30 ottobre 2005

EVASIONE

Quando aprì gli occhi, l’unico pensiero che prepotentemente si dilatò fino ad occupare tutta la sua mente intorpidita fu: “Ce l’ho fatta. Sono riuscito a fuggire”.
Stava piovendo. Un tiepido acquazzone primaverile. Era sdraiato per terra, sentiva l’erba fresca e bagnata sotto alle braccia e alle gambe nude, aperte e distese.
Era sdraiato e guardava il cielo pennellato di nubi grigie che riversava sul suo corpo quel dolce pianto.
Ed era finalmente libero. Sfuggito alla sua prigione.
Cominciò a ridere, muovendo gambe e braccia contro all’erba come fanno i bambini nella neve fresca.
La sua risata cristallina e colma di una felicità purissima e primitiva si mischiò per diversi minuti con lo scroscio del temporale.
Fuggito. Libero. Vivo.

Dopo aver trovato qualcosa con cui coprirsi, cominciò a gustarsi la sua nuova libertà.
Il vento si era alzato scacciando le nubi e ora un sole vigoroso faceva splendere ogni cosa nell’aria ripulita.
Mentre camminava, con passo lento, curioso, per non perdersi nulla di ciò che lo circondava, le sue mani sfioravano tutto quello che vedeva.
Passò le sue dita pallide sui petali roridi dei giovani fiori, gustandone l’impalpabile e serica morbidezza; sfiorò con la mano aperta i tronchi forti degli alberi, sentendo sotto alla pelle il flusso vitale che in essi scorreva.
Quanto lo aveva desiderato.
Troppo a lungo guardato da lontano. Troppo a lungo agognato. Fino a non averne quasi più memoria.
Ma ora era qui.
Il profumo dei fiori era talmente dolce da fargli girare la testa, quello della terra bagnata era l’odore familiare delle cose che amiamo.
I suoi passi lievi affondavano morbidamente nel terreno umido e colmo di potenziale vita. Anche le cose più semplici avevano un fascino meraviglioso. Perché non erano più lontane e irraggiungibili, ma vere e reali attorno a lui.

La strada lo portò fino al limitare di una città.
Cambiarono i colori e gli odori. Cambiarono i suoni e le sensazioni.
Le persone che gli scorrevano intorno erano così tante, e diverse, e così piene di vita e di sentimenti e di emozioni.
Rimase fermo per diversi minuti, lasciando che la corrente lo investisse, lasciandosi trasportare sull’onda delle voci e delle luci.
Qualcuno lo guardava incuriosito, doveva avere un’espressione strana, doveva apparire strano, con quei vestiti troppo grandi per lui, con i capelli spettinati, con lo sguardo sognante.
Quanto avrebbe voluto gridare a tutti che ce l’aveva fatta, che era riuscito a fuggire, che era finalmente qui, libero, rinato a nuova vita!
Ma doveva trattenersi e non dare troppo nell’occhio. Non era del tutto al sicuro; forse non lo sarebbe stato mai. E poi non era il caso di mettere in allarme quelle persone ignare.

Riprese a camminare mischiandosi alla folla.
I rumori delle auto e della folla crescevano mano a mano che si avvicinava al centro e dopo un po’ si accorse che le sue orecchie, non abituate a tanto frastuono, cominciavano a provare fastidio.
Si guardò intorno alla ricerca di un luogo dove fermarsi.
Un luogo dove avrebbe potuto continuare a godersi la sua esplorazione.
Vide da lontano una macchia verde fra i palazzi. Alberi: un parco; il rifugio ideale.
Ripensò alla morbidezza dei fiori e al profumo della terra e sorrise all’aspettativa di poterli riassaporare.
Nel parco non c’era molta gente. Il recente acquazzone aveva spinto le persone a trovare rifugio in luoghi chiusi.
Prese a camminare lungo i vialetti di ghiaia bianca, ascoltando con piacere il rumore dei ciottoli che si spostavano sotto ai suoi piedi. Di tanto in tanto una goccia d’acqua fredda sfuggita dalle foglie degli alberi lo colpiva sul viso, provocandogli un sottile brivido di piacere.
Le bianche ninfee galleggiavano placide sulla superficie di un laghetto appena increspata dalle ultime gocce di pioggia, le anatre si lisciavano le penne stringendosi tutte in cerchio attorno agli ultimi nati.
Non resistette alla tentazione e si avvicinò ad essi, prese fra le mani uno di quei piccoli esserini e affondò le dita nelle sue giovani piume lanuginose, accarezzandole con delicatezza.
Le altre anatre intanto zampettavano attorno alle sue gambe, sfiorandolo con i loro piccoli corpi caldi, con le loro zampette fredde e palmate.
Rimase così, ad occhi chiusi, godendo solo di quel piccolo calore pulsante fra le sue mani, chiuso in un silenzio estatico, finché qualcosa non lo indusse ad aprire gli occhi.
La sensazione di essere guardato; la sensazione della presenza di qualcuno vicino a lui.
Aprì gli occhi e si trovò a riflettersi in un paio di occhi scuri. Poté così vedere come doveva essere apparso a tutta quella gente, in città.
Guardò il suo riflesso: esaminò l’immagine di quel giovane biondo, con i capelli lunghi e del colore chiaro della luce del sole.
Guardò quel volto liscio e senza imperfezioni, le labbra morbide e ben disegnate, i denti candidi e perfetti dietro ad esse, il naso piccolo come quello di un giovinetto. E poi gli occhi, occhi azzurri come il cielo d’estate, ammorbiditi da ciglia vellutate.
Guardò la fronte liscia e le sopracciglia arcuate in un’espressione di innocente stupore.
Gli specchi scuri ebbero un fremito, provocato da un lieve sospiro, e quel movimento bastò affinché la sua attenzione si posasse sulla persona a cui appartenevano quegli occhi.
Guardò la piccola bocca da cui era sfuggito il sospiro. Davanti a lui c’era una ragazza.
Il viso, tutt’altro che perfetto, era però ingentilito dagli occhi grandi e scuri e dalla bocca piccola ma carnosa.
Capelli anch’essi scuri e leggermente ondulati le ricadevano sulle spalle incorniciandole il volto.
Lo stava fissando con un’espressione indescrivibile.
Lo stava ammirando.
Il respiro era spezzato dall’emozione di trovarlo lì, comparso dal nulla, circondato da animali schivi che non lo temevano. Bellissimo.
- Tu…? -
Aveva una voce sottile, quasi da bambina. Lui le sorrise, fissando il suo sguardo su quella bocca che pareva così morbida e innocente. Senza dire una parola sollevò una mano, continuando a tenere il pulcino con l’altra, e le accarezzò le labbra. Le sue dita indugiarono su quei petali socchiusi e poi proseguirono ad accarezzare la pelle morbida della guancia e del collo.
Era liscia e tiepida. Sotto la pelle del collo poteva sentire il suo sangue vivo e forte pulsare con un ritmo regolare e leggermente accelerato.
Lei non disse nulla. Continuando a fissarlo, perdendosi nella sua bellezza perfetta.
Lui allora si chinò leggermente su di lei e le posò le labbra sulla bocca ancora dischiusa.
Le sue labbra erano fresche e asciutte, perfette come seta. Dopo un primo momento di resistenza, la ragazza cedette e si abbandonò all’abbraccio.
Il respiro della ragazza era caldo, la sua lingua, dapprima timida, si lasciava accarezzare dalla sua curiosità.
Una goccia, poi un’altra, in breve il cielo, tornato grigio, riprese a piangere le sue tiepide lacrime.
I due continuarono a baciarsi mentre la pioggia inzuppava i loro capelli e i loro vestiti, apparentemente distaccati dal mondo intero, soli in un tempo solo loro.
Il pulcino prese ad agitarsi nel palmo della sua mano e, come se questo piccolo movimento avesse infranto l’incantesimo, lei si sciolse dal suo abbraccio allontanandosi leggermente, sempre avvinta però dalla bellezza di lui e dallo strano potere che emanava dal suo essere.
Dopo che ebbe posato a terra il piccolo anatroccolo lei lo prese per mano e lo invitò a seguirla. La pioggia continuava a cadere, qualche lampo lontano solcava il cielo sopra alle loro teste.
Lei sorrideva, correndo fra le pozzanghere, lui la seguiva, amando il tepore di quella piccola mano stretta nella sua, amando il suo sorriso e le sue emozioni pure.
Arrivarono ad una piccola costruzione di legno, sembrava un grosso capanno per gli attrezzi, lei armeggiò con il lucchetto e poi lo trascinò dentro, all’asciutto – Sono la figlia del custode del parco –
- La figlia del custode – ripeté lui in un soffio, sorridendo.
Il capanno odorava di legno e di polvere. C’era un tavolo nella stanza e diversi attrezzi ammucchiati lungo le pareti.
Lui si perse un istante, attirato da tutti quegli oggetti, passando le mani ancora umide sul quel vecchio metallo che sapeva di ruggine e di corruzione, sfiorando rastrelli e badili.
Un piccolo starnuto lo fece tornare subito da lei. Aveva i vestiti bagnati incollati addosso, i capelli gocciolanti. Stava tremando.
Sembrava ancora più giovane, così indifesa, con gli occhi scuri che sembravano ancora più grandi.
Le si avvicinò e la strinse a sé, era bello sentire il suo fiducioso abbandono, bellissimo provare la sensazione di proteggerla, anche se solo dal freddo.
Le passò le mani sui capelli, accarezzandola lentamente, assaporando il battito del suo cuore lento e regolare contro al petto. Lei tremava ancora, la sentì infilare le mani sotto alla sua giacca, alla ricerca del suo calore.
Lui la scostò leggermente e cominciarono a spogliarsi a vicenda. Lui la fissava, incuriosito dall’espressione con cui guardava il suo corpo perfetto, dalla delicatezza con cui accarezzava il suo petto glabro sotto alla camicia.
Lei era minuta e bella. La pelle abbronzata così in contrasto con la sua, quasi diafana.
Le mani di lei erano arrivate a slacciare i suoi pantaloni. Lui era troppo preso dalla sua osservazione e dalle sensazioni tattili che gli riempivano il cuore per accorgersene e quando i larghi calzoni scesero fino alle sue caviglie lui vide il respiro di lei mozzarsi e i suoi occhi dilatarsi.
Si guardò e subito capì.
- Tu… -
Capì che era finita nello stesso istante in cui lei arretrò. Un movimento piccolo, solo pochi centimetri lontana da lui. Ma quella era la distanza che separa la terra dal cielo.
- Non devi aver paura di me -
Lei scosse la testa in segno di diniego; no, non aveva paura, era solo… stupefatta.
Lui si tolse la giacca e la camicia e dietro alle sue spalle si allargarono due grandi ali bianche, le piume candide come gigli che arrivavano ad accarezzargli le cosce muscolose e lisce.
- Ma come…? – lei continuava a fissarlo, quel corpo asessuato e perfetto, quelle ali bianchissime di luce, quel volto dolcissimo e umano.
- Perché sei qui? -
Gli occhi azzurri si velarono di tristezza, le parve quasi di intravedere una piccola lacrima in quelle schegge di cielo.
- Perché volevo… sentire… -
- Sentire? -
L’angelo si sedette a terra, sui vestiti sparsi, le ali richiuse attorno alle spalle in una sorta di abbraccio, le belle mani in grembo, lo sguardo quasi supplichevole rivolto alla ragazza.
Lei si strinse addosso i vestiti ancora bagnati e si sedette di fronte a lui.
Quel viso così bello era così triste e tutto in lui trasmetteva una tristezza così grande che si sentì stringere il cuore e allungò le mani fino a posarle sulle sue.
- Sei… fuggito…? -
Lui annuì, continuando a fissarla.
- Fuggito dal… paradiso…? -
Di nuovo un cenno affermativo.
Alla fine l’angelo sospirò – Fummo noi ad aiutarLo quando creò questo vostro mondo. Fu meraviglioso modellare tutte le diversità e i colori, i materiali, gli odori –
- Poi veniste voi, ma alla vostra creazione non potemmo partecipare. Potevamo solo rimanere lontani ed osservarvi. Nient’altro ci fu concesso -
- L’amore che riversò su di voi ci spinse ad amarvi a nostra volta. E a seguirvi, a guardarvi. Ma sempre da lontano. Nessuna interferenza fra il vostro mondo e il nostro-
- Il nostro è un mondo di spirito, anima e intelletto. A voi soli è stato concesso il dono della corporeità, delle sensazioni tattili, del calore trasmesso fra un corpo e l’altro, il dono dei sensi… e io… volevo solo, per una volta… provare tutto questo -
Lei gli strinse le mani, in un moto di affetto verso quella creatura così dolce che per un’innocente curiosità si era forse guadagnato un posto da reietto in un mondo non suo.
- Cosa succederà ora? -
- Non lo so. Non so se potrò tornare. Però ne è valsa la pena. Non essere triste per me-
In silenzio rimasero a sedere così, uno di fronte all’altra, mentre la pioggia continuava a tamburellare sulle assi del capanno, semplicemente guardandosi, riempiendosi l’anima uno dell’immagine e del calore dell’altra.
Poi la pioggia cessò. Udirono dei passi fermarsi fuori dal capanno.
L’angelo si alzò in piedi e lei lo seguì, un po’ timorosa, entrambi fissavano la porta chiusa.
Due piccoli tocchi sul legno bagnato. Un lieve cigolio dei vecchi cardini.
Quando la porta si aprì, la ragazza si trovò davanti ad una copia quasi esatta dell’angelo che le stava accanto ancora stringendole la mano. Come in una sorta di strano gioco di specchi che non riflettesse la sua immagine.
- Gabriel – l’angelo accanto a lei salutò il nuovo venuto.
- Nathaniel – rispose questi, radioso di una luce che sembrava emanare dai suoi occhi, dai suoi capelli dorati, dalla sua stessa pelle.
La ragazza faceva scorrere lo sguardo dall’uno all’altro, mentre i due continuavano a fissarsi in silenzio. Sapeva che stavano comunicando fra loro in un modo a lei precluso, ma era comunque ipnotizzata dalla loro sola presenza e non riusciva a staccarsi da quella scena irreale.
Alla fine Nathaniel si voltò di nuovo verso di lei, prendendole entrambe le mani fra le sue – Devo tornare ora –
- Ti hanno perdonato? -
Lui annuì sorridendo e quel sorriso le scaldò talmente tanto il cuore che d’istinto gli gettò le braccia al collo stringendolo a sé.
- Addio piccola figlia del custode, grazie di tutto -
Nathaniel si avvicinò a Gabriel ed entrambi sparirono in un alone di luce, lasciandola sola, nel capanno, con il temporale che si allontanava nel cielo.

AUTORE - SARA

DIECI GIORNI AL BARBACANE

Il giorno in cui mi mandarono al barbacane non ero mai uscito dalla Città del Crepuscolo. Fu un ufficiale di complemento a condurmi alla costruzione che si trovava pochi passi fuori dalle mura. Mi disse: -Domani le porte della città verranno aperte. Comincerà ad arrivare gente, il suo compito è contarli.-
-Perché?- chiesi.
-Per sapere quando saranno arrivati tutti.- rispose.
Guardai verso la pianura che si stendeva deserta e a perdita d’occhio, mi sembrava impossibile che da lì potesse mai giungere qualcuno.
Il secondo giorno cominciarono ad arrivare. Erano mendicanti e straccioni di molte razze diverse. Camminarono attraverso le fauci spalancate della città col loro passo lento e cadenzato, senza mai fermarsi o voltarsi. Alla sera l’ufficiale apparve ad una feritoia e mi chiese quanti ne fossero giunti.
Io aprii il grande libro in cui avevo annotato ogni arrivo. Ne erano giunti 87.
–Domani riprenda il conteggio da dove l’ha lasciato.- mi ingiunse.
Il terzo giorno erano molti di più. Qualcuno ben vestito, altri selvaggi. Ognuno sembrava viaggiare solo, nessuno curarsi degli altri. Ne contai 1110. Attesi il millecentoundicesimo fino a notte inoltrata, ma non venne. Arrivavano solo di giorno.
La notte vegliai nel barbacane chiedendomi quale fosse il significato di tutto ciò, senza essere in grado di darmi una risposta. Osservai a lungo le mura della città alla luce della luna. Erano così alte che sembravano sparire nelle nuvole.
Il quarto giorno giunsero come una marea. Uomini di ogni rango, razza ed epoca. Ittiti ed astronauti. A fine giornata si era creata una specie di strada a causa dello strascichio dei loro piedi. Mi chiedevo da dove venissero, non sembrava esserci un luogo abbastanza vicino da essere ragguingibile a piedi. Vedevo apparire i primi all’alba lontano. Gli ultimi varcavano la soglia della città quando il sole scompariva all’orizzonte tra la bruma.
Il quinto e il sesto giorno la marea continuò ininterrotta. Dalla mattina alla sera, ad ogni istante intravano in città a tre dozzine alla volta. Ogni minimo granello della mia concentrazione era assorbito dal conteggio. All’inizio, non sapendo cosa mi aspettasse, segnavo sul libro mastro ogni singolo arrivo, ora li appuntavo a centinaia per volta. Ogni sera, dopo l’ultimo raggio di sole, l’ufficiale mi chiedeva rapporto. Io snoccilavo le mie cifre da perfetto contabile.
Il settimo giorno mi fu chiaro che la marea aveva smesso di montare ed era cominciata la risacca. L’ottavo giorno non ne giunsero nemmeno duemila.
Eravamo a 10 miliardi 452 milioni 798 mila 114.
-Ci siamo quasi.- disse l’ufficiale controllando su un registro.
Il nono giorno giunsero 129 anime. Quasi tutte al mattino, nessuna nelle utilme tre ore prima del tramonto.
-10 miliardi 452 milioni 798 mila 243.- lessi la sera all’ufficiale.
-Ne manca uno.- disse lui.
Il decimo giorno che passai al barbacane il sole non sorse. Già per questo mi parve ovvio che non sarebbe venuto nessuno. Molte ore dopo, un tempo che in quella notte perenne mi parve infinitamente lungo, mi fu chiesto di dar conto per l’ultima volta.
Io ripetei il medesimo numero del giorno precedente.
-Ne manca ancora uno.- commentò l’ufficiale con arguzia –Ci deve essere stato un errore nel suo calcolo.-
-Ne dubito.- risposi con voce gutturale.
-E’ per forza così. Devo dare ordine di chiudere il portone.-
Così fece. Dentro la Città del Crepuscolo si accesero le fiamme infernali. Ora mi era tutto chiaro. Il mondo era finito e l’eterno supplizio del’umanità cominciato. A nulla valeva, per gli inflessibili burocrati dell’inferno, che al conteggio delle anime una ne mancasse all’appello. Un errore. Doveva esserci stato un errore nel conteggio. Come se un’anima potesse evaporare perdendosi nel nulla o ancora più assurdamente passare sotto i miei occhi inosservata.
No, non c’era alcun errore. Banalmente, e all’apice della loro stupidità, avevano lasciato fuori me.
Uscii dal barbacane e mi soffermai a guardare il cielo privo di astri.
Poi dispiegai le mie ali membranose e balzai nel cielo ad ammirare il silenzio supremo del mondo ormai vuoto.

AUTORE - MAX

02 ottobre 2005

LA LUNGA NOTTE

PRESENTATO A UN CONCORSO LETTERARIO

AUTORE - GABRIELE