29 gennaio 2007

DICIOTT'ANNI

Il giovane e candido – come poteva non esserlo a quell’età inclemente? – Carmine de’ Canegiari, vista ch’ebbe la giovane donna – un tantinello in odore di “cortigianeria”, a dirla tutta (ma non è forse talvolta un’inesorabile sollecitazione, per certe indoli palpitanti, in quel momento fiammeggiante e ondoso?) – se ne innamorò d’uno di quegli amori di cui si dice: “perdutamente”, e giurò a se stesso di non poter continuare a vivere senza sentire un’oppressione mortale nel petto ansioso se non ne avesse ottenuto i favori più intimissimi.
La sospirata dama-prigioniera-nel-castello-incantato in questione era la florida e legittima consorte di un discusso lontano parente, che le più elementari convenienze – prospera ancor’oggi la famosa matrona, chissà se tonificata dalle antiche brezze – ci vietano di nominare a tutte lettere.
Diguazzò non poco, la procace parentessa lontana, nel proverbiale brodo di – ( … ) – giuggiole, nel vedere il povero Carminello a tal punto arroventato, e poiché nella remota provincia insulare le distrazioni per una onesta – diciamo così – donna maritata non sono mai una di troppo, ella si ripromise di trarne un certo svago, almeno per qualche poco, secondo che prudenza consentisse.
– Mio giovane e focoso amico, – diceva la maliarda – tu mi ami, benissimo, e voglio crederti, ma io che ci posso fare?
– Come..! Lo sai bene cosa puoi farci…
– Beh, bah, in effetti credo di poter indovinare cosa ti aspetti da me, diavoletto, ma… se mio marito ci sorprendesse?
– Noi faremo in modo che non sappia nulla. Non ci sorprenderà. Chi è mai lui per mettere becco – disse proprio così, storpiando la pronuncia con una smorfia di disgusto – nel nostro meraviglioso amore, dal quale dobbiamo aspettarci le gioie più grandi, quelle che lui non potrà mai darti? Non saprà mai nulla, a meno che non lo informi tu.
– Sisì, faremo in modo, faremo in modo… come no: è sempre la solita storia. Si fa in modo, si fa in modo, e poi si viene pizzicati lo stesso. Ma lo sai, se ci scoprisse, cosa sarebbe capace di fare?
– Una scenata..?
– Macché! Quello, testa calda com’è, ci sfracella la testa con l’accetta..! Una volta, a uno che, secondo lui, faceva un po’ troppo lo spiritoso, lo ferì gravemente ad un braccio, ma questo perché arrivò a scappare, se no lo affettava come un salame… È capace, sai..? Certe volte penso che quando si sveglia con la luna di traverso, sarebbe capace di schiacciarmi la testa dentro una porta, solo per vedere che cosa n’esce. Hai capito, Minù? – era questo il modo di accendergli il fornello dei bollori conformi alla circostanza…
Comunque si arrivò a un’ intesa.
Ogni sera, dopo cena, il marito alla sua poltrona si appisolava e pian piano finiva per cedere al tenace sequestro di Morfeo. Si distendevano così per la signora nuove possibilità di relativa, sufficiente libertà d’azione.
– Ma, ma, eh caro il mio pulcino, c’è un piccolo problemino: – disse la seduttrice almanaccando allegre complicazioni con cui cavarsi un po’ di supplementare capriccio – è necessario che tu mi avvisi della tua presenza, quando verrai a trovarmi… è troppo geloso mio marito. Madonna Benedetta del Carmine! Al minimo sospetto, quello è capacissimo di impiantare un quarantotto! Bisognerebbe inventarsi qualche cosetta… Vediamo…che ne so… Tu la sapresti fare l’imitazione del cavallo che nitrisce? Che animali stupendi… – faceva lei inuzzolita da segrete e inconfessabili febbri perverse – così pieni di sensibilità, di intelligenza, di slancio, di energia!
– Per la verità non sono troppo allenato, senti un po’ se può andare: iihiihhiii…ihnhiihiii..! – fece Carmine, imitando la bestia prescritta senza troppo successo, effettivamente.
– Ma nooo, non così…ti sembra un cavallo questo? A me pare piuttosto il lamento pietoso di uno affetto da una tristissima stipsi in piena crisi dolorosa!
E via!
Lo spasso era appena cominciato.
– Oh, devi ben allenarti piccino mio. Che è nitrire questo? No, no, senti, facciamo così: impratichisciti ben benino. Poi, quando tu finalmente mi arriverai ad essere un vero cavallo, – ( … ) – vieni sotto la finestra, verso le novemmezza-dieci, mi fai sentire un nitrito degno di questo nome, ma bello eh? potente, convincente, e poi chissà…
Figurarsi – prego – quale non fu l’esaltazione dello smanioso Carmine, che aveva intravisto da uno spiraglio un angelico stuolo di cantori i quali, modulando all’unisono eufonici gospels, gli schiudevano le soglie del paradiso.
L’apprendistato imitatorio ebbe così inizio.
Se n’andava in aperta campagna in cerca di cavalli professionisti, di giumente esemplari, di puledri eccellenti da tampinare, spaventandoli e tormentandoli con la delirante brama di penetrare la nobil’arte del nitrito.
Tutto il tempo gli fluiva innanzi cadenzato da accorati, supplichevoli, impetuosi, travolgenti nitriti.
***
Talvolta – malauguratamente – si lasciò sorprendere da qualche ascoltatore improvvisato:
– Coraggio! – gli facevano i pietosi.
– Brutto il morbo, eh? – gli facevano i cinici canzonatori.
– Checcè, Zorro, hai perduto la scecca ? – gli facevano gli sbeffeggiatori mordaci.
– Talé talé, arrivò Blèkk Stàllion, ’u cavaddu ’ri Gringu ’u sceriffu! – gli facevano i soliti bei tipi ameni.
E pazienza.
Che potevano capire, del resto, dell’aureo precetto dell’Arte come imitazione della natura?
***
Venne dunque il giorno in cui Carmine sentì nelle sue vene scorrere – ormai padrone men che assoluto del metodo Stanislawsky – genuino sangue di destriero – o si dirà piuttosto – autentica linfa di stallone…
***
Una sera, col cuore che gli rintoccava il Corpus Domini, si appostò sotto le finestre dell’intransigente accalappiatrice di giovani corsieri insanguati, e spandé il suo appello ardente:
– Iinhihiiiüh, înnhiihiüh!
– Iiiühînn!
– Ihih!
– Î..!
Avrebbe intenerito i cuori più accidiosi, turbato gli animi più coriacei, spruzzando il bollente suo richiamo.
Avrebbe.
Invece nella casa nulla si mosse; la giumenta, accorreva mica, al segnale.
– … Î!
– …
Fuori questione che si mostrasse, l’eccentrica.
***
Carmine la incontrò due giorni dopo – riconoscendo da lontano l’oggetto delle sue bramosie, sebbene tutte le Veneri si somiglino, viste da dietro – spalmata di non si sa che lubrificante, mollemente sdraiata sulla finissima rena della spiaggia.
Per l’occasione, sul vecchio Mediterraneo spasimava una certa brezzolina, difficile a distinguersi, a meno di compenetrarsi con essa per mezzo di quella facoltà che si manifesta quando una pausa dalla schizofrenia del “quotidiano” rende partecipi dell’armonia con le cose della natura. Ma ritorniamo al dramma principale.
***
– “ ?” – fece Carmine con espressivo gesto di mano.
– Ma certo, gioia mia, ti ho sentito benissimo l’altra sera! – dichiarò la malandrina a scottapelo – E tu, tu quello me lo chiami imitare il verso del cavallo? Figurati che mio marito s’è svegliato di colpo e ha cominciato a guardarsi in giro tutto sospettoso e pazzo! No caro, devi proprio esercitarti un poco meglio… Così è troooppo scarso. Io mi aspetto qualcosa di meglio da te…eh..! Scusa…
Fu così che Carmine, con il veleno in circolo e la rabbia che gli mangiava gli occhietti, prese dunque la strada dei pascoli e passò ancora giorni a simulare con gran schiamazzo i clamori del purosangue.
***
Nitriva per macchie, radure e boscaglie, ora sconsolato, ora – è il caso di dire – spronato verso sospirati traguardi di fiabesca voluttà.
Trafalcando e trottignando, in una di queste notti selvatiche, ebbe a considerare, con l’animo oscillante tra l’umano e l’equino il suo singolare caso. Una nube di tristezza gli avvolse l’anima. Nel silenzio profumato un usignolo cantava, e sembrava accordare la sua voce con quella di fontane fresche e lontane. L’aria soave e gentile, un’aria da portar sospiri, passava mormorando, e di lontano, tra immobili carrubi, uno stagno luccicava.
Lentamente scese fino al pantano, le rane che stavano sull’orlo, importunate dal curioso centauro, saltarono nell’acqua adducendo un leggero brivido nel cristallo addormentato. C’era lì una panchina di pietra e sedette. La notte e la luna erano propizie al sogno, e poté immergersi in una contemplazione simile all’estasi. Confusi ricordi d’altri tempi e d’altri amori si levarono nella sua memoria. Tutto il passato risorgeva come una gran tristezza e un gran rimorso. La sua giovinezza gli appariva un mare di solitudine e di tormento, sempre avvolto nella notte.
***
Era un poco folle la sua anima e non funzionava troppo bene… così credeva di avere maligni demoni dentro il cervello che stavano lì unicamente per dargli tormento e dolore.
Qualcosa c’era davvero che gli mugghiava furente in corpo, ed era una bestia ribelle a tutti i buoni consigli che gli amici gli fornirebbero, mossi da compatimento oppure sentenziosità, magari a fin di bene. Un cattivo presentimento sospingeva Carmine verso nuovi tormenti nel momento in cui placava il suo cuore con un soffio di lieve speranza.
Di certo una condizione, ancor più delle altre, affliggeva la sua persona: egli era intellettivamente sviluppato, ma rimasto fiacco nella crescita emotiva. Il cervello era quello di un uomo, ma l’animo quello di un ragazzo al quale una guida e una protezione erano certamente necessarie.
Pensava semplicemente – anche se semplicemente gli era interdetto dal suo tribolato carattere – che la vita continuasse senza posa a godersela con lui adoperando la malvagità avversatrice più raffinata e perseverante. Gli sembrava che ogni vano esperimento di risollevare la sua sorte infelice si risolvesse prima o poi unicamente nel forzato ritorno colà da dove si era mosso, e che tuttavia una specie di maledizione operasse in modo da sospingerlo verso rinnovata angoscia.
Nuovi roveti insidiosi, sentiva, gli graffiavano la carne.
Ancora, nell’atto di pronunziare dentro di sè alcuni discorsi, ritrovava idee che non sapeva di possedere, e che non immaginava che e come fossero germogliate. Non riusciva a comprendere insomma come gli fossero pervenute quelle idee così compiute, adulte ormai, indipendenti quasi e con una ragion d’essere autonoma, autosufficiente.
«Si potrebbe ad un certo punto scoprire» – si sorprese a pensare – «che quello che si desidera non è invero il meglio per sé, anzi ciò che si è sospirato in realtà è ciò che non si vuole, ma la soluzione più malferma, aleatoria, e le conseguenze sono le più difficili da controllare. Chi ad esempio si logora fantasticando d’acquisire ricchezza, potrebbe scoprire che una tale ‘fortuna’, piovuta repentinamente dal cielo, si rivelerebbe, una volta discesa nella vita vera, una fonte imprevedibile di malanni e di iatture.»
«La mia vita» – considerava – «assomiglia al viaggio di un aquilone fissato saldamente da un filo, al quale è data la possibilità di librarsi in aria. Allo stesso tempo quel filo realizza la sua schiavitù e la sua prigione terrestre, nonostante costituisca per l’aquilone la sua protezione, la sua salvezza, dal momento che il tenace vincolo gli impedisce di andare a precipitare tra rami d’albero o peggio, e consumare così l’esistenza d’aquilone da vero aquilone. Forse l’obbligata salvezza, rendendo intatto l’aquilone non lo risarcisce di felicità poiché reprime la sua natura libera e priva di coscienza.
Forse, se l’aquilone potesse dare la preferenza, chiederebbe troncato quel filo che gli impedisce di andare a scomparire come un aquilone. Forse, la grazia del suo volo è ritenuta tale soltanto da chi quel volo osserva, non dall’aquilone stesso… perché l’aquilone… è imprigionato.»
***
Leggere nubi bianche erravano intorno alla luna, e la seguivano nel suo corso fantastico e vagabondo. Spinte da un soffio invisibile la coprirono e la campagna fu immersa nell’ombra. Lo stagno non brillava più tra gli inerti carrubi, di cui solo la cima rimase illuminata. S’alzò allora una brezza che trascorse destando un lungo sussurro in tutto il recinto e portò sino a Carmine l’aroma di rose sfogliate. Sentieri d’alberi secolari, fondi e silenziosi, sembravano cammini ideali che invitassero all’oblio, tra freschi vapori che spargevano nell’aria l’erbe umili che prosperavano nascoste come taciute virtù.
***
Proseguirono giorni scombinati e notti sregolate, rincorrendo miraggi antropomorfi e animalesche fantasticherie.
Ma tant’è.
***
– Stavolta, – certificò il bravo e logorato giovane – credo di esserci. Qui si fa l’Italia o si muore!
La stessa sera s’installava al suo posto di “piccola vedetta lombarda” e innalzava alle stelle perplesse il guaito dello stallone immalinconito.
– Iinhihiiiüh, înnhiihiüh! Nnhiihiiiiü!
– Iiniiiüh, înnhiihiüh! Hiiiü!
La casa del babau restava chiusa, insensibile alle chiamate impazienti.
Due giorni più tardi, ebbro d’audacia e con l’intestino in malora, un Carmine sull’orlo della dementia precox si abbatté a casa della signora * , sapendo il marito richiesto altrove.
– Cheddìci? Ma davvero? Ma tu guarda… – faceva quella canaglia in giarrettiere, facendo capolino da una nube vaporosa di lavanda d’immodesta fragranza – quindi eri tu, pazzerello, che nitrivi l’altra sera per strada? O Madonnina Benedetta del Carmine..! T’assicuro che quel grido era così perfettamente imitato che ho creduto si trattasse di un vero cavallo… Ma cose cose!
E aggiunse:
– Ma scusa, non per criticare, ma tu, non possiedi il senso delle sfumature?
Fu allora che Carmine de’ Canegiari capì che la donna lo prendeva – ma di molto! – a bicecio.
Offeso, torturato dalla più oppressiva libidine, si avventò su di lei, offrendo, questa famosa volta, un’eccellente imitazione dell’urlo della scimmia soffiatrice del Borneo.
Che non è neanche buona educazione.

AUTORE - PATONSIO

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