19 agosto 2005

GILGAMESH

Ogni parte del suo essere era colma di terrore.
Il cuore palpitava impazzito. I suoi occhi indagatori si muovevano in modo frenetico cercando, nel buio opprimente che lo avvolgeva, qualcosa di famigliare su cui poter far convergere la propria insicurezza ed esorcizzare quella tremenda visione.
Luce; aveva bisogno di luce.
La desiderava e questo bastò a far si che nel centro della stanza si concentrasse un piccolo globo luminoso che, sprigionando una pura ma intensa luce, eliminò ogni traccia di oscurità.
Gilgamesh non comprendeva. Tutto appariva alla sua mente molto confuso.
L’incubo della sua infanzia era tornato a tormentare le sue notti.
Perché proprio ora?
Che fosse connesso agli strani avvenimenti su cui era stato chiamato a indagare?
Far supposizioni era inutile. La soluzione si sarebbe presentata solo riesaminando, in modo analitico, le informazioni ricavate fino a quel momento.

Al suo arrivo in compagnia di Eladrin, una giovane menestrello, tutto sembrava svolgersi nella più assoluta normalità. Alcuni abitanti del feudo, caricati dei loro attrezzi da lavoro e di qualche provvista, si recavano nei campi per rimanervi fino a poco prima del tramonto. Le botteghe, che si ergevano intorno alla Chiesa, erano nel pieno delle loro attività produttive. Le donne, intente a parlottare fra di loro, procedevano serene verso la zona dei laboratori, nella quale agli uomini era vietato l’accesso.
Nei volti della gente però si intravedeva qualcosa di anomalo; una paura che incombeva sulle loro piccole menti e alla quale non riuscivano a dare una spiegazione plausibile. Anomalia questa rafforzata dal fatto che, per il feudo, si aggiravano parecchi monaci, tutti indaffarati nella cerca di chissà quale nemico.
Giunti dal borgomastro, un uomo ormai non più nel fiore degli anni ma dallo spirito ancora molto forte, i due vennero accolti con tutti gli onori dovuti a degli ospiti del loro retaggio. L’uomo assegnò loro due piccole stanze all’interno della sua abitazione e li invitò alla sua mensa per il pasto serale. Fu proprio in quell’occasione che Gilgamesh e la sua compagna vennero a conoscenza del motivo per cui erano stati mandati a indagare in quel villaggio sperduto fra i monti.
Ma procediamo per gradi.
Visto che i due avevano a disposizione tutto il pomeriggio decisero di mettersi subito al lavoro raccogliendo alcune indiscrezione dagli abitanti. Gilgamesh parlò con gli artigiani mentre Eladrin interrogò le donne nella zona dei laboratori. Quando, prima della cena, si scambiarono le informazioni ottenute si accorsero che molte di esse erano simili. Nel complesso si potevano riassumere tutti gli eventi, avvenuti fino a quel momento, attraverso un paio di fatti piuttosto macabri; il concepimento di esseri umanoidi deformi e una serie di morti inspiegabili e particolarmente violente.
Ma fu la cena, come avevo già anticipato, ad essere veramente rivelatoria.
Tutti i commensali erano seduti ad una grande tavola rettangolare di quercia.
Ai due capi della tavola sedevano Gilgamesh e il padrone di casa mentre ai lati invece, dove erano state predisposte due sedie per parte, stavano le tre giovani figlie del nostro ospite e la delicata Eladrin che, come d’abitudine, non si presentava mai ad un banchetto senza essere accompagnata dalla sua fedele e adorata lira.
La tavola, riccamente imbandita, era stata preparata con scrupolosa attenzione. Grandi vassoi di peltro mettevano in bella mostra svariati tipi di cacciagione cucinata nei modi più disparati. L’odore delle spezie e del pane caldo riempiva l’aria.
I bicchieri erano già stati riempiti con un forte vino dal dolce profumo e dall’intenso color carminio. Semplici candelabri di ferro battuto illuminavano la modesta sala.
Le danzanti fiamme delle candele davano a quel luogo un aspetto misterioso che si andò ad accentura durante la serata.
La cena procedette in piena serenità, tra un bicchiere di vino e un cosciotto di cinghiale alle erbe, fino a quando Gilgamesh non decise che era venuto il momento di chiarire ciò che aveva scoperto quel pomeriggio. Non appena il mago entrò in argomento, le facce degli ospiti, che fino a poco prima erano felici e sorridenti, si oscurarono improvvisamente. Subito non capì il perché di un tale e repentino cambiamento; poi tutto si chiarì nel momento in cui una delle tre figlie del borgomastro, con un pianto represso, si alzò da tavola e correndo si rifugiò nella sua stanze da letto.
A detta del padre, poche sere prima, la giovane era stata violentata da un essere che la ragazza aveva descritto come un eterea creatura di natura tutt’altro che umana.
Mentre raccontava queste cose l’uomo si segnava continuamente come se temesse che le sue parole potessero richiamare qualcosa di antico.
La ragazza fece ritorno a casa con le vesti lacere, e subito il padre pensò che fosse stata vittima di qualche contadino che, in preda ai vapori del vino, avesse perso la ragione. Invece la serva, che per prima si prese cura della ragazza, gli riferì che i seni e i fianchi della fanciulla portavano evidenti segni di graffi, molto simili a quelli lasciati dagli orsi sulla corteccia degli alberi per segnare il loro territorio. Perdipiù, sempre secondo la serva, nella parte interna delle gambe, in prossimità del pube, vi erano delle lesioni che potevano essere state fatte solo col fuoco.

Il ricordo di quelle parole strappò Gilgamesh alle sue riflessioni.
Il mago sentì l’ansia imposessarsi del suo animo.
Solo ora riusciva a intuire un qualche collegamento fra il suo sogno e gli eventi che avevano come protagonista la figlia del feudatario. L’essere di cui nessuno aveva mai visto l’aspetto era lo stesso che lo perseguitava fin da ragazzo.
Lo stesso che, secondo il suo mentore, lo aveva aggredito quella notte di vent’anni prima. Il ricordo era ancora vivido nella sua mente. Era riuscito a sottrarsi a quell’essere per pura fortuna rifugiandosi in un anfratto situato alle spalle di una piccola cascata.
In quell’occasione aveva riportato una lieve ferita alla spalla che, a causa della sua natura magica, era refrattaria a qualsiasi tipo di incantesimo curativo.
“La ferita! Ecco la prova!”
Con un rapido gesto della mano sinistra, in uno stato di agitazione crescente, Gilgamesh si sollevò la manica dalla maglia mettendo a nudo la spalla. Ciò che vide lo fece riflettere e nel contempo confermò le sue ipotesi. Dalla cicatrice, rimarginata perfettamente ormai da tempo, fuoriusciva un leggero rivolo di sangue che prese a strisciare, come un piccolo serpentello, lungo il braccio scoperto.
La sua mente si concentrò sulla ferita e questa smise immediatamente di sanguinare.
“Tu sei il più adatto a questo compito” gli avevano detto gli anziani della confraternita quando gli affidaro l’incarico.
Evidentemente erano già a conoscenza di ciò che stava avvenendo in quel luogo e di come lui vi fosse legato.
Gilgamesh però non si spiegava il perché lo avessero tenuto all’oscuro di tutto.
Che avessero voluto metterlo alla prova facendogli affrontare le sue paure?
Si arrovellò un po’ su questa cosa cercando di darsi una motivazione plausibile, ma poi accantonò il pensiero decidendo che al suo ritorno avrebbe chiesto chiarimenti.
Ora l’importante era riposare. Lo attendeva un’intensa giornata di ricerche e doveva essere nel pieno delle proprie facoltà mentali se voleva sbrogliare, al più presto, la matassa che legava assieme tutti quei delitti.

*******

Il sole, caldo, risvegliava la terra ancora addormentata sotto una coltre di rugiada.
La leggera brezza mattutina che filtrava dalle imposte semi aperte, svegliò dolcemente Gilgamesh che, in poco tempo, si preparò ed uscì dalla stanza. Aprì la porta della camera e dietro vi trovò Eladrin, in procinto di bussare. La ragazza col il viso arrossato e le lacrime agli occhi gli fece segno di seguirlo invitandolo ad affrettarsi.
All’esterno molti degli abitanti del feudo si erano ammassati intorno alla casa del maniscalco, dalla quale provenivano grida di disperazione. L’abitazione, piuttosto grande rispetto alle altre, era formata da una parte di pietra dove viveva l’artigiano con la moglie e da un’altra, in legno, adibita a stalla e fucina.
All’interno di quest’ultima Gilgamesh intravide il borgomastro che, con una mano alla bocca, gesticolava nella sua direzione.
Facendosi largo tra la folla, senza dare il tempo ai suoi occhi di cogliere tutti i particolari della scena, il Mago si portò all’ingresso della stalla.
Non appena oltrepassò la soglia il suo olfatto fu colpito violentemente da un intenso odore di escrementi misto a sangue e poco ci mancò che il suo stomaco lo abbandonasse.
Appeso ad un trave della stalla, come un semplice quarto di bue, vi era la parte inferiore di un uomo. Il busto era stato posto sotto di essa. Come in una grottesca messa in scena teatrale la testa era orientata in modo tale da poter osservare il proprio bacino dilaniato e le interiora pendere ormai prive di vita.
Ripresosi dallo turbamento iniziale, Gilgamesh incominciò a osservare la scena.
Il suo occhio vigile notò subito che, mimetizzate con la paglia e la polvere presenti nella stanza, vi erano tracce di sangue che portavano in fondo alla stanza verso una porta di legno.
Con circospezione si avvicinò e l’aprì lentamente.
I segni all’interno della casa erano più nitidi e non sembravano casuali ma, ben delineate, quasi come se qualcuno avesse voluto indicare una strada da seguire ai soccorritori.
Avanzando Gilgamesh si ritrovò al cospetto di un altro efferato delitto.
Questa volta si trattava di una donna; la moglie del maniscalco.
La trovò stesa sul suo letto, completamente nuda.
Il suo corpo, al contrario del marito, non presentava segni di lacerazioni.
Ad un primo sguardo sembrava esser morta nel sonno.
Eppure, quella scena di apparente normalità, era resa grottesca da un particolare alquanto inquietante.
Sul corpo della vittima vi era una lunga ustione che partiva da sotto il mento e si snodava lungo tutto il corpo fino alla zona pubica.
Sembrava che una grossa lumaca, strisciandole sul ventre, l’avesse ustionata.
Solo dopo aver esaminato la donna, Gilgamesh, si accorse che sulla parete alla sua sinistra vi era una scritta.
La lingua usata era il latino, e l’iscrizione diceva :_ Una volta mi fuggisti. Per te ora non vi è più scampo. Tu pensi di essere il cacciatore ma non ti sei ancora reso conto di essere la preda.
La scritta riuscì solo ad irritarlo. Si sentiva ferito nell’orgoglio e questo riempiva il suo animo di rabbia.
“Il primo! Devo sapere chi è stato il primo a morire!” questo uscì dalla bocca di Gilgamesh non appena abbandonata la casa del maniscalco, in preda all'ira, vide il capovillaggio nell’aia che coordinava un gruppo di contadini intenti a deporre ciò che rimaneva delle spoglie dell’artigiano in un carretto.
L’imposizione cosi secca e decisa spiazzò per un attimo l’amministratore.
Il mago, nei suoi abiti di cuoio nero, non gli era mai apparso così imponente e rigoroso come in quel momento.
Quegli occhi scuri, inflessibili, che lo fissavano carichi di cieco odio spaventarono il pover uomo che frappose subito alcuni metri tra se e il suo interlocutore.
“Ebbene! Sto aspettando!”
“Subito mio Lord, glielo mostrerò immediatamente” così dicendo il borgomastro, ancora intimorito, accompagnò Gilgamesh ad una piccola casa in legno isolata da tutte le altre.
“Questa era la casa del vecchio Ibacus. L’ultimo prete della vecchia fede che ancora si poteva trovare nella zona circostante”.
Senza neanche ascoltare l’ultima affermazione dell’uomo, Gilgamesh si fece largo nella polverosa abitazione.
All’interno l’odore di muffa era piuttosto forte. Sul pavimento si potevano ancora notare le macchie di sangue lasciate dall’omicidio che vi si era perpetrato.
Portatosi nel centro della stanza il mago si concentrò iniziando a salmodiare una strana litania. Le energie magiche risposero prontamente andando a ripescare nel flusso temporale le immagini delle vicende accadute in quel luogo, per poi sovrapporle alla realtà del momento. In questo modo Gilgamesh poté osservare il vecchio prima che la creatura lo uccidesse e scoprire che in quella casa non tutto era come sembrava. Uscito dalla stato di concentrazione necessario per plasmare l’incantesimo si avviò verso una vecchia madia. Con l’aiuto del suo accompagnatore, rimasto per tutto il tempo immobile sulla soglia della casa, spostò il mobile dalla sua posizione originale. La credenza, con grande stupore del borgomastro, nascondeva un’apertura nel pavimento che, mediante una scala di legno, portava in un antro usato dal vecchio per compiere i rituali più complessi dell’antica religione. Gilgamesh scese la scaletta, dopo aver acceso alcune candele, esaminò quel luogo. Tutto era come doveva essere in un laboratorio magico. Vi erano libri, alambicchi, vasi di terracotta contenenti mandragora e belladonna.
Il suo interesse, però, fu subito calamitato dai due anelli disegnati sul ruvido pavimento di pietra. Il primo copriva quasi l’intera superficie della stanza e riportava nella sua corona i simboli, nei tipici linguaggi rituali, di Azazel, Aluquah, Utukku, Shedu e Se’irim. Nel secondo, più piccolo, interno e tangente il primo, erano riportate le parole Mamitu kashshapu Ibacus: sortilegio dello stregone Ibacus. Posizionate sul cerchio interno dell’anello più grande vi erano cinque candele rosse.
Osservando più attentamente, Gilgamesh si rese conto che, tracciando delle linee che univano fra loro le diverse candele si veniva a disegnare un pentacolo, al centro del quale si poteva notare una zona carbonizzata come se vi fosse stato acceso un falò in grado di sprigionare un calore così intenso da poter fondere l’acciaio.
La sua congrega e molte altre avevano proibito ai propri affiliati di erigere simili cerchi. Lo scopo di questi rituali era quello di evocare spiriti e demoni dalle dimensioni attigue alla nostra per poi vincolarli ai voleri del mistico. Come tutti sapevano, questi erano riti estremamente complessi e per compierli occorreva la presenza di un gran numero di maghi. Tutto doveva essere preparato alla perfezione. Il vecchio doveva aver commesso qualche errore nella procedura perdendo così il controllo sulla creatura. Mentre era intento a fare congetture, il suo sguardo vigile cadde all’interno del piccolo anello. Appoggiato su d’un leggio d’osso, vi era un libro rivestito da una robusta pelle marrone. I piatti erano rinforzati negli angoli, tramite inchiodatura, con quattro placche di metallo a forma di mezza luna.
A metà del lato lungo si poteva notare un delicato fermaglio mentre nella parte superiore, fissato ad un anello, partiva una grossa catena che assicurava il libro al leggio.
A quella vista Gilgamesh si sentì pervadere da una grande euforia.
Aveva riconosciuto subito la tipica rilegatura a catena adottata solo negli ultimi tempi dai monasteri e dalle congreghe. Quel tipo di rilegatura, progettata per evitare la sottrazione del volume dai “santuari”, stava ad indicare che l’opera era molto importante e di grande valore. Deciso a portare via con sé il manoscritto, supponendo che al suo interno potesse trovarsi il modo per arrestare quell’essere, il mago improvvisò un incanto che gli permise di staccare la catena dal leggio senza rovinare in alcun modo il lavoro dei maestri legatori.
I due uscirono dalla casa quando ormai il sole aveva oltrepassato lo zenit e si diressero alla magione del feudatario dove avrebbero riposato mente e membra.
Per tutto il pomeriggio Gilgamesh non fece altro che perlustrare il feudo, in cerca di qualche indizio o informazione che lo potesse condurre alla creatura.

Verso sera la sua mente era cosi piena di dubbi, pensieri, concetti frammentari che credette di impazzire. Pur tentando, non riuscì a smettere di pensare a quella macabra storia in cui si era trovato coinvolto.
Cenò, come la sera precedente, in compagnia dei suoi ospiti. Ma al contrario della sera passata nessuno parlava e quindi il pasto prosegui nel più totale silenzio e imbarazzo. Quando la cena finì, tutti gli abitanti del villaggio erano ormai nei loro lettti da parecchio tempo. Tutto era avvolto dal buio di una notte senza luna.
Immerso in un innaturale silenzio. Ricordando che la creatura era apparsa sempre nelle ore notturne, Gilgamesh decise di perlustrare la zona interna alle mura in compagnia di Eladrin, la cui paura era stata messa a tacere dalla voglia di conoscenza.
Quando i due, sconsolati dall’infruttuosità delle ricerche, tornarono alla casa il giorno era ormai vicino.
Lasciata Eladrin nel corridoio che portava nella zona in cui dormivano le figlie del padrone di casa, Gilgamesh, stanco per la pesante giornata, andò nella sua stanza. Non appena fu dentro accese alcune candele e, dopo essersi tolto il suo lungo manto nero dall’interno bianco e averlo sistemato su di una sedia al fianco del letto, si sdraiò.
Il silenzio permeava ogni angolo della stanza e neppure dall’esterno si percepiva alcun tipo di rumore.
D’improvviso però qualcosa mutò. Si poteva sentire una distorsione delle energie magiche insite nella realtà, come se qualcuno stesse distorcendo lo spazio creando una specie di passaggio dimensionale. Senza neanche dargli il tempo per focalizzare i propri pensieri, la creatura gli fu addosso.
Era enorme. Un’ombra, senza occhi ne naso con un’unica apertura, all’altezza della bocca dalla quale penzolava una lunga lingua bavosa.
“Ora il tuo guscio è mio giovane mago. Annienterò il tuo spirito e userò il tuo corpo per muovermi liberamente nel tuo mondo”.
Il demone impose le sue lunghe mani sulla testa di Gilgamesh che percepì immediatamente una enorme pressione mentale.
La pressione aumentava. Sentiva il suo spirito che piano piano scivolava via mentre quello della creatura prendeva il suo posto. La sua mente era in continua espansione nel vano tentativo di imporsi su quella dell’essere. I suoi pensieri vorticavano nella ricerca di un modo per liberarsi da quella presa mentale. Di colpo come se fosse stato illuminato da una suprema conoscenza capì ciò che doveva fare.
Eliminò ogni resistenza mentale e focalizzò tutto il suo io e tutte le sue energie in un unico, complesso, pensiero.
La creatura si trovò per un attimo spiazzata dalla mancanza di resistenza che fino ad allora l’aveva tenuta in scacco. Ormai era un tutt’uno col corpo del mago, riusciva già a percepire gli odori le sensazioni tattili e le emozioni. Quanto erano intense le emozioni di quel mago in quel momento. Odio, paura, angoscia. Tutto si mischiava in un caleidoscopio di percezioni completamente nuove per quell’essere. Era vivo. Mortale. Si sentiva euforico, anche se non ne comprendeva il significato.
Aveva vinto e nulla lo avrebbe più fermato dal raggiungere il suo scopo.
“Finalmente sei mio!” gridò.
Ma l’essere s’ingannava.
Appena prima che lo spirito della creatura entrasse nel corpo di Gilgamesh questi lasciò scorrere in un unico incanto le energie trattenute. L’essere si ritrovò avvolto da una potente magia che iniziò ad allontanarlo dall’incantatore. Solo allora comprese che ciò che aveva percepito non era altro che una semplice illusione, un inganno perpetrato alla sua mente dalla grande forza di volontà del mistico.
Ma ormai era troppo tardi. L’incantesimo stava disperdendo l’energia che manteneva unite fra loro le particelle di materia reale che formavano il suo corpo.
“Maledetto! Mi hai ingannato!”
“Ritornerò con un corpo di carne e allora vedremo chi di noi sarà il più forte!”
Uno scoppio di luce e poi il silenzio.
Nella stanza tutto era tornato alla normalità. L’unico segno visibile, a testimonianza di ciò che era avvenuto, era una bruciatura sul pavimento nel punto in cui il demone era sparito. Gilgamesh, ancora scosso dallo scontro, non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto resistere ad un essere così forte. Sapeva che lo avrebbe rincontrato un giorno, e che in quel giorno il libro ritrovato nel laboratorio di Ibacus sarebbe stato la sua unica salvezza.
Lui non era mai arretrato innanzi ad un nemico e anche questa volta avrebbe aspettato la sua comparsa, armato della più sottile conoscenza.

AUTORI - SIMONE

SANGUE DI CRISTO

Sono passate tre notti dall’ultima volta che ho dormito. Tutte le volte che mi sdraio il suo volto pervade la mia mente. Quegli occhi dorati; profondi e antichi. La bocca sottile che mai ha incontrato la maldicenza. La sua pelle bruciata dal sole. Colpa di quel dannato Caifa.
Lui e il suo maledetto territorialismo. Sotto l’impero questo non dovrebbe succedere.
Noi da buoni dominatori abbiamo concesso a tutti di poter praticare il proprio credo.
Ma sembra che questo non basti.
La luce del mattino si fa già strada nella stanza. Glauco entra trafelato. La polvere, alzata dai suoi calzari, unendosi a un raggio di sole crea nell’aria una piccola cascata.
“Pilato chiede di te Gaio. Penso che sia per il Nazzareno.”
Sospiro. Non riesco a trovare la forza per alzarmi. Perché devo andarci io. Non me la sento di riverede quell’uomo. Quel volto. Eppure devo. Come pretoriano ho degli obblighi verso il mio signore. Indosso la nera e lucida corazza di cuoio. E’ ancora come quando l’ho ricevuta. Tutti i giorni me ne prendo cura lucidandola e oliandola in modo da tenerne il cuoio morbido e pulito. Fisso il bianco mantello alle spalline. Il gladio pende dalla mia cintura. L’elmo stretto in mano.
So che non dovrei ma ho bisogno di sentire l’aria calda del deserto toccarmi i capelli.
Le strade sono già colme di vita. I mercanti stanno allestendo i loro banchi. I bambini giocano, mentre le madri lavano i panni. Alcuni mi corrono intorno. Allungo una mano per accarezzare i loro crespi capelli. Anche i malviventi sono già attivi. Due loschi figuri mi guardano di sottecchi . Stanno sicuramente tramando qualcosa. Ma ora non ho tempo di approfondire.
A pochi passi dalla casa di Pilato indosso il mio elmo dal folto cimiero dorato.
Faccio appena in tempo ad attraversare la soglia che un lungo bastone tenta di colpirmi allo sterno. Scarto di lato afferrando il legno. Facendo perno sulle gambe ruoto su me stesso trascinandomi dietro il mio aggressore che, preso alla sprovvista, rotola a terra. Una battito di mani.
“Sei sempre il migliore mio caro Longino” afferma Pilato mentre Glauco, completamente impolverato, mi osserva incredulo.
“Sali Longino. Ho degli affari da affidarti”
Mi incammino verso l’interno della casa non prima però di aver deriso il mio goffo assalitore.
Pilato, seduto sul suo seggio intento a sorseggiare una coppa di vino, mi fa cenno di accomodarmi. Rimango in piedi al suo cospetto.
“Longino ti voglio affidare un importante compito. Voglio che tu sia l’ombra del Nazzareno.”
Sento il sangue defluire via dal mio volto.
“Oggi si compirà il suo destino. Dobbiamo assolutamente impedire che qualcuno lo uccida prima del tempo. Conosci Caifa. Se si facesse prendere dal panico potrebbe ingaggiare un sicario e porre fine alla vita del falegname. Questo non deve accadere. Abbiamo bisogno di dare un esempio; un esempio religioso, politico e diplomatico.”
Le sue parole mi paralizzano. Come una malattia letale si insinuano nel mio io.
Vorrei rifiutare. Urlargli in faccia che non voglio stare vicino a quell’uomo. Che non mi interessa la religione, la politica, la diplomazia. Eppure non ci riesco. Annuisco dando la mia completa disponibilità. Pilato mi congeda. Esco dalla casa. L’aria non mi consola più. I bambini mi stanno alla larga. Lo farei anch’io se mi vedessi in faccia. Prima di dare inizio a questa assurda rappresentazione passo al campo per prendere la mia lancia. Mi servirà sicuramente.

Il sole è alto e l’esecuzione è solo all’inizio. Quel gran bastardo di Caio se la sta proprio godendo. Prima la frusta, poi il nerbo. Ora tiene in mano il flagello. Ogni colpo strappa un po’ di vita al Nazzareno. Il volto di Caio è segnato dall’odio e dal piacere. Stanotte godrà molto meno.
Ho intenzione di spaccarmi le mani contro il suo brutto muso. Sempre che le sue ossa siano così forti da rompere i cestus con cui me le ricoprirò. Ecco la croce. Sono sicuro che l’ha offerta Caifa. Mentre gliela caricano sulle spalle il sangue forma una piccola pozza ai suoi piedi. Guardo le persone intorno. Non uno sguardo di disprezzo. Non una voce si leva. Non un insulto scuote la pace di quel momento. Nessuno si azzarda a muoversi. Sembra che il tempo si sia fermato. Per la strada che porta al Golgota tutto procede tranquillamente. Solo un uomo e una donna si avvicinano cercando di alleviare le sofferenze del falegname. Io non mi oppongo al loro intervento. Lancio solo uno sguardo truce ai pochi che provano a protestare.
Sul Golgota ci si sente più vicino al cielo. Spesso quando sono quassù mi sento più sereno.
Infondo è un buon posto in cui morire. A me non dispiacerebbe.
Le croci sono già alte quando il sole inizia la sua discesa. Lo hanno messo fra quei due maledetti. Disma e Gesta. Li ho sorpresi io stesso, durante una ronda, che se ne approfittavano di una donna dopo avergli rubato fino all’ultimo denaro. Era da tempo che li cercavamo. Fisso i loro volti.
L’ira mi sale dentro. Sarei dovuto arrivare prima. Migliaia di volte prima. Ora sarà la croce a togliermi il piacere di prendere le loro vite. Mi soffermo sul Nazzareno. Perché; mi domando. Lui non è come queste bestie. Eppure fra i tre è quello che ha maggiormente sofferto. Mi siedo su una pietra poco lontano. Non perdo mai di vista la scena. Ascolto e non ascolto quello che accade.
Devo solo vigilare sui malintenzionati. Non voglio rimanere coinvolto. Non voglio che quegli occhi si posino nuovamente su di me. Non voglio più sentire la sua voce.
La terra trema.
Cado.
Disma grida.
“Lui Vive! Lui vive! Dio è con Lui! Vive! Vive!”
Le sue grida mi scombussolano. Devo farlo smettere. Deve smettere di urlare. Il Nazzareno è morto. Niente lo riporterà. E’ morto e basta. Corro sotto le croci. Il ladrone grida ancora. Con l’asta della lancia lo colpisco così forte da spezzargli il fiato.
“Ti ho detto che è morto!” ruoto l’arma e affondo la punta nel costato del falegname.
Acqua.
Sangue.
Cola sulla lama. Mi colpisce il viso. Mi tocca le labbra. Vedo creare la vita. Comprendo per un attimo ciò che le stelle celano. Divento una cosa sola col creato. Dio mi sfiora.
Non piangere figlio mio. Nessuno ti condannerà per ciò che hai fatto. Va ora. Credi e vivi.
Un mondo nuovo mi si apre davanti agli occhi. Ora lo vedo il Cristo. Non è morto. Vive. Si Vive.
Disma grida. Gli esecutori gli hanno fracassato le ginocchia. Ora vogliono quelle di Cristo.
Mi frappongo fra loro e la croce. Ne afferro uno per la veste.
Andatevene! Gli grido, con l’anima, in volto.
Lo spingo via facendolo cadere. Se ne vanno.
Pianto di donna. Pianto di madre. Il mio pianto. Tutte le lacrime del mondo sono per lui.
Lascio il mio elmo sul Golgota insieme al mantello.
Mi incammino verso la mia terra. So che fra cinque anni Glauco verrà a prendere la mia testa.
Per allora io avrò già creato qualcosa capace di ricordare il mio Messia.
AUTORE - SIMONE

L'ASSASSINO

Antoine l’ha portato direttamente da me. Non avrei mai pensato che fosse così famoso nella malavita parigina. Pensare che, poco più di un paio di anni fa, era così poco introdotto che ha persin dovuto vendere la sua vecchia madre, adottiva si intenda bene, per potersi pagare una bottiglia di rum delle colonie.
Eppure questa volta è riuscito a farci avere un contratto di lavoro coi fiocchi. Chiaro che senza di me si sarebbe sognato un cliente del genere. Ormai a Parigi anch’io ho la mia buona fama. La Lama mi chiamano. Al secolo Robert de Pontflorie. Non c’è un assassino migliore di me in tutta Francia. Per questo il signor Ministro si è appellato a noi. Per lavori così delicati e personali non è consigliabile avvalersi di sgherri del governo. Noi assassini al soldo siamo più efficienti. Puliti, se volete. Se accettiamo un lavoro il nostro codice d’onore ci impone di portarlo a termine qualunque sia il rischio. Questa volta poi il cliente è veramente esigente. Non ha voluto rivelarmi subito il bersaglio. Mi ha detto che tra uomini d’onore sarebbe bastata la parola e l’anticipo sul lavoro per concludere l’accordo. Uomo saggio Monsieur Jacque, non per niente è ciò che è. L’anticipo è veramente sostanzioso. Solitamente una cifra del genere la vedo solo dopo aver concluso un paio di lavori. Se penso che una borsa uguale mi aspetta alla consegna delle prove dell’avvenuta esecuzione mi sento felice come un bambino. Finalmente potrò ritirarmi, vivere la mia vita senza rischi o almeno mi piace pensarlo. Nella mattinata di domani un servo mi farà avere la lettera col nome della persona da uccidere e col souvenir da riportare come prova allo stimato nobiluomo. Sono proprio curioso di sapere chi è il folle che ha pestato i piedi a un uomo così potente. Ma ora basta pensare al lavoro. Devo prepararmi in fretta. La mia amata mi attende.
Sibilla. La immagino e mi si accende la passione. Quegli occhi che mi guardano, mi scrutano dentro imprigionandomi l’anima.
È ormai trascorso un mese dal nostro primo incontro. Ricordo perfettamente quel giorno.

Io ero appoggiato al muro del fornaio, una bassa costruzione a pochi passi dal boudoir di Madame Lilé.
Ero in attesa che la mia vittima uscisse proprio da quel bordello. Ma invece dell’uomo uscì la mia adorata Sibilla avvolta in un nero scialle che la copriva completamente. Mi passò accanto, prima di entrare dal fornaio, e i nostri sguardi si incrociarono quel tanto che bastò per farci innamorare. Ero talmente preso dalla sua figura, dal suo fragrante e dolce profumo che stavo per dimenticarmi del motivo per cui ero lì. Non sia mai che rovini la mia reputazione per una donna; mi dissi senza crederci più di tanto. Fortunatamente l’uomo usci dal bordello proprio nell’attimo in cui mi ripresi. Subito però mi resi conto che il mio stato d’animo non mi avrebbe permesso di affrontare il lavoro con la giusta freddezza. C’era qualcosa che mi rodeva dentro. Dovevo assolutamente parlarle prima di andarmene. È così, combattuto, mi infilai di corsa dentro alla bottega del panettiere. Agguantai Sibilla per le spalle senza mai perder di vista l’uomo. Lei mi guardò con occhi sbarrati senza dir nulla.
“Ci rivedremo stasera” le sussurrai in un orecchio. I miei occhi erano sempre sull’uomo che stava voltando l’angolo. Un attimo ancora e lo avrei perso. Le sfiorai il collo con le labbra prima di prostrarmi in un profondo inchino e scappare di corsa dietro la mia vittima.
Ricordo ancora la sensazione. Forse l’uccisione più sentita della mia carriera. Quando il coltello recise la giugulare, entrando alla base del collo, mi parve di rivedermi appoggiare le labbra sulla candida pelle di Sibilla. Assaporai il calore del suo corpo così come assaporai il caldo sangue dell’uomo che mi macchiò il viso. L’ultima immagine nella mia mente era una Sibilla inerme. L’ultima immagine di quell’omicidio fu un corpo esanime.
Alla sera mantenni la promessa. Convinto che il sacco dei denari pieno mi avrebbe aperto le porte del boudoir mi presentai a Madame Lilé. Mi sbagliavo. La megera non voleva che avessi niente a che fare con Sibilla. Arrivò ad offrirmi il suo intero harem, gratis, purché mi dimenticassi di lei. Non accettai e me ne uscii indispettito sapendo però che la mia adorata e selvaggia regina aveva assistito a tutta la scena.
Rimasi alcune ore appoggiato alla stessa parete, galeotta, della mattina cercando di abbracciare con lo sguardo l’intero fabbricato del bordello nella speranza di avere un suo segnale.
Niente.
Eppure sapevo che anche lei mi amava. Mi desiderava quanto io desideravo lei.
Ormai scoraggiato e pronto ad andarmene rimasi, piacevolmente sorpreso, quando vidi uscire da un vicoletto la mia dolce Sibilla. Appena fu vicina la strinsi forte. Ci baciammo senza dire una parola. Da quella sera condividemmo il mio letto per un mese; amandoci e vivendo quelle poche ore insieme nel massimo della serenità.

Come sempre accade mi sono perso nei miei ricordi. Corro al solito posto nella speranza di ridurre il ritardo. Se lei non c’è ancora aspetterò, in piedi, appoggiato al muro del fornaio che la mia bella arrivi.
Eccola.
“Ma cos’ha il mio amore?!” le chiedo leggendo la tristezza nei suoi occhi.
“Qualcuno ci ha visti. Madame è adirata con me. Ho paura Robert. Ho paura che mi facciano del male. Ho paura di perderti” le lacrime riempiono i suoi occhi.
“Non ti preoccupare mia cara nessuno ti farà del male finché Robert de Pontflorie sarà al tuo fianco. Ora torna alla Maison. Stasera è meglio che ti riposi. Ti amo.”
Lei mi lascia per tornare da Madame Lilé. Me ne vado a malincuore. Vago per Parigi tutta la notte con la sua immagine a tenermi compagnia. Torno a casa che il sole è già spuntato.
Sul mio giaciglio chiusa con un inequivocabile sigillo in ceralacca nera c’è la lettera col mio incarico. L’apro, incuriosito, e leggo il nome.
Cado in ginocchio. Dalla disperazione sfrego il volto sulla ruvida pergamena. Mi afferro i capelli rantolando. Urlo. In un impeto d’ira metto a soqquadro ogni angolo del mio tugurio. Sibilla c’è scritto con un inchiostro nero come la morte. Sibilla è la destinata ad incontrare la mia lama. Sibilla. Sibilla.
Lacrime amare mi riempiono gli occhi. Si staccano dalle mie guance sottoforma di grosse gocce che si schiantano, silenziosamente, sulla mola inumidendola. Non avrei potuto immaginare miglior modo per santificare la lama che mi porterà via il cuore e l’amore.
Antoine fa ritorno da una notte di bagordi. Non si accorge di nulla. Solleva il sacchetto delle monete e facendolo tintinnare, con un riso rantolante mi dice che, per la seconda volta, il nano ha avuto il piacere d’incontrar sua madre.

AUTORE - SIMONE

VIAGGIO IMPROBABILE

23/07/2005 Ore 10:00 Partenza
Il camper finalmente è pronto. Dopo che la signora che ce l’ha nolleggiato ci ha spiegato tutte le varie combinazioni sul come impostare il frigo, preparare il bagno e accendere il gas ci siamo messi in marcia verso casa mia dove abbiamo caricato le libagioni. Per una settimana da vagabondi abbiamo comprato sette chili di pasta, cinque barattoli di sughi e una quintalata di patatine. Noi si che sappiamo nutrirci in modo sano. Avendo poi paura che in Francia, perché è li che siamo diretti, non ci vendano la birra abbiamo deciso di portarci dietro una piccola scorta di quel dorato nettare. Giusto giusto quei quindici litri, in barilotti da cinque, appena sufficienti per passare allegri i primi giorni di viaggio.
Subito si decide chi guida. Io mi occupo dell’itinerario. Apro la cartina e consulto il vademecum della Francia. Vista la voglia di mare che pervade la compagnia propongo come prima tappa Cannes. Il navigatore è impostato per guidarci fino al confine. Il viaggio ha finalmente inizio!
Abbiamo intenzione di visitare Avignone, Bezier per poi continuare verso le nostre vere mete. Carcassone e Rennes le Chateau
Dopo i primi chilometri ci rendiamo già conto che il camper ha un’impostazione di guida differente a quella a cui siamo abituati. Prendiamo le curve con attenzione e ogni sorpasso ci lascia un po’ sofferenti. Guardandoci negli occhi ci diciamo che non c’è fretta e che a forza di guidare ci abitueremo, in breve tempo, a questo tipo di guida.
Intanto il paesaggio, fuori, scorre veloce. Muta. Lasciamo pianure, attraversiamo montagne e vegetazione rigogliosa per poi imbatterci nuovamente in ampie distese erbose. Passiamo l’Emilia Romagna, attraversiamo la Toscana e poi la Liguria. A una sessantina di chilometri dal confine ripenso agli avvertimenti degli amici:
“State attenti. A causa degli attentati in corso stanno fancendo un sacco di controlli.”
“Sicuramente rimarrete in colonna alla frontiera con tutti i controlli che stanno facendo in questi giorni.”
Così per star nel sicuro, dato che fra loro ci sono dei noti uccelli del malaugurio, abbiamo deciso di lasciare il fumo a casa. Subito non ne eravamo molto convinti ma poi mi sono imposto. Non volevo rischiare tutto per qualcosa di cui posso fare benissimo a meno.
La frontiera è a poche centinai di metri. Non si vedono forze dell’ordine. Ne nostre, ne francesi. Le notizie erano totalmente false. Neanche i casellanti ci guardano in faccia. Bei controlli. Il Matte impreca perché ha dovuto stare in fila quattro ore per fare la carta d’identità valida per l’espatrio. Tutto solo perché temeva che al fronte lo rimandassero in Italia.
Noi non possiamo fare altro che ridere continuando a sfotterlo per una trentina di chilometri.

23/07/2005 Ore 16:00 Arrivo a Cannes
Ecco Cannes! Non ne potevamo più di guidare ma soprattutto di pagare. Giuro che non mi lamenterò mai più delle autrostrade Italiane. Mi ricordo un anno fa quando per andare da Modena a Bologna si pagava un euro e poi nel giro di un mesetto un euro e dieci centesimi. Mi incazzai. Ma come mi aumentate la tassa autostradale e per di più ci metto il doppio del tempo a causa dei lavori! Siete dei Maledetti!
Ora se avessi il signor AUTOSTRADA qui davanti lo bacerei. L’autostrada Francese è un vero e proprio salasso. Ogni cinque chilometri un casello. Ogni cinque chilometri un euro e cinquanta. Ma vi rendete conto! Come se per andare all’ipermercato dovessi pagare il pedaggio. Il brutto è che le strade alternative, sulla costa, non sono comode per di più in camper. Morale della favola confine - Cannes trenta euro.
Parcheggiamo il mostro a quattro ruote nel parcheggio della stazione. Non è il massimo della comodità ma, dopo aver passato venti minuti a farlo uscire da una tortuosa stradina, stretta e in pendenza, decidiamo che è la scelta migliore. Siamo carichi come delle molle. La vacanza è appena iniziata.
Ci incamminiamo verso il centro. Vogliamo vedere il mare. Il suo movimento, il suo sciabordio, sarà sicuramente un toccasana dopo settecento chilometri alla guida.
Respiriamo la vita della riviera francese. Se di vita possiamo parlare. Sembra più che altro di essere in un’ospizio. I giovani si contano sulla punta delle dita. Nessun locale con del movimento. Anche i bar sulla spiaggia, che tentano di animare la serata, sono semi vuoti.
La musica suona nella speranza di attirare qualche turista ma anche questo serve a poco.
Tutti sembrano molto più attratti dai lussuosi negozi e dagli alberghi a cinque stelle che troneggiano sulla Croisette, il famoso boulevard reso esotico da miriadi di palme che, durante il festival del cinema, vede passare le celebrità Holliwoodiane.
Sul lungomare sembra di camminare in una foresta fatta da baracchine del gelato che espongono l’insegna “tipico gelato artigianale Italiano” solo perché fatto con macchine prodotte in Italia.
In un attimo di sconforto mi rivedo dieci anni fa a Riccione. Negozi, moda e passerelle lungo la via più rinomata del paese. Mi viene la nausea.
A metà della passeggiata il lungomare si allarga in uno spiazzo per permettere ai turisti di godersi il mare e riposarsi su una panchina. Lì alcuni pattinatori sfoggiano la loro bravura facendo lo slaloom tra piccoli bicchieri di plastica colorati. C’è chi affronta la prova con cautela altri, invece, con molta scioltezza, girando le spalle agli ostacoli. Resto sopreso quando vedo un ragazzo lanciarsi nell’impresa dopo aver preso una lunga rincorsa. Mai visto uno così veloce. Le gambe sembravano essere di gomma dal tanto il movimento era fluido e deciso. Spettacolare anche la frenata; una lunga rotazione fatta a pochi centimetri dagli ignari passati.
Rimanemmo lì fermi per parecchi minuti, incantati e sorpresi da quelle evoluzioni, finchè i nostri stomaci non ci obbligarono a cercare un posto in cui mangiare.
I ristoranti, lungo le strade interne, se non offrivano cibo cinese offrivano pessimo cibo italiano a cifre improponibili. Valutiamo le offerte e la situazione.
Alla fine decidiamo di puntare su un pub che avevamo visto poco lontano dal parcheggio.
I gestori ci accolgono cortesemente. Dopo il primo approccio con la cameriera, che non capisce una parola di francese, ci accorgiamo, con piacere, di essere capitati in una vera birreria inglese gestita da inglesi. Perfetta direi!
Comunque, per precisare, la scelta non è stata fatta a caso. Ciò che in effetti ci ha attirato è stata la sua strepitosa offerta promozionale. Dieci birre quindici euro!

24/07/2005 Ore 01:30 Buona notte
Le birre ci hanno dato il colpo di grazia. Abbiamo avuto la forza solo per: fare due passi digestivi, salutare due belle bionde straniere affacciate al balcone del loro appartamento, proporci per uno scambio culturale e linguistico; poi il sonno ci ha raggiunti. Barcollavamo per le vie interne di Cannes nella speranza che il camper ci venisse a raccogliere. Purtroppo è tutt’altro che supercar quel girovago regno di odori nauseanti. Dico così perché tra frigo e bagno non saprei quale sprigiona il lezzo peggiore. Non voglio neanche supporre cosa, i campeggiatori precedenti, ci abbiano tenuto dentro a quel frigo. Il bagno purtroppo emana l’odore dell’acido, blu petrolio, che serve per corrodere gli amari prodotti dei nostri corpi. In ogni caso la decisione è presa. Domani, al primo market sulla strada, si investe in un buon deodorante per ambienti.
Passa un quarto d’ora da quella sofferta decisione e finalmente raggiungiamo il camper.
Di comune accordo, nonostante la stanchezza, decidiamo di spostarci un altro po’ lungo la costa anche perché non conviene dormire così per la strada. Dopo una decina di chilometri e i soliti tre euro di pedaggio ci fermiamo in un’area attrezzata per la sosta notturna. Sembra di essere da un concessionario. Scegliamo una piazzola comoda e non troppo vicina agli altri camperisti.
Spegniamo il mezzo e ci sediamo sui divanetti attorno al tavolo da pranzo. Lì con le carte in mano espongo il tragitto da fare domani. Rimaniamo per alcuni minuti in contemplazione della mappa nel vano tentativo di trovare un percorso altenativo all’autostrada.
Intanto il Matte si fa su una sigaretta mentre io e Mala ci mangiamo una di quelle brioche industriali al cioccolato che fanno concorrenza alla chimica del water.
Riposta la cartina senza aver preso alcuna decisione definitiva sulla strada, scendiamo tutti a fumare. L’aria è fresca e la notte appena iniziata. Facciamo girare la sigaretta. Tiriamo per poi rimanere ad osservare il cielo che viene coperto dal nostro fumo e poi torna sereno.
La stanchezza ha la meglio su di noi. A turno rientriamo e ci adagiamo sui nostri letti. Stasera il letto matrimoniale tocca a Mala. Come al solito è stato il più fortunato col dado. Domani sera è il mio turno. Per stanotte mi accontento di uno dei due loculi rimasti. Prima di addormentarci chiudiamo ermeticamente tutto il camper. Oscuratori alle finestre, porta bloccata, sportelli chiusi e le tendine che dividono la cabina dal resto del camper tirate.
Le ultime due cazzate sono ancora nell’aria quando i nostri occhi si chiudono.

24/07/2005 Ore 02:30 Risveglio
Apro gli occhi. Una luce mi infastidisce. Una sensazione strana aleggia nell’aria. Mi sento veramente rincoglionito. Percepisco alcuni movimenti sopra di me. Matte mi chiede se sono sveglio. Strano che anche lui lo sia. Mi guardo intorno. C’è qualcosa di diverso.
“Ma non avevamo chiuso la tendina?”
“Si” rispondo io. Mi alzo e con circospezione mi avvicino alla cabina. Guardo dentro.
Sportelli chiusi, autoradio ancora inserita, sedili in ordine. Tutto normale se non fosse che il mio zaino è ai piedi del sedile del passeggero.
“ Che ci fa qui il mio Zaino?!”
Guardo Matte e contemporaneamente realizziamo. Ci hanno derubati.
Svegliamo Mala. Lui non si è accorto di niente.
“Mala svegliati. Sono entrati nel camper!”
“Cosa?” la voce ancora assonnata
“State scherzando?”
“Secondo te?!”
Poi l’occhio gli cade sul sedile dov’era il mio zaino.
Tutta la sua roba è sparita. Cellulare e quattrocento euro volatilizzati nell’aria.
“No! Cazzo No!” Si infila le scarpe e scende dal camper. Noi dietro.
Giriamo fra le varie piazzole. Non troviamo niente. Il ladro si è dato.
Sconsolati ritorniamo al camper. Rimaniamo per un po’ assorti nei nostri pensieri in attesa di recuperare la piena lucidità delle nostre menti.
Ci domandiamo come abbia fatto, poi notiamo la serratura dello sportello del passeggero leggermente forzata. Sul vetro, in contro luce, si può ancora vedere l’impronta della mano del malvivente. Un leggero senso d’inquietudine si impossessa di noi.
“Come abbiamo fatto a non sentirlo?” chiediamo l’uno all’altro increduli.
“Deve aver fatto scattare la serratura poi, accorgendosi che non c’è stato movimento all’interno ha aperto la portiera. Sentite?” dico loro simulando l’operazione.
“Niente” mi rispondono in coro
“Dalla cabina avrà semplicemente aperto le tende e allungato la mano sul divanetto afferrando zaino e marsupio. Non ha messo neanche un piede in cabina. Cazzo!”
“Ragazzi a pensarci siamo stati anche fortunati che ha preso solo i soldi. Pensate se fosse stato un maniaco. A quest’ora potremmo non essere qui a congetturare sulle sue azioni” bisbiglia il Matte mentre noi sbianchiamo.
Risaliamo sul camper e, all’unanimità, andiamo in cerca del primo autogrill aperto.
Abbiamo bisogno di un caffé e di un posto meno inquietante in cui riflettere.
L’unico caffé che troviamo, al punto di ristoro, è quello delle macchinette. La cosa ci intristisce. Non che il caffé dell’autogrill in italia sia ottimo, però almeno è un dannattissimo espresso da bar e non una nera brodaglia liofilizzata. Rinunciamo al caffé ricercando il nostro surrogato di felicità nella spessa cioccolata di un Magnum.
Come tre cerebrolesi ci sediamo nell’area giochi a pochi passi dal nostro camper. Lo osserviamo in silenzio come se fosse l’ultimo baluardo nemico da conquistare.
“Allora che si fa? Cerchiamo di ragionare lucidamente. Torniamo in Italia o proseguiamo in questa avventura?”
Nessuno mi risponde. Il Matte sta pensando mentre Mala è perso nella sua sigaretta.
Lascio decadere per un attimo la cosa. Cerco di sdrammatizzare con Alcune battute volgari che creano altrettante storielle grotteste. Il sorriso ritorna a segnarci il viso e un nuovo entusiasmo ci nasce dentro. La stanchezza, dispersa dall’adrenalina del momento, si fa nuovamente sentire.
Sollecito i ragazzi a una scelta. Tornare o proseguire.
Il Matte ribatte con una frase che non lascia intendere alcuna tipo di scelta.
“Dopo quello che è successo stasera, chi di voi dormirebbe tranquillo?”
I nostri sguardi si incrociano e, dopo aver appurato l’impossibilità di fare turni di guardia, la decisione si prende da se. Torniamo in Italia.

24/07/2005 Ore 04:30 Ritorno in patria
Sono alla guida ormai da una mezz’ora. La strada è vuota. Le luci sfumano di arancione i colori della notte leggermente schiariti dall’avvicinarsi dell’alba.
La musica che esce dall’autoradio mi tiene sveglio. Ho scelto qualcosa di cantabile evitando tutti quei brani dalla melodia ciclica. Devo assolutamente sfuggire alla morsa della monotonia e quindi al sonno. Già l’autostrada non è il massimo in fatto di varietà. In questo caso i caselli tornano comodi. Sono gli assoli di tromba in una piatta e noiosa armonia.
Penso di reggere tranquillamente fino al confine. Mala mi siede affianco perso nei suoi pensieri. Molto probabilmente, ancora incredulo, si chiede il perché gli sia capitata una cosa così paradossale. Il Matte, che prima era seduto sul divanetto del misfatto, ora è steso in uno dei loculi. Il sonno ha avuto il sopravvento. Infondo è meglio che qualcuno si riposi.
Visto che nessuno parla mi metto a tenere il tempo della musica picchiettando con le dita sul voltante. Il buio permea l’interno del camper che sembra avvolto da una patina di onirica irrealtà. Una luce colpisce lo specchietto laterale attirando la mia attenzione. Una rover verde lanciata a tutta velocità si avvicina pericolosamente. Sbanda leggermente lasciando la sua traiettoria originale. Più le distanze si accorciano più l’auto si avvicina al fianco del camper. Vengo preso per un attimo dal panico. Ci manca solo che ci tocchi e siamo a posto. Suono il clacson e gli grido di stare attento. Come se mi avesse sentito, l’auto riprende la sua traiettoria rettilinea rimanendo comunque piuttosto vicino al camper.
“Guarda te sto coglione” dico indicando il mezzo. La macchina ci sorpassa riprendendo a sbandare. Alzo lo sguardo sullo specchietto retrovisore puntato proprio sui due loculi. Subito non capisco bene. Forse ho visto male mi dico. Metto a fuoco meglio la situazione dopo aver sbattuto un paio di volte le palpebre. Un’ombra alta e nera sembra essere chinata sul letto in cui il Matte è assopito. Mi sembra di notare un convulso scalciare. Sento salirmi in gola la paura. Ma chi è?
Continuo a guardare la scena impietrito. L’ombra si solleva dal suo ultimo pasto. Due occhi tondi e gialli si puntano sullo specchietto. Grido. Mala sobbalza sul sedile. La sua testa cade a terra.
Da dove viene quell’essere? Chi è? Realizzo nel mio ultimo secondo di lucidità che è sempre stato con noi. Che il furto è stato solo un diversivo. Che ormai non ho via di scampo. Sto già morendo. Qualcosa di freddo e duro come ossa mi ha perforato la base del cranio. Percepisco i fori umidi, e tondi dai quali il sangue cola; caldo e denso. Il camper rallenta. Si ferma al bordo della strada e noi con lui. Per sempre.

24/07/2005 Ore 07:00 Qualcuno passa la frontiera
“Qualcosa da dichiarare?” chiede il gendarme allo zingaro dal largo cappello alla guida del camper.
“Signor gendarme con me porto solo i miei pochi averi e un po’ di carne per i miei magri pasti” risponde lo zingaro sfoggiando un largo sorriso che mostra denti gialli e pezzi di cibo incastrati fra gli incisivi.
Il gendarme da un’occhiata veloce all’interno stando parecchio lontano. Il lezzo che esce da quel mezzo è alquanto oltraggioso per il suo olfatto.
“Puo’ andare ora” ordina il gendarme.
Lo zingaro riparte. Coi suoi occhi gialli fissa per un attimo l’agente attraverso lo specchietto.
Il militare, con un gesto 00stizzoso, si sta pulendo gli stivali nell’erba alta cresciuta sul ciglio della strada.
Qualcosa di denso li ha macchiati. Lo zingaro sorride. Tutte le mamme lo insegnano alle loro bambine. Le macchie più difficili da pulire sono quelle di sangue.

AUTORE - SIMONE

01 agosto 2005

BOTTONI

Nero; fitto e denso come il catrame. Ne sono avvolto. Giro su me stesso per cercare un punto di riferimento; per capire dove sono. Allungo le braccia nella speranza di toccare qualcosa di solido e reale. Sento i miei occhi sforzarsi. Le pupille dilatate allo spasmo nella vana speranza di carpire una particella di luce. Nulla. Fortunatamente i polpastrelli incontrano la levigata e gelida superficie di una parete. Decido di muovermi continuando a toccare il muro. Conto i passi per non perdere la ragione. In quel luogo non c’è alcun rumore. Una lieve sensazione di sgomento inizia a salirmi dal centro dello stomaco. La mia mente si sofferma per un millesimo di secondo sulla nullità in cui mi trovo. Tanto basta per farmi sentire come un vegetale. Sordo, muto e completamente cieco. Il panico si nutre di quest’ultimo sentire e mi assale. Corro; senza fermarmi. Senza voltarmi. Temo di essere prigioniero in uno spazio senza fine.
Ma ecco una luce. Piccola, flebile. Un cono che parte, sottile, dall’alto e si allarga sul pavimento.
In esso vedo speranza e vita. Mi tranquillizzo non appena il suo chiarore mi tocca. Fermo immobile, con gli occhi chiusi, respiro la luce. Cerco di farla mia perché non so quanto durerà in questo luogo di tenebra. Trascorrono alcuni minuti prima che mi accorga di quell’oggetto sul pavimento. Un orsetto di peluche; gli occhi dei bottoni, la bocca uno spesso filo nero che gli disegna un sorrisetto sardonico. Lo afferro per osservarlo più da vicino. La mia vista si fa strana.
Non vedo più l’orsetto anche se lo sento ancora stretto fra le mani.
Mi sembra di guardare attraverso quattro forellini. Sarà la stanchezza o l’effetto del buio. Lascio cadere il pupazzo che tocca terra senza fare rumore. Mi sfrego gli occhi per cercare di riacquistare una visione normale delle cose. Orrore. Qualcosa di inquietante ricopre la mia cavità orbitale. Prima di lasciarmi andare al panico cerco di capire cosa sia. Lisce e fredde superfici circolari con quattro fori al centro. Bottoni. Due grossi bottoni sono cuciti al mio volto. Urlo ma nessun rumore esce dalle mie labbra. Muovo la lingua cercando di farla uscire dalla bocca. Niente da fare. Uno spesso filo di lana a doppio incrocio salda insieme le mie labbra come a chiudere i lembi di una profonda ferita. Percepisco un movimento ai miei piedi. Muovo la testa per riuscire a vedere completamente la scena. Il peluche è ritto in piedi. Mi beffeggia indicandomi, con le sue tonde mani, per poi scappare nelle ombre. Anche la luce sparisce. Di nuovo solo nell’oscurità. Disperato mi getto a terra. Rotolo su me stesso, scalcio e grido senza emettere un suono. Aiuto! Qualcuno mi aiuti! Penso. Poi dalle ombre emergono altre ombre dalla forma umanoide. Cerco la parete per rannicchiarmici contro. Riesco a vederle nitidamente. I miei occhi hanno ripreso il loro posto. I tre esseri mi si avvicinano. Afferrano le mie estremità e mi trascinano lungo l’infinito corridoio. Il cuore mi batte talmente forte da farmi girare la testa. Perdo completamente i sensi.
Quando mi risveglio sono seduto su una robusta sedia di legno. Davanti a me tre scatole. Le osservo. Sono apparentemente identiche. Cartone grezzo, tenuto insieme da scotch da pacchi.
Le due ombre, in piedi al fianco delle scatole mi osservano anche se i loro volti non sono altro che ovali neri privi di lineamenti. Il loro corpo, nerboruto e tonico, non è altro che una piega di quel mondo. Esseri in bassorilievo creati dallo stesso buio che li nutre.
“Scegli la tua scatola. Scegli la tua morte.”
Il suono di queste parole mi raggiunge da lontano. Subito cerco di non sentirle. In breve si fanno più forti; penetranti. Scuoto la testa nella speranza di tenermele lontane. Inutile. Faccio scorrere il mio sguardo sulle scatole, su quegli esseri; poi nuovamente sulle scatole. Destra, sinistra, centro. Non voglio scegliere. No, non voglio e non sceglierò. Più cerco di convincermi di questo più il suono aumenta d’intensità. Immagini come un flusso continuo attraversano la mia mente. Sangue, torture, dolore ed eternità si susseguono in raccapriccianti scene di morte. In un attimo capisco che devo assolutamente fare una scelta. Devo evitare quell’inferno nel quale potrei essere proiettato.
Desidero farla finita. Desidero il riposo eterno ed essere strappato finalmente dalle loro grinfie malvagie.
Destra, sinistra, centro. Destra, sinistra, centro. Destra, sinistra, centro. DESTRA!
Tutto si quieta. Immagini, suoni, dolori si annullano all’istante. Rimane il vuoto, io, le tre scatole e i tre esseri.
Quello più arretrato fa un passo avanti. Lo spazio alle sue spalle viene estruso dal suo movimento.
Le sue dita di ombra si assestano sul coperchio della scatola di destra. Lo solleva; lentamente.
Rimango bloccato dal terrore quando dalla scatola esce, con un balzo, l’orsetto di peluche. Occhi di bottoni lucidi e neri, bocca sottile di lana, luccicante coltello stretto nel palmo. Mi si avventa alla gola. Urlo.
Mi risveglio nel mio letto stringendo forte Alfred, il pupazzo col quale sono cresciuto. Senza rendermene conto lo lancio ai piedi del letto. Fredde gocce di sudore imperlano il mio volto. Il cuore batte forte mentre il fiato mi viene quasi a mancare. Mi guardo attorno. Tutto normale. La mia solita camera da letto. Ritrovo i poster alle pareti, le foto con gli amici, il mio pc. Tutto come sempre. Sospiro; era solo un incubo. mi alzo dal letto. Devo bere. Ho una sete tremenda. Entro in cucina. Sullo sportello del frigo sono appesi una ventina di fogliettini gialli a memento dei mie compiti. Sconsolato prendo la bottiglia dell’acqua alla quale mi attacco senza indugio. Il liquido freddo scende velocemente. Sento l’arsura sparire e un gran fresco pervadermi. Finito di bere lascio la bottiglia sul tavolo notando, al contempo, di essermi sbrodolato in qualche modo la maglietta. Me ne disinteresso subito. Ormai la stanchezza mi ha abbandonato e poi, sinceramente, vorrei evitare d’immergermi nuovamente in quell’incubo. Mi getto sul divano della sala.
Afferro il telecomando della Tv e comincio a fare un po’ di zapping.
Uno; schermo nero.
Due; schermo nero.
Tre; documentario su Torquemada e i metodi di tortura da esso applicati.
Quattro; schermo nero.
Cinque; schermo nero.
Sei: Reportage sulla Guerra del Golfo. Un Susseguirsi di mutilati, bambini sofferenti e terrore.
Spengo. Tutte quelle immagini mi hanno fatto venire la nausea. Molto meglio rilassarsi sul divano.
Metto le mani dietro la nuca e lascio vagare liberamente lo sguardo per tutta la stanza cercando, in questo modo, di trovare un po’ di pace interiore.
La viva luce verde della segreteria telefonica, che segnala la presenza di un messaggio, attira la mia attenzione. Allungando una mano premo play. Dall’altoparlante una voce gracchiante mi fa accapponare la pelle.
“Scegli la tua scatola. Scegli la tua morte.”
Mi allontano dalla segreteria strisciando sul divano. Il messaggio continua a ripetersi senza darmi tregua. Afferro il cavo che da corrente a quel macchinario infernale; ho intenzione di spegnerlo e poi buttarlo via. Strattono il cavo finché la spina non si stacca dalla presa. In un attimo mi ritrovo il filo in mano ma, nonostante la corrente non scorra più attraverso i circuiti della segreteria, il messaggio continua a tormentarmi. Con uno scatto scendo dal divano deciso a lasciare quella casa almeno per ora. Andrò da Michela. Da lei mi sento al sicuro. Afferro la maniglia d’ingresso mentre nell’altra mano stringo il mazzo con le chiavi dell’appartamento. Mio malgrado ciò che mi si presenta al di là della soglia non mi permette di far altro che bloccarmi. Il buio è tutto intorno. Al di fuori di quella porta non esiste alcun mondo, c’è solo quella immensa oscurità dalla quale ero scappato. Un movimento attira la mia attenzione. Aguzzo la vista. L’orsetto dai lucidi bottoni si sta avvicinando. Stringe ancora il lungo coltello col quale mi ha decapitato. Vedo il mio sangue colare dalla lama. Vedo il mio sangue bagnarmi la maglietta. L’orsetto sorride compiaciuto del suo operato.
Percepisco ancora tutto.
La mia testa, appoggiata su questa mensola di carne osserva, dai sottili fori dei bottoni cuciti sulle mie orbite, gli sfortunati che, come me, sono approdati in questa realtà e, con piacevole divertimento, assisto alla scelta che gli permetterà di condividere il mio stesso destino.

AUTORE - SIMONE