nostro progetto fantasy ed ora, abbiamo lavorato sodo e siamo notevolmente più vicini a completare il progetto. Non credo di sbagliarmi di molto nel dire che entro la fine dell’anno riusciremo ad avere la versione definitiva del testo da sottoporre alle case editrici.
Intanto abbiamo aperto un blog dedicato a Finisterra (xomegapfinisterra.blogspot.com) e a breve cominceremo a pubblicare post che riguardano l’ambientazione e i personaggi in cui l’avventura che intendiamo raccontarvi si svolge.
Li pubblicheremo (almeno inizialmente) sia sul blog “ufficiale” di Xomegap sia su quello specifico di Finisterra, e ci siamo posti l’obiettivo di aggiornarlo con regolarità, ossia ogni 10/15 giorni, per cui ci raccomandiamo: tornate spesso a farci visita!

19 settembre 2009

Oltre l'Orizzonte


Daniela Ori, Gabriele Sorrentino, Manuela Fiorini - Oltre l'orizzonte - Racconti tra sogno e realtà. Collana "I Salici" - I libri di Narrativa15x21 - pp. 280 - Euro 15,00ISBN 978-88-6037-7739.

Un chimico sulle orme del Conte di Cagliostro, una misteriosa figura di donna che sembra leggere nel cuore delle persone, il segreto di Lucrezia Borgia nascosto da secoli in un affresco, la tenera storia d’amore di Vetilia, scolpita per l’eternità su un’ara funeraria che porta il suo nome. E poi, ancora, un’organizzazione che attende l’avvento di un nuovo Messia, le inquietanti presenze che popolano una baia in Croazia, l’ambigua e affascinante figura di Amaltea, un passaggio segreto nel cuore della Mutina romana, una creatura mitica autrice di orrendi delitti, due ragazzini alle prese con una strana agenzia di viaggi, un passaggio spazio – temporale nel centro storico di Modena, un’inquietante statua di angelo sulla cuspide della cattedrale Geminiana. Dodici racconti per viaggiare. “Oltre l’orizzonte”.

06 agosto 2009

IL DONO (25 settembre 1863)



Un uomo che attraversa la città in inverno per cercare una cura per la moglie malata, il ricordo di un’estate dell’infanzia, un simpatico equivoco, una leggenda legata alle fave, le malinconiche atmosfere di una balera e, ancora, le disavventure di un uomoper portare un dono speciale al suo Duca, un conflitto generazionaleall’epoca del Ventennio Fascista….questo e molto altro in EMILIA, VIA MAESTRA dell’associazione di scrittori modenese “I SEMI NERI” , Damster edizioni 12 euro). Gabriele è presente col racconto “Il DONO” di cui qui di seguito ecco l’incipit:

L’uomo tirò le briglie, per costringere il cavallo a fermarsi un’ultima volta. Il grosso animale da tiro sbuffò e il suo fiato caldo formò piccoli sbuffi candidi, nell’aria fredda del mattino. Una leggera bruma trasudava dalla campagna grassa avvolgendo alberi, campi coltivati, cappelle, in un sudario latteo e indefinito. Da qualche parte, un cavallo scalpicciò sulla strada indurita dal freddo. Modena era pietra che galleggiava sulla nebbia, dominata dalla slanciata mole della torre campanaria e dal Palazzo Ducale, che ne chiudeva nobilmente il profilo, come un elegante drago di pietra addormentatosi in un lungo sonno.

Il cavallo si mosse stancamente sulla strada che conduceva verso Carpi, la stessa che Francesco V e la Brigata Estense avevano percorso l’11 giugno 1959, quando il Duca era andato in esilio.

17 luglio 2009

Il romanzo di Xomegap

Prima di interrompere i nostri post per la pausa estiva vogliamo lasciare i nostri affezionati lettori con una grossa novità. Siamo stati un po’ negligenti con il nostro blog negli ultimi tempi, lo sappiamo: lo abbiamo aggiornato poco e disordinatamente. Anzi a ben pensarci è un bel po’ di tempo che non lo curiamo molto, lo portiamo avanti un po’ alla stracca, quasi fosse sempre sul punto di chiudere i battenti. Non abbiamo mai voluto affrontare seriamente l’argomento ma è ora di farlo: Xomegap non sta morendo, tutt’altro se siamo stati poco presenti sul web è perché da quasi due anni a questa parte stiamo lavorando alla stesura di un vero e proprio romanzo collettivo. Non una raccolta di racconti, magari a tema, come abbiamo fatto con Mutazioni. Né come abbiamo fatto per gli e-book Hopelss dove ci siamo dati un luogo e un canovaccio e poi abbiamo proceduto più o meno in ordine sparso. Ciò che abbiamo tentato questa volta è un progetto estremamente più ambizioso, che comporta un livello di integrazione sconosciuto alle nostre precedenti esperienze. Un vero e proprio romanzo, in cui ciascuno di noi ha curato un personaggio, lo ha cresciuto, gli ha dato forma e spessore (sempre nella funzionalità della trama, naturalmente); in cui abbiamo stabilito una scaletta per i capitoli, discusso per giorni su cosa dovesse contenere ciascuno di essi e poi ci siamo incaricati di scriverli: io questi, tu quelli, tu quegli altri, ciascuno dalla prospettiva del proprio personaggio ma a formare un intero il più possibile omogeneo, in cui lo scrivere di ciascuno si è a poco a poco fuso al servizio delle esigenze del collettivo. E’ stato un esperimento ardito, che in alcuni momenti ci ha visto molto vicini a soccombere, e questo è anche il motivo per cui un po’ scaramanticamente non avevamo ancora voluto mettere nulla di nero su bianco riguardo a questo nostro progetto.
Ma ora il tempo di fare questo passo è giunto, lo stato di avanzamento dei lavori ha superato la velocità di fuga: il grezzo del testo è completo, abbiamo fatto un primo editing tutti insieme e ora io e Sara ci stiamo spietatamente dedicando ad un secondo di carattere principalmente logico. Poi ne seguirà un terzo, soprattutto formale, perché alla fine vogliamo che il nostro libro giri davvero come un orologio, dopodiché saremo pronti. Ad ottobre o novembre, presumibilmente, il testo sarà licenziato e ci metteremo in caccia di un editore.
Ma naturalmente non vi lasceremo fino ad allora senza notizie nostre e di questo nostro straordinario (sperabilmente…) progetto. A poco a poco cominceremo a raccontarvelo, i personaggi, la trama, la cartografia, forse qualche brano: un pezzetto per volta sperando di fare crescere dentro di voi l’attesa di leggerlo!
Per questo primo post sull’argomento, nel quale mi sono perso già fin troppo in chiacchiere, mi limiterò a dirvi le seguenti cose: si tratta di un romanzo fantasy, il primo di una trilogia che porterà il nome di “Finisterra”. Il titolo di questo primo capitolo sarà: “Le sorgenti del Dumrak”.
Detto questo vi lascio: ci risentiamo in settembre!

05 luglio 2009

ASPETTANDO IL CARNEVALE

Odio il fottutissimo carnevale. Lo odio con tutto me stesso. Odio la follia di quei giorni: l’ostentata felicità che porta. Odio quelli che si impegnano a organizzare la sfilata, che mirano alla perfezione. Non sopporto di veder sfilare i carri: brutte rappresentazioni di carta pesta della vita quotidiana. Paradossali feticci nati per esorcizzare il male della quotidianità. Odio i culoni starnazzanti delle ballerine. Odio tutti quei bastardi che si travestono. Quelli sono forse i peggiori. Non appena si coprono il viso perdono ogni inibizione. Esagerano facendo i matti che matti non sono. Se fossero matti saprebbero che è loro la colpa di ciò che avviene in quelle notti. Vedrebbero le ombre allungate sui muri dei vicoli. Sentirebbero i passi rapidi, malfermi, riecheggire in quelle sere di falso gaudio. Se fossero davvero folli, sarebbero savi e allora correrebbero ai ripari. Li stanerebbero mettendoli al rogo. Ma tutti questi uomini mascherati sono normali, e la normalità non ti permette di vedere oltre il tuo naso. Odio i miei amici che mi hanno trascinato all’ultimo carnevale di Viareggio a fare i coglioni per le strade. Odio Francesca, perché l’amo. Perché l’amore è bastardo quanto il carnevale. Perché l’amore mi ha fottuto. Ma la cosa che odio più di tutte è Burlamacco.
“Non sei un viareggino” mi dicevano, tutte le volte che esternavo il mio fastidio per quella maschera. Si fastidio, non odio: non a quel tempo.
Burlamacco ora è il mio incubo. Porto il suo dannato costume tutto il giorno, tutti i giorni. Il mio viso è ancora coperto di cerone bianco. Lo vorrei levare e tornare ad essere me stesso, ma ho troppa paura. Non ho altro cerone con me e per ora è l’unica cosa che mi sta tenendo in vita. Allora resto qui rannicchiato in un angolo. Rimango fermo nella speranza che non si accorgano di me. Stringo la spranga che ho preso nel vicolo. È fredda, ma è l’unica cosa che percepisco reale in questo luogo surreale. Qui è tutto buio, umido. È un luogo vecchio e malsano. Un posto sotto la città risparmiato dalla bonifica. A volte si avvicinano e mi annusano. Respiro piano, come loro, con un sibilo basso che odora di topo morto perché di quelli mi sono sfamato. Non ho partecipato ai loro banchetti.
Non ho toccato neanche un pezzo dei miei amici. Neppure quando me l’hanno gettato ai piedi. Sanno che non sono un Burlamacco come loro. Non ho il loro grosso naso rubizzo e venoso. Nemmeno le labbra rivoltate, alzate agli angoli quasi a scoprire gli zigomi.
Non ho nemmeno i loro occhi, arcuati, dalla pupilla piccola e scura come una capocchia di spillo. Mi osservano di sottecchi con sguardi felicemente torvi, in attesa che mi scopra. Giocano i bastardi. Giocano con la mia psiche. Mi vogliono cambiare…
E’ quasi un anno che sono qua sotto. Un anno dalla notte del fottuto carnevale.
Un anno intero che la mia mente si aggrappa a quella sera nel tentativo di strapparmi alle loro grinfie. La compagnia era tutta riunita. Una congrega di colombine, vampiri e pazzi sanguinolenti guidati da uno stramaledettamente triste Burlamacco. Gliel’avevo detto alla Francy .
“Io il Burlamacco non lo voglio fare. Mi sta sulle palle e non ci posso far niente”.
Poi mi frega come solo le donne sanno fare con quei ciglioni degli uomini. Promesse: sempre le stesse. E poi mi maledico per averle detto di si. In mezzo a quel casino l’ho persa quasi subito.
Poco contava strattonare Alex il vampiro o quella scostumata colombina di Patrizia che gli stava sempre appresso. La Francy se n’era andata e io mi incazzo preoccupato per dove fosse sparita. Spintono facendomi largo: una inutile formica sovrastata da giganti di cartapesta ghignanti. Quando la vedo, l’incazzo sale e la preoccupazione si dirada. Le corro incontro sbracciandomi e gridando.
La sua mano è tesa in avanti, stretta in un’altra mano. Il nanetto che la trascina è un fottuto Burlamacco come me.
Si stanno allontanando, dalla calca, dalla festa. Bastarda penso subito. Io mi metto questo dannato costume, solo per te, e tu fuggi via. Li raggiungo nel vicolo. Afferro la Francy. Lei non si volta, limitandosi a fermarsi. Ma il nano tira come un bue, trascinando entrambi. Decido che quel Burlamacco deforme ha passato il segno. Alloro lo colpisco con un calcio. L’ometto mi guarda e io non posso far altro che indietreggiare. Lo stomaco mi si chiude per l’olezzo che emana. Per quelle toppe scarlatte che ne compongono il costume, che toppe non sono. Il nano si è scarnificato: ampie parti di pelle bianca come il latte sono intervallate da scorticature che mettono a nudo il rosso acceso della carne ulcerata: il suo costume è così vivo da togliere il fiato.
Ho ancora la bocca impastata di vomito quando mi armo. Lui non reagisce, rimane fermo mentre la Frency, gli occhi vuoti, sembra imbambolata. Alzo il tubo di ferro sopra la testa.
Lo sto per calare sul quel cranio di carne, bislungo come il cappello del Burlamacco, quando Alex il vampiro e tutte le altre mascherine della compagnia si presentano alla festa.
“Cazzo Ste” gridano ghignanti “Potevi chiamarci al tuo party privato”
Il Burlamacco arretra mantenendo la presa sulla Frency. Sembra meno sicuro quel nano bastardo. Mi sento un grande. Quando abbatterò la mia asta sulla sua faccia so già che continuerò a colpirlo finché non mi faranno male le mani. Ma, come canta la maledetta fata madrina di cenerentola “i sogni son desideri”, il grido che lancia l’infame bestia uggiolante è molto più rapido di qualsiasi calcio, pugno o sprangata.
Quando vedo altri nanetti, col loro costume di pelle e carne, calare dalle case e spuntare dai vicoli, con la loro membrana nera sulle spalle, capisco che Burlamacco non mi sta sulle palle: lo odio proprio. I nanetti si limitano a disarmarmi gettandomi a terra. Alex e gli altri invece vengono morsi, atterrati e malmenati. Non so che fare. Ho paura. Il sangue, che esce dalle fronti dei mie amici, mi immobilizza. Ancora una volta il mio stomaco cede: solo acqua. I Burlamacchi trascinano senza rispetto quei corpi immobili ancora caldi. Il mio sguardo cade su Patrizia: i capelli stretti da cartonesche dita, le gambe larghe che lasciano intravedere il bianco slip di pizzo.
Quando mi rialzo, qualcuno mi aspetta. Il nano con la Frency mi invita a seguirlo.
Vorrei scappare ma non posso. Devo liberare la compagnia.
Il Burlamacco mi precede fino alle darsene più interne, quelle dei cantieri navali. Qui il carnevale non si sente, forse non è ancora arrivato o qualcosa lo tiene lontano. Lui entra in un magazzino abbandonato. Lo seguo oltre la soglia, giù per le scale, nelle fondamenta e dentro la terra umida della costa. Poi la luce cala e il suono cupo di una celata di ferrò riempie quello spazio immensamente vuoto. Li sotto i suoni che arrivano sono pochi. Si sente qualcosa che sembra il mare. Si sente lo squittio acuto dei topi. Il rumore di un tendine che si strappa o di un osso che si rompe. Le voci dei rapiti, che da bocche mute, gorgheggiano la loro paura.
In fondo questi Burlamacchi non sono incivili. Entrano nella tua mente, invadendola di immagini calde e bei ricordi. Ti cullano mentre inosservati ti privano di tutti gli altri ricordi, dei tuoi sentimenti. Non ti accorgi nemmeno dei loro denti e delle loro dita affilate che lacerano la tua carne.
I loro volti rimbalzano nei miei pensieri e riempiono i miei occhi di immagini irreali, lontane. Con me sembra che sia diverso. Sembra quasi che si divertano a spezzarmi, un poco alla volta, minando la mia già poca sanità. Hanno lasciato che vedessi, costringendomi a guardare. Ho provato disgusto per me. Per i pensieri che mi attraversavano la testa e la saliva sul lato della mia pagliaccesca bocca.
I Burlamacchi, qua sotto, lo sanno fare il loro mestiere. Prima di mangiarti ti uccidono, ma solo prima di mangiarti. Io l’ho visto. Ho visto gli occhi vitrei della Francy.
Non ho mai gridato. Non volevo disturbarli. Devono aver apprezzato questo mio gesto. Sono uno discreto io. Resto nel mio angolo acquattato in attesa del fottuto carnevale. A quella sera dovrebbe ormai mancare poco. Che paradosso: io lo odio il fottuto carnevale e più di tutto odio il Burlamacco, e ora mi tocca aspettare quei giorni di falso gaudio.
Lo so che i Burlamacchi mi vogliono cambiare ma io resisto. Una luce brilla ancora forte in me. Piccola luce contro un mare di ombre. Nella luce ci sono io e finché brilla non me ne andrò. Il dolore che provoco a me stesso è l’atmosfera limpida di quel mondo
La pelle dove mi sono scorticato è rossa. Grossi rombi di carne rossa.
I Burlamacchi sono in attesa. Aspettano il fottutissimo carnevale e io con loro.

AUTORE - SIMONE

09 giugno 2009

FARFA

Farfa una volta era stata parecchio bella.
Aveva di quegli occhi verdi da “pubblicità del mascara”. Quelli grandi e con l’iride cristallina che pareva colorata con un pennarello.
Aveva sempre avuto una fissa pazzesca per le farfalle. C’è un sacco di gente che ce l’ha per i delfini, lei ce l’aveva per le farfalle.
Tutte le pagine dei suoi diari erano invasi da alette colorate e alla fine se l’era pure fatta tatuare una farfallina; sulla pancia: una farfallina rosa e blu.
Solo che poi il suo Belmoro l’aveva mollata e lei aveva cominciato a mangiare un sacco di After Eight, quei cioccolatini con la menta dentro, e aveva continuato a mangiarli finchè la farfallina sulla pancia era diventata una specie di falena grossa con le ali tirate.
Quindi da allora tutti l’avevano sempre chiamata Farfa. Si, insomma, perché “farfallina” non ci stava più per niente.
Farfa faceva la cassiera in un negozio di alimentari. Uno di quei negozietti piccoli con poca roba carissima che ancora resistono in qualche paesino di villeggiatura.
Di quei negozi dove sulla roba c’è ancora attaccato il prezzo con l’adesivo fosforescente, quel pezzetto di nastrino stampato che si mette con quella specie di assurda pistola, la prezzatrice.
Niente codici a barre, niente penna ottica, Farfa metteva i prezzi nel registratore di cassa uno ad uno ed era quasi impossibile che sbagliasse.
Perché era parecchio tempo che stava incastrata lì, stretta su quello sgabello dietro al registratore di cassa, che quando cercava di uscire doveva sempre fare le grandi manovre.
Si, perché in tutto quel tempo non è che Farfa avesse smesso di mangiare i suoi cioccolatini con la menta.
Anche se dalla storia del Belmoro erano passati degli anni.
E’ che alla fine la faccenda di poter smettere di mettersi in ghingheri tutte le mattine le era piaciuta, a Farfa. Quando tutti i suoi vestiti carini e alla moda avevano smesso di entrarle si era comprata due camicioni e aveva finalmente scoperto cosa voleva dire “star comodi”, e poi dopo i cioccolatini aveva scoperto che c’era un sacco di altra roba parecchio buona da mangiare. E quindi non era più tornata ad essere mingherlina come prima.
Farfa era come un grande girasole in mezzo ad un campo di papaveri.
Lei era alta, grande, luminosa e forte, rideva spessissimo e lo faceva con una risata profonda e calda come l’estate. Attorno a lei tutte le sue amiche sembravano dei papaverini gracili.
Tutti la guardavano quando era in giro. E lei guardava il sole.
Farfa leggeva moltissimo; nel cassetto sotto alla cassa teneva sempre un libro di quelli con la copertina morbida che si possono anche arrotolare e puoi infilarli dappertutto. Casa sua ne era piena. Leggeva di tutto. Avventura, poesia, letteratura classica. Tutto quello che aveva una copertina di cartoncino morbido e che la cartolibreria del paese riuscisse a procurarsi.
In tutti quegli anni doveva aver accumulato un tesoro di conoscenze da far invidia ai laureati. Però non è che lei se ne andasse in giro a vantarsene di conoscere un sacco di cose che magari gli altri non sapevano.
Ma ogni tanto la sua cultura emergeva. Come le cose che il mare restituisce dopo le tempeste, quando tutto torna calmo e il cielo è di nuovo sereno.
A volte, quando si parlava di qualcosa, Farfa si lasciava sfuggire una parola, o una spiegazione, o una descrizione che facevano capire subito che lei era una che aveva letto tanto.
Ma non credo lo facesse apposta. E’ che la cultura è un tesoro talmente brillante che non si può tenere nascosto del tutto il suo riflesso.
Non se n’era mai andata dal paese. Dopo la scuola aveva trovato da lavorare alla bottega e si era seduta lì; diceva che non le andava di allontanarsi dal posto dove era nata, di allontanarsi dal mare, dal molo, dagli scogli e dai gabbiani.
Il mare la faceva sentire viva e poi non sarebbe sopravvissuta dieci minuti in mezzo alla nebbia delle grandi città.
E poi diceva che non c’era bisogno di andarsene per vedere il mondo, perché tanto il mondo bastava aspettarlo che sarebbe passato di lì.
E in effetti di lì passava un sacco di gente.
Soprattutto d’estate, come è normale, con tutti i turisti che scappavano dall’afa per buttarsi nel loro mare fresco. Lei quelli che tornavano ogni anno li conosceva tutti per nome.
Perché a Farfa piaceva guardare dentro agli occhi e alle vite della gente. Lei li leggeva come faceva con i suoi libri. E credo che li trovasse tutti ugualmente appassionanti.
D’estate la sua risata usciva dalla porta della bottega attraverso la cortina di perline azzurre. Ed era talmente contagiosa che chi non la conosceva entrava incuriosito nel negozio per poter essere investito e colorato un po’ da quella cascata di luce.
Ma il mondo non smetteva di passare di lì neppure durante le altre stagioni.
D’inverno passavano soprattutto le persone anziane, che venivano qui perché il clima era più mite. A Farfa piaceva far loro tante domande sulla loro storia e sulla loro lunga vita. Chi ha vissuto di più ha una storia più lunga da raccontare, e poi a lei piaceva la luce che si accendeva nei loro occhi quando sentivano che qualcuno era interessato ai loro racconti.
Come se a casa loro non ci fosse nessuno che li ascoltasse mai.
E poi c’erano gli artisti. Quelli che arrivavano quando i turisti se n’erano andati via, apposta per potersi godere il mare, e il sole e i tramonti e i gabbiani e per poter cogliere l’ispirazione dimenticata dai vacanzieri.
Farfa era affascinata dagli artisti. La si vedeva spesso la sera parlare sul molo con qualche pittore o qualche poeta. Credo che con qualcuno abbia scambiato anche più di qualche parola. Perché anche loro erano affascinati da lei; dal girasole in mezzo al campo di papaveri.
Un giorno arrivò in paese uno di questi artisti. Uno che non si era mai visto.
Era un tizio di quelli alti alti secchi secchi, con dei capelli biondi un po’ lunghi che gli cadevano intorno alla faccia come delle spighe bagnate.
Di quelli che quando camminano sembra sempre che abbiano le gambe troppo lunghe per gestirle bene.
Farfa lo incontrò una sera di ottobre. Lui era seduto sulla panchina che c’è in fondo al molo grande e fissava il mare. Lei come al solito faceva la sua passeggiata solitaria.
Arrivata in fondo al molo anche lei si mise a guardare fisso davanti a sé e rimasero così, sconosciuti e vicini per un sacco di tempo.
Il sole sparì dietro all’orizzonte e nessuno dei due riuscì a vedere il leggendario raggio verde.
A pensarci bene fu molto strana come scena, perché Farfa di solito parlava con tutti ed era sempre lei a presentarsi per prima. Ma con il tizio biondo no. Con lui rimase in silenzio per tutto il tempo.
La sera dopo si ritrovarono di nuovo. Guardarono di nuovo il tramonto in silenzio e poi finalmente Farfa si schiarì la voce e disse qualcosa. Però la disse con voce quasi sussurrata. E anche questo fu molto strano.
Dopo mi spiegò che aveva capito subito che a lui piaceva il silenzio. E che era quello il motivo per quelle due serate strane. E che c’erano modi diversi per avvicinare le persone e con gli amanti del silenzio occorreva avvicinarsi senza parlare se si voleva che loro uscissero dal loro guscio.
Andarono avanti parecchi giorni con i loro incontri silenziosi sul molo.
A poco a poco si scoprì che il biondo era straniero, che era uno scrittore di una certa fama e che pareva vivesse in un faro su di una minuscola isola al largo delle coste di Bretagna.
Forse fu per quello che Farfa sentì un’immediata attrazione per lui. Uno scrittore ha gli occhi molto più pieni di storie di qualsiasi altra persona.
E poi c’era il fatto che vivesse in un faro circondato dal mare. A Farfa era apparsa subito come un’idea assolutamente meravigliosa.
La sera prima di ripartire per la sua terra lui e Farfa si salutarono a lungo sul molo. Si tennero per mano e guardarono il tramonto finchè non venne buio.
Anche se quasi nessuno ci fece caso Farfa da allora cambiò impercettibilmente.
I suoi libri arrotolati e la sua risata che si infrangeva fra le perline azzurre davanti alla porta del negozio rimasero sempre gli stessi, così come il suo guardare il sole e le persone negli occhi.
La differenza si vedeva se guardavi i suoi di occhi. Quelli verdi come l’acqua.
Ora quando guardavano il mare non si limitavano ad assorbirne la vita e la luce. Adesso i suoi occhi guardavano lontano.
Per la prima volta nella sua vita Farfa guardava verso posti diversi dal suo paese e forse nel fondo del suo grande cuore sognava di poterli vedere non solo attraverso gli occhi della mente e attraverso le parole scritte sui libri.
Passò un anno di prezzi battuti sul registratore di cassa, di volti conosciuti che tornavano, di volti nuovi che arrivavano, di risate calde e di papaveri rossi.
Poi tornò ottobre. E con lui tornò lo scrittore con i capelli di spighe.
E negli occhi di Farfa si accese una luce ancora più bella della sua solita.
Io lo sapevo quello che sarebbe successo. Sapevo che sarebbe andata via con lui a vivere su quel faro in mezzo al mare di Francia.
Tutto il paese e anche tutti i turisti si affollarono sul molo il giorno che Farfa lasciò casa. Sapevamo tutti che il sole da quel giorno avrebbe brillato un po’ meno per noi. Però eravamo felici perché lei, per mano al suo scrittore dallo sguardo buono, era assolutamente raggiante.
Ci disse che avevano in programma di girare intorno al mondo. E che avrebbe visto tutti quei paesi e quelle cose di cui aveva solo letto. E che ci avrebbe portato un sacco di regali. Era talmente entusiasta che la sua voce si sentiva in tutto il porto.
Ci sarebbe mancata tanto quella voce potente.
Farfa mantenne tutte le sue promesse. Tornava al paese almeno una volta l’anno per salutare tutti e strizzarci in uno dei suoi abbracci. Ogni volta portava regali presi in luoghi lontanissimi e foto bellissime che tutti noi incorniciavamo e appendevamo in casa o nei negozi, orgogliosi di averle ricevute in dono.
Anche lei, convinta dal suo Amorebiondo, cominciò a scrivere libri e la cartolibreria ne mandava sempre a comprare degli scatoloni pieni, perché in paese tutti ne volevano avere una copia da leggere.
Scrisse un libro anche su di noi. Sul paese in cui era nata e cresciuta. C’eravamo tutti in quel libro. C’era ogni gabbiano e ogni scoglio e i vecchi si commuovevano a leggere quelle parole belle scritte da Farfa.
A leggere quelle pagine c’era davvero da essere orgogliosi di essere nati proprio lì.
Nel paese dove volano le farfalle.

AUTORE - SARA

01 giugno 2009

LIBERTA'

Sono davanti alla porta. Devo solo abbassare la maniglia e uscire. La libertà è a portata di mano.

Da quando avevamo traslocato in quel quartiere eravamo tutti più felici: la casa nuova era grande e spaziosa e i vicini, tranquilli, silenziosi e cordiali.
Quello che mi stava più simpatico era il signor Brandol, soprannominato Martin Pescatore perché passava tutto il tempo libero attaccato alla sua canna da pesca al lago Sherman, a circa un’ora di macchina da noi.
Pescava sempre un sacco di pesci e ne regalava a tutti. Un giorno ci aveva portato una borsina di plastica con dentro tre o quattro di quelle che poi mio padre aveva riconosciuto come tinche.
“Oggi è stata un’ottima giornata al lago. Non facevo in tempo a buttare giù l’amo che qualcosa abboccava” aveva sentenziato Brandol, consegnando parte del pescato a mio padre.
“Grazie mille. Sei sempre gentilissimo con me. La prossima settimana ti invitiamo a cena da noi. Tieniti libero, ok?” aveva proposto mio padre di rimando.
A me il pesce non piaceva, ne odiavo l’odore e tutte quelle lische che mi si piantavano nei denti. Quando mia madre mi obbligava a mangiarlo “perché fa bene” lo passavo di nascosto sotto il tavolo a Buck, il nostro Fox Terrier che, invece, mostrava di apprezzarlo parecchio.
Quando quello stesso pomeriggio avevo aperto il frigo per prendermi un succo di frutta, qualcosa all’interno si era mosso. Avevo lanciato un urlo e avevo fatto un balzo all’indietro.
Possibile che quei pesci siano ancora vivi?
Mi ero avvicinata con cautela e avevo allungato la mano per toccarli. Un colpo di coda.
Accidenti! Uno dei pesci stava ancora lottando per non morire. La sua tenacia mi impressionò e, poiché amavo molto gli animali, lo presi e lo misi subito nella vasca da bagno che avevo riempito di acqua.
Dopo qualche minuto di stordimento, la tinca aveva iniziato a nuotare lentamente.
Ero al colmo della felicità. Mia madre non era dello stesso avviso: ”Togli immediatamente quell’essere dalla vasca da bagno, Ruth!”
“Ma mamma è ancora viva!”
“Bé fai come vuoi, ma trovale un’altra sistemazione. E subito!” aveva protestato mia madre.
Così le trovai una nuova dimora: un grosso catino parcheggiato nel capanno degli attrezzi che usavamo per lavare Buck.
Curai e sfamai Polly (così la chiamai) per due mesi. Ormai mi ero affezionata a lei. E anche lei si era abituata a me e alla mia presenza.
Le prime volte quando la prendevo in mano per cambiarle l’acqua si agitava, sbatteva la coda e cercava di divincolarsi. Ma già dopo una settimana, conosceva il mio tocco e si lasciava prendere docilmente.
Nella casa di fianco alla nostra abitavano i signori Cutter, due vecchietti entrambi in pensione. Ma mentre lui si alzava tutte le mattine prestissimo per fare footing, lei rimaneva a letto almeno fino alle undici. Sembravano i due opposti: lui si teneva impegnato tutto il giorno in attività che lo tenevano in movimento, lei era sempre sdraiata in giardino a leggere libri o a prendere il sole.
Anche noi avevano un bel giardino. C’erano tanti fiori e piante.
Buddy, che abitava nella casa di fianco a quella dei Cutter, veniva tutte le settimane a falciare l’erba, curare i fiori e livellare la siepe. Faceva il giardiniere di mestiere e, così diceva sempre papà, era davvero molto bravo e meticoloso. Si occupava anche di sistemare le buche che puntualmente Buck scavava per nascondere i suoi adorati ossi.
Buddy ormai era uno di casa, per cui non mi preoccupai per nulla quando mi propose di salire in casa sua per darmi un regalo.
Avevo nove anni.
Appena varcai la soglia di casa mi tappò la bocca. Mi disse che non dovevo strillare, che non mi voleva fare del male, che voleva solo occuparsi di me.
Poi il buio. Quando mi risvegliai ero in un letto, in una stanza senza finestre e con la luce fioca di una lampadina appesa al soffitto.
Avevo una catena alla caviglia.

Sono a pochi centimetri dal mondo esterno, dalla libertà. E’ passato molto tempo dal giorno in cui sono entrata così ingenuamente in casa di Buddy, ma non saprei dire con precisione quanto. Mesi. Anni, credo.

Le prime volte che Buddy si avvicinava a me cercando di abbracciarmi, io urlavo, piangevo e cercavo di scappare da lui.
Lo pregavo di lasciarmi libera e di farmi tornare dalla mia famiglia.
Lo odiavo, mi aveva rinchiuso in quel tugurio come fossi un animale, un oggetto.
Poi poco alla volta mi ero abituata alla sua presenza, alla sua voce, alle sue mani.
Poco alla volta gli avevo ceduto quella parte di me che prima scalciata, scalpitava.
Ero diventata sua, un suo giocattolo: gli appartenevo.
Diceva che solo lui mi voleva bene e che tutti gli altri, dopo il primo momento di dolore, si erano dimenticati di me. Lui non avrebbe mai potuto abbandonarmi. Lui mi amava.
Dopo le prime volte non mi aveva neanche più picchiata.
Mi portava vestiti nuovi, man mano che quelli vecchi non mi andavano più bene. E cibo. E libri di favole da leggere. Bambole e peluche. E noccioline americane. Io amavo le noccioline americane.
Così, poco alla volta, avevo finito per essere un tutt’uno con lui. Il mio carceriere e allo stesso tempo la mia unica fonte di calore umano.
Quel giorno, Buddy, prima di uscire da casa aveva chiuso male il lucchetto della mia catena. Mi era scivolata via dalla caviglia ed era caduta dal letto facendo un tonfo sordo.
Ero rimasta impietrita, poi ero salita lentamente da quel seminterrato che era ormai la mia sola immagine di vita e a piedi nudi, incredula e spaventata, mi ero trovata nel soggiorno.

Devo solo allungare la mano per aprire la porta ma un cocktail di sentimenti impetuosi e contrastanti mi blocca il respiro. Mi affloscio a terra come un palloncino sgonfio.
Devo solo aprire quella dannata porta e dire al mondo che sono viva, che sono sempre stata qui. Così vicina e così lontana, allo stesso tempo. Ma non ci riesco. Le mani mi tremano, tutto il mio corpo trema.
Mi viene in mente quando avevo riportato Polly al lago Sherman. L’avevo presa in mano e l’avevo rimessa nel suo ambiente naturale. Lei però non si era mossa. Non si allontanava. Allora avevo pestato i piedi dentro l’acqua, con forza. Quel movimento l’aveva convinta a nuotare e andare verso il fondo del lago, dove l’acqua era profonda.
Ma io non ho lo stesso coraggio di Polly. O forse è perché nessuno qui muove l’acqua intorno a me. Tutto in questa casa è immobile. Solo silenzio. Quel silenzio che ormai mi è diventato così familiare.
Scelgo la paura minore.
Ritorno sui miei passi e mi chiudo con forza la catena intorno alla caviglia.
Forse Buddy mi porterà le noccioline, più tardi.

AUTORE - Rossella Penserini

12 maggio 2009

ASINI

Io.
I-o.
Ih-oh.
Il mio maestro, che si chiamava Aldo, ci ripeteva continuamente che sono gli asini a fare sempre ‘Ih-oh ih-oh’.
C’erano alcuni miei compagni di classe che quando il maestro Aldo faceva una domanda alzavano la mano, e se dopo cinque secondi non gli veniva data la parola cominciavano a dire “Io! Io!”.
Ce n’erano altri che quando ci mettevamo in fila per due volevano stare davanti, e se ci si piazzava qualcun altro cominciavano spingere e dire ‘Io!Io!’.
Lo stesso accadeva quando andavamo a fare ginnastica per chi tirava la fila del riscaldamento o doveva salire per primo sulle pertiche. Oppure quando il maestro si doveva assentare per qualche minuto e chiamava qualcuno alla lavagna a scrivere la lista dei cattivi.
Questa passione per fare la spia poi, non l’ho proprio mai capita. Le rare volte che il maestro sceglieva me (che tra l’altro mi guardavo bene dall’alzare la mano) mi vergognavo come un ladro e non scrivevo mai nessuno. Dopo due minuti la situazione era già degenerata irreversibilmente e arrivava il bidello a fare da carabiniere.
Per la verità anch’io avevo la mia parte di colpe.
Ogni tanto quando uscivamo in cortile nell’intervallo il maestro Aldo, che era un grande appassionato e di calcio e allenava anche la scuadra di pulcini della parrocchia, ci consentiva di giocare a pallone. Normalmente faceva lui le squadre e faceva anche l’arbitro, forse alla ricerca di qualche talento da portare a giocare nella sua squadra. “Chi vuole giocare in attacco?” chiedeva una volta fatte le squadre. E lì ero sempre il primo a dire “Io!Io!”. Non potevo resistere al richiamo di giocare centravanti, il mio idolo era Altobelli che giocava nella mi squadra del cuore: l’Inter. Tutte le volte che mi arrivava il pallone mi mettevo a scartare tutti (ero sommamente innamorato del pallone) e intanto facevo pure la telecronaca: chiamandomi rigorosamente Altobelli.
Ad ogni modo, in tutte quelle circostanze in cui qualcuno attaccava con quella manfrina di “Io-io” il maestro si imbufaliva e diceva: “Sono gli asini che dicono sempre. ‘Ih-io ih-io!’”.
Solitamente questo ci faceva smettere: ma la volta dopo si ricominciava, insomma lì per lì il suo sbottare ci arginava, ma proprio non imparavamo la lezione.

Una mattina il maestro Aldo venne in classe con un altro suo amico maestro di nome Renzo.
Si era proprio scocciato di noi e dei nostri ‘io-io’, ci disse, per cui quel giorno sarebbe stato il suo amico a farci lezione al posto suo.
Dopo di ché girò sui tacchi e se ne andò a fare una passeggiata. Potrà sembrarvi strano ma erano altri tempi, e i maestri avevano altri metodi educativi. Ci disse anche di stare attenti perché Renzo (così si chiamava il supplente) non era tollerante come lui su certe cose.
In effetti noi subito prendemmo la cosa sottogamba. Alla prima ora il maestro Renzo cominciò facendoci le solite domande tipo “Quanti decamentri stanno in un ettometro?”, ed era sempre la solita cantilena di “Io-io”. Lui si limitava a dire, con molta calma: “Che cosa vi dice sempre il vostro maestro? Chi è che dice sempre ‘io-io’?”.
La prima volta che successe Pietro ricominciò immediatamente a dire “Io!Io!” perché pensava che anche a quella domanda servisse dare una risposta. Era sicuramente il più irrecuperabile di tutti.
Comunque sia, la solita gragnuola di ‘Io-io’ venne a galla quando ci mettemmo in fila per l’intervallo.
Il maestro Renzo era sempre calmo. L’unica cosa strana era che tutte le volte che qualcuno si metteva a dire ‘Io-io’ lui gli chiedeva il nome e poi scriveva su un taccuino. Quando la cosa cominciò a ripetersi troppo spesso cominciai a sentire una gran puzza di bruciato. Anche il suo sguardo a poco a poco comincio a diventare sempre più obliquo, quasi da furetto.
Alla terza e alla quarta ora del mattino c’era ginnastica e ad un certo punto il maestro Renzo ci propose di fare una partita di pallone. Questa era veramente una novità, una partita di pallone nella palestra, con delle vere porte da calcetto ed un terreno che per una volta non sembrava avere appena subito un processo di aratura.
Il maestro Renzo fece più o meno come faceva Aldo nell’intervallo: prese un fischietto fece le squadre e poi chiese di alzare la mano a chi volesse giocare in attacco. Con circospezione alzai la mano insieme ad altri quattro o cinque. C’erano quattro attaccanti da scegliere, un centravanti ed un'ala per squadra. Lentamente il maestro Renzo scelse le due ali e uno dei due centravanti. Era rimasto un unico posto da centravanti per me e un altro volontario. L’altro si sbracciava e diceva senza ritegno: “Io!io!”. Io ero zitto. Avevo un gigantesco “Io!IOOOOOOO!” che mi cresceva dentro, e mi pareva di percepire la foto di Altobelli sulla figurina che tenevo nell’astuccio guardarmi severo. Dovevo avere quel posto, dovevo segnare! Per il mio idolo! Per risollevare il campionato dell’Inter!
Il maestro Renzo aspettava e mi guardava. Iniziai a sudare ma sentivo sempre più puzza di bruciato. Con uno sforzo sovrumano abbassai la mano ritirando la mia candidatura e, perfidamente, il nostro suppplente assegnò il MIO posto a Davide.
Nel primo pomeriggio valutai che avesse chiesto il nome praticamente a tutti i miei compagni tranne me, che, per non saper né leggere né scrivere specialmente dopo l’episodio della partitella, me ne stavo sempre in disparte.
Ad un certo punto il maestro Renzo mi interpellò direttamente: “Vediamo un po’… tu laggiù che te ne stai sempre zitto… hai voglia di rispondere a qualche domanda?”
“Beh, non è che ne abbia poi una così gran voglia…” borbottai.
“Parliamo un po’ di pronomi personali” mi bruciò sul tempo lui “Qual è la prima persona?”
Altrochè puzza di bruciato, quello era un tranello bello e buono! Con tutto il candore di questo mondo risposi: “Noi.”
Il maestro Renzo mi guardò storto e poi tornò a chiedermi: “Va bene, seconda domanda: facciamo finta che tu abbia un fratello. Chi è il fratello di tuo fratello?”
E io fiutando l’inghippo: “Andrea.”
“Come? E chi è Andrea?”
“Il mio terzo fratello.”
“Non dire bugie, so perfettamente che non hai nessun fratello che si chiama Andrea.”
“Beh, se è per quello fratelli non ne ho per nulla…”
Il supplente inclinò così tanto la testa che per un attimo temetti che gli cadesse di lato, ma non mi chiese altro. Guardò invece l’orologio e disse: “Bene ragazzi. Direi che è per l’ultima ora al posto della lezione faremo una bella gita fuori porta.”
E così dicendo ci portò a fare una passeggiata sulla collina dietro alla scuola.
Tutti erano estasiati, uscire piuttosto che fare lezione era una cosa eccezionale. Io però continuavo ad essere perplesso. Quando fummo a duecento metri dalla scuola ci fece fermare nelle vicinanze di un carretto e disse: “Bene ragazzi ora ci divideremo in due gruppi. Tu! – indicò me – Qui alla mia sinistra!”
Io mi avvicinai riluttante e lo affiancai, lui si volse verso di me e disse: “Ora voglio che tu rimanga immobile come una statua.”
D’improvviso mosse le braccia verso l’alto disse qualcosa tipo ‘Agrabuz!’ e… ZOT!
Tutti i miei compagni divennero all’improvviso asini.
Per la sorpresa si misero a ragliare a più non posso: “Ih-oh Ih-oh”. Si guardavano a vicenda e cercarono di correre via, ma il maestro Renzo fece uscire da chissà dove una frusta e la schioccò nell’aria paralizzando tutti, dopo di ché volse verso di me il suo sguardo penetrante per vedere se per caso non stavo meditando di darmela a gambe.
Io però, pietrificato dall’orrore, ero più fermo di un gatto di maiolica. Sotto i suoi occhi perforanti sentii una gocciolina scendermi giù dalla tempia e mi chiesi se già non stessi osando troppo.
“Benebenebene.” Disse il malvagio Renzo strofinandosi le mani “Adesso: c’è un carretto da tirare fin su per la collina. Chi si offre volontario?”
Neanche a dirlo tutti zitti: “Ma come?- li canzonò il malvagio maestro -Nessuno dice più ‘Io’, adesso? E si che sarebbe ben facile!”
In effetti la voglia di chiacchierare era passata un po’ a tutti.
Lui passeggiò per un po’ in qua e in là e poi si rivolse a me: “Augusto, scegli tu.”
Evitai di fargli notare che mi chiamo Matteo, e rimasi zitto e immobile. Dopotutto me lo aveva detto lui. A quel punto mi si avvicinò e mi chiese con voce suadente: “Su Augusto, dimmi chi è che ti sta più antipatico che gli facciamo tirare il carretto.”
E io zitto.
“Dai, a me lo puoi dire, no?” si avvicinò ancora al mio orecchio sbatacchiando le palpebre, la sua voce era un sussurro mellifluo, avevo la strana sensazione che anche le sue ciglia si stessero allungando. Il sudore mi scendeva copioso dalle tempie, e anche le ascelle cominciavano ad emanare. Se fossi stato una teiera quello sarebbe stato il momento in cui mi sarei messo a fischiare.
Fu in quel momento che arrivò Aldo, il nostro maestro vero e proprio.
“Bene, vedo che sei riuscito a tirare fuori il lato migliore di tutti loro.” Disse con sarcasmo indicando i miei compagni tramutati in asini. “E Augusto? Come mai non è ciuco pure lui?” adesso pure lui cominciava a chiamarmi Augusto? Era chiaramente una provocazione.
“Matteo” lo corresse Renzo, di colpo sembrava cambiato “mi sembra diverso dagli altri. Lui non si sente sempre il centro del mondo.”
“Beh, tanto meglio, vorrà dire che hai risparmiato una buona magia” fece il maestro Aldo con noncuranza e così dicendo si spostò in mezzo al gruppo di asini: “Vediamo a che punto è la lezione: ho qui un bel pacchetto di caramenlle, qualcuno ne vuole?”
I miei compagni in forma d’asino rimasero perfettamente muti.
“Beh, forse adesso che siete asinelli trovate più appetitosa questa carota.”
Tutti zitti.
“E questa collezione completa di Extra Omarelli Smontabili che odorano di tredici frutti diversi?”.
Tutti muti. Incredibile, nella mia classe c’erano almeno quattro bambini che avrebbero volentieri barattato 6 mesi di merendine con quella collezione.
“Bene. Mi sembra che siate abbastanza guariti, direi che potete mettervi in fila per essere ritrasformati in bambini. A chi non importa di essere l’ultimo darò questo autografo originale di Altobelli.”
“IO!IO!” gridai di riflesso capendo in ritardo che il maestro Aldo non voleva affatto far tornare i miei compagni bambini ma quella era tutta una complicata trappola ordita contro di me, e infatti…
“Agrabùz!”
Renzo inciuchì pure me.

Dopo una mezz’ora il maestro Renzo, che dopotutto non era poi così cattivo, disse: “Zubargà!” e tornammo tutti normali. Anche quella del carretto si rivelò una minaccia a vuoto: nessuno dovette tirarlo su per la collina, ci fecero soltanto marciare per un po’ in qua e in là, in fila per due, per tre e per sette. Alla fin fine essere asini non era nemmeno tanto male: se sei un ciuco a nessuno viene in mente di chiederti che relazione c’è tra peso lordo, peso netto e tara.
Ad ogni buon conto fui ben felice di tornare nei miei panni.
Il giorno successivo tornò normalmente a farci lezione il maestro Aldo. Non disse una parola su quanto era accaduto il giorno precedente. Inoltre, siccome i bambini dimenticano in fretta e a volte confondono anche un po’ la realtà e il sogno, la nostra vita riprese a scorrere con normalità come se nulla mosse mai accaduto.
Ma da quel momento in poi, potete credermi, di “Io-io” se ne sentirono ben pochi.

AUTORE - Massimiliano Prandini

24 aprile 2009

OPEN BOOK - Secondo Step - CONCORSO

E' passato circa un mese dalla chiusura del progetto OPEN BOOK ma in realtà, come ricorderete, il progetto non si è concluso. Infatti i curatori durante le presentazioni hanno dato nuova linfa al progetto proponendo a chiunque fosse interessato la ristesura delle trame dei tre racconti che formano l'E-BOOK.  In poche e semplici parole:

1) scaricate e leggete l'Ebook di OPEN BOOK
2) scegliete frai tre filoni che preferite: NOIR - FANTASY - NARRATIVA NON DI GENERE
3) leggetevi il racconto
4) rielaborate la storia mantenendo trama e personaggi creando così un nuovo racconto 
5) una volta che avrete completato il lavoro mandatelo alla redazione che ha seguito l'editing del genere da voi scelto:  
NOIR:  bookmodena.noir@gmail.com - BLOG: http://bookmodenanoir.blogspot.com/
FANTASY : bookmodena.fantasy@gmail.com - BLOG http://bookmodenafantasy.blogspot.com/
NARRATIVA NON DI GENERE: bookmodena.narrativa@gmail.com - BLOG http://bookmodenanarrativa.blogspot.com/


Le rielaborazioni scelte dalla redazione varrò impaginate e distribuite sotto forma di E-Book 
Ricordate di inviare insieme allo scritto sempre la liberatoria che troverete sui vari BLOG

SCADENZA DEL CONCORSO: 30 GIUGNO 2009

Buon divertimento a tutti! ;-)



19 aprile 2009

XOMEGAP SPLITTATO

Questa volta il gruppo si divide in due bellissime presentazioni che si terranno il giorno 22 APRILE

 1) A Reggio Emilia, presso il CIRCOLO DI LETTURA del Paguro Caffè, via Monzermone 3/A, verrà presentata l'antologia MUTAZIONI edita da LAB - Perrone editore, primo incontro di questo nuovo progetto nato per dare la possibilità ai lettori di discutere di libri direttamente con gli autori. 
L'ingresso è gratuito e l'incontro inizierà alle 20:00


 2) A Modena, presso il locale FUSORARI, p.le Torti angolo via Selmi, verrà presentata all'interno del progetto CHILOMETROZERO,  l'antologia RACCONTI FRIZZANTI edita da Damster editore. 
Per l'occasione l'Azienda Agricola Opera 02 offre in abbinamento al piatto la DEGUSTAZIONE dei suoi LAMBRUSCHI GRASPAROSSA.
L'incontro inizierà alle 21:30 per la cena dalle 20:30 - FUSORARI


02 aprile 2009

RACCONTI FRIZZANTI a EAT PARADE


Questa domenica alle ore 13:30 sintonizzatevi tutti su Raidue perché all’interno della rubrica Eat Parade (che suppongo parlerà del Vinitaly) verrà citata l’antologia Racconti Frizzanti a cui hanno partecipato due di noi Xomegappini.
Già vedo le porte della celebrità che si spalancano…

12 marzo 2009

OPEN BOOK - Versione PDF























Ecco, per voi,  la versione PDF di Open Book
Gli altri formati in cui l'e-book è disponibile li potete trovare sul sito di 

09 marzo 2009

OPEN BOOK: Download

L'e-book con i tre romanzi ottenuti dal progetto Open Book è disponibile per il download gratuito sul sito di Zona Holden (Servizio Biblioteche di Modena).

Ringraziamo tutti quelli che hanno partecipato e che ci hanno seguito fin ora. Il progetto continuerà ancora per alcuni mesi in forma di rielaborazione dei testi prodotti. A breve posteremo le regole per poter partecipare ;-)

Grazie anche a chi è venuto a BOOK 2009 alla primissima presentazione pubblica dell'E-Book.
Lo spazio non è stato molto ma recupereremo, intervenendo personalmente venerdì 13 marzo 2009 presso la Biblioteca Comunale del centro commerciale la Rotonda dove saremo ospiti della manifestazione "Scritture Metropolitane

Vi aspettiamo con un sacco di domande ;-)

P.S. per chi preferisce presto verrà rilasciato l'E-Book anche in formato PDF