Ogni parte del suo essere era colma di terrore.
Il cuore palpitava impazzito. I suoi occhi indagatori si muovevano in modo frenetico cercando, nel buio opprimente che lo avvolgeva, qualcosa di famigliare su cui poter far convergere la propria insicurezza ed esorcizzare quella tremenda visione.
Luce; aveva bisogno di luce.
La desiderava e questo bastò a far si che nel centro della stanza si concentrasse un piccolo globo luminoso che, sprigionando una pura ma intensa luce, eliminò ogni traccia di oscurità.
Gilgamesh non comprendeva. Tutto appariva alla sua mente molto confuso.
L’incubo della sua infanzia era tornato a tormentare le sue notti.
Perché proprio ora?
Che fosse connesso agli strani avvenimenti su cui era stato chiamato a indagare?
Far supposizioni era inutile. La soluzione si sarebbe presentata solo riesaminando, in modo analitico, le informazioni ricavate fino a quel momento.
Al suo arrivo in compagnia di Eladrin, una giovane menestrello, tutto sembrava svolgersi nella più assoluta normalità. Alcuni abitanti del feudo, caricati dei loro attrezzi da lavoro e di qualche provvista, si recavano nei campi per rimanervi fino a poco prima del tramonto. Le botteghe, che si ergevano intorno alla Chiesa, erano nel pieno delle loro attività produttive. Le donne, intente a parlottare fra di loro, procedevano serene verso la zona dei laboratori, nella quale agli uomini era vietato l’accesso.
Nei volti della gente però si intravedeva qualcosa di anomalo; una paura che incombeva sulle loro piccole menti e alla quale non riuscivano a dare una spiegazione plausibile. Anomalia questa rafforzata dal fatto che, per il feudo, si aggiravano parecchi monaci, tutti indaffarati nella cerca di chissà quale nemico.
Giunti dal borgomastro, un uomo ormai non più nel fiore degli anni ma dallo spirito ancora molto forte, i due vennero accolti con tutti gli onori dovuti a degli ospiti del loro retaggio. L’uomo assegnò loro due piccole stanze all’interno della sua abitazione e li invitò alla sua mensa per il pasto serale. Fu proprio in quell’occasione che Gilgamesh e la sua compagna vennero a conoscenza del motivo per cui erano stati mandati a indagare in quel villaggio sperduto fra i monti.
Ma procediamo per gradi.
Visto che i due avevano a disposizione tutto il pomeriggio decisero di mettersi subito al lavoro raccogliendo alcune indiscrezione dagli abitanti. Gilgamesh parlò con gli artigiani mentre Eladrin interrogò le donne nella zona dei laboratori. Quando, prima della cena, si scambiarono le informazioni ottenute si accorsero che molte di esse erano simili. Nel complesso si potevano riassumere tutti gli eventi, avvenuti fino a quel momento, attraverso un paio di fatti piuttosto macabri; il concepimento di esseri umanoidi deformi e una serie di morti inspiegabili e particolarmente violente.
Ma fu la cena, come avevo già anticipato, ad essere veramente rivelatoria.
Tutti i commensali erano seduti ad una grande tavola rettangolare di quercia.
Ai due capi della tavola sedevano Gilgamesh e il padrone di casa mentre ai lati invece, dove erano state predisposte due sedie per parte, stavano le tre giovani figlie del nostro ospite e la delicata Eladrin che, come d’abitudine, non si presentava mai ad un banchetto senza essere accompagnata dalla sua fedele e adorata lira.
La tavola, riccamente imbandita, era stata preparata con scrupolosa attenzione. Grandi vassoi di peltro mettevano in bella mostra svariati tipi di cacciagione cucinata nei modi più disparati. L’odore delle spezie e del pane caldo riempiva l’aria.
I bicchieri erano già stati riempiti con un forte vino dal dolce profumo e dall’intenso color carminio. Semplici candelabri di ferro battuto illuminavano la modesta sala.
Le danzanti fiamme delle candele davano a quel luogo un aspetto misterioso che si andò ad accentura durante la serata.
La cena procedette in piena serenità, tra un bicchiere di vino e un cosciotto di cinghiale alle erbe, fino a quando Gilgamesh non decise che era venuto il momento di chiarire ciò che aveva scoperto quel pomeriggio. Non appena il mago entrò in argomento, le facce degli ospiti, che fino a poco prima erano felici e sorridenti, si oscurarono improvvisamente. Subito non capì il perché di un tale e repentino cambiamento; poi tutto si chiarì nel momento in cui una delle tre figlie del borgomastro, con un pianto represso, si alzò da tavola e correndo si rifugiò nella sua stanze da letto.
A detta del padre, poche sere prima, la giovane era stata violentata da un essere che la ragazza aveva descritto come un eterea creatura di natura tutt’altro che umana.
Mentre raccontava queste cose l’uomo si segnava continuamente come se temesse che le sue parole potessero richiamare qualcosa di antico.
La ragazza fece ritorno a casa con le vesti lacere, e subito il padre pensò che fosse stata vittima di qualche contadino che, in preda ai vapori del vino, avesse perso la ragione. Invece la serva, che per prima si prese cura della ragazza, gli riferì che i seni e i fianchi della fanciulla portavano evidenti segni di graffi, molto simili a quelli lasciati dagli orsi sulla corteccia degli alberi per segnare il loro territorio. Perdipiù, sempre secondo la serva, nella parte interna delle gambe, in prossimità del pube, vi erano delle lesioni che potevano essere state fatte solo col fuoco.
Il ricordo di quelle parole strappò Gilgamesh alle sue riflessioni.
Il mago sentì l’ansia imposessarsi del suo animo.
Solo ora riusciva a intuire un qualche collegamento fra il suo sogno e gli eventi che avevano come protagonista la figlia del feudatario. L’essere di cui nessuno aveva mai visto l’aspetto era lo stesso che lo perseguitava fin da ragazzo.
Lo stesso che, secondo il suo mentore, lo aveva aggredito quella notte di vent’anni prima. Il ricordo era ancora vivido nella sua mente. Era riuscito a sottrarsi a quell’essere per pura fortuna rifugiandosi in un anfratto situato alle spalle di una piccola cascata.
In quell’occasione aveva riportato una lieve ferita alla spalla che, a causa della sua natura magica, era refrattaria a qualsiasi tipo di incantesimo curativo.
“La ferita! Ecco la prova!”
Con un rapido gesto della mano sinistra, in uno stato di agitazione crescente, Gilgamesh si sollevò la manica dalla maglia mettendo a nudo la spalla. Ciò che vide lo fece riflettere e nel contempo confermò le sue ipotesi. Dalla cicatrice, rimarginata perfettamente ormai da tempo, fuoriusciva un leggero rivolo di sangue che prese a strisciare, come un piccolo serpentello, lungo il braccio scoperto.
La sua mente si concentrò sulla ferita e questa smise immediatamente di sanguinare.
“Tu sei il più adatto a questo compito” gli avevano detto gli anziani della confraternita quando gli affidaro l’incarico.
Evidentemente erano già a conoscenza di ciò che stava avvenendo in quel luogo e di come lui vi fosse legato.
Gilgamesh però non si spiegava il perché lo avessero tenuto all’oscuro di tutto.
Che avessero voluto metterlo alla prova facendogli affrontare le sue paure?
Si arrovellò un po’ su questa cosa cercando di darsi una motivazione plausibile, ma poi accantonò il pensiero decidendo che al suo ritorno avrebbe chiesto chiarimenti.
Ora l’importante era riposare. Lo attendeva un’intensa giornata di ricerche e doveva essere nel pieno delle proprie facoltà mentali se voleva sbrogliare, al più presto, la matassa che legava assieme tutti quei delitti.
*******
Il sole, caldo, risvegliava la terra ancora addormentata sotto una coltre di rugiada.
La leggera brezza mattutina che filtrava dalle imposte semi aperte, svegliò dolcemente Gilgamesh che, in poco tempo, si preparò ed uscì dalla stanza. Aprì la porta della camera e dietro vi trovò Eladrin, in procinto di bussare. La ragazza col il viso arrossato e le lacrime agli occhi gli fece segno di seguirlo invitandolo ad affrettarsi.
All’esterno molti degli abitanti del feudo si erano ammassati intorno alla casa del maniscalco, dalla quale provenivano grida di disperazione. L’abitazione, piuttosto grande rispetto alle altre, era formata da una parte di pietra dove viveva l’artigiano con la moglie e da un’altra, in legno, adibita a stalla e fucina.
All’interno di quest’ultima Gilgamesh intravide il borgomastro che, con una mano alla bocca, gesticolava nella sua direzione.
Facendosi largo tra la folla, senza dare il tempo ai suoi occhi di cogliere tutti i particolari della scena, il Mago si portò all’ingresso della stalla.
Non appena oltrepassò la soglia il suo olfatto fu colpito violentemente da un intenso odore di escrementi misto a sangue e poco ci mancò che il suo stomaco lo abbandonasse.
Appeso ad un trave della stalla, come un semplice quarto di bue, vi era la parte inferiore di un uomo. Il busto era stato posto sotto di essa. Come in una grottesca messa in scena teatrale la testa era orientata in modo tale da poter osservare il proprio bacino dilaniato e le interiora pendere ormai prive di vita.
Ripresosi dallo turbamento iniziale, Gilgamesh incominciò a osservare la scena.
Il suo occhio vigile notò subito che, mimetizzate con la paglia e la polvere presenti nella stanza, vi erano tracce di sangue che portavano in fondo alla stanza verso una porta di legno.
Con circospezione si avvicinò e l’aprì lentamente.
I segni all’interno della casa erano più nitidi e non sembravano casuali ma, ben delineate, quasi come se qualcuno avesse voluto indicare una strada da seguire ai soccorritori.
Avanzando Gilgamesh si ritrovò al cospetto di un altro efferato delitto.
Questa volta si trattava di una donna; la moglie del maniscalco.
La trovò stesa sul suo letto, completamente nuda.
Il suo corpo, al contrario del marito, non presentava segni di lacerazioni.
Ad un primo sguardo sembrava esser morta nel sonno.
Eppure, quella scena di apparente normalità, era resa grottesca da un particolare alquanto inquietante.
Sul corpo della vittima vi era una lunga ustione che partiva da sotto il mento e si snodava lungo tutto il corpo fino alla zona pubica.
Sembrava che una grossa lumaca, strisciandole sul ventre, l’avesse ustionata.
Solo dopo aver esaminato la donna, Gilgamesh, si accorse che sulla parete alla sua sinistra vi era una scritta.
La lingua usata era il latino, e l’iscrizione diceva :_ Una volta mi fuggisti. Per te ora non vi è più scampo. Tu pensi di essere il cacciatore ma non ti sei ancora reso conto di essere la preda.
La scritta riuscì solo ad irritarlo. Si sentiva ferito nell’orgoglio e questo riempiva il suo animo di rabbia.
“Il primo! Devo sapere chi è stato il primo a morire!” questo uscì dalla bocca di Gilgamesh non appena abbandonata la casa del maniscalco, in preda all'ira, vide il capovillaggio nell’aia che coordinava un gruppo di contadini intenti a deporre ciò che rimaneva delle spoglie dell’artigiano in un carretto.
L’imposizione cosi secca e decisa spiazzò per un attimo l’amministratore.
Il mago, nei suoi abiti di cuoio nero, non gli era mai apparso così imponente e rigoroso come in quel momento.
Quegli occhi scuri, inflessibili, che lo fissavano carichi di cieco odio spaventarono il pover uomo che frappose subito alcuni metri tra se e il suo interlocutore.
“Ebbene! Sto aspettando!”
“Subito mio Lord, glielo mostrerò immediatamente” così dicendo il borgomastro, ancora intimorito, accompagnò Gilgamesh ad una piccola casa in legno isolata da tutte le altre.
“Questa era la casa del vecchio Ibacus. L’ultimo prete della vecchia fede che ancora si poteva trovare nella zona circostante”.
Senza neanche ascoltare l’ultima affermazione dell’uomo, Gilgamesh si fece largo nella polverosa abitazione.
All’interno l’odore di muffa era piuttosto forte. Sul pavimento si potevano ancora notare le macchie di sangue lasciate dall’omicidio che vi si era perpetrato.
Portatosi nel centro della stanza il mago si concentrò iniziando a salmodiare una strana litania. Le energie magiche risposero prontamente andando a ripescare nel flusso temporale le immagini delle vicende accadute in quel luogo, per poi sovrapporle alla realtà del momento. In questo modo Gilgamesh poté osservare il vecchio prima che la creatura lo uccidesse e scoprire che in quella casa non tutto era come sembrava. Uscito dalla stato di concentrazione necessario per plasmare l’incantesimo si avviò verso una vecchia madia. Con l’aiuto del suo accompagnatore, rimasto per tutto il tempo immobile sulla soglia della casa, spostò il mobile dalla sua posizione originale. La credenza, con grande stupore del borgomastro, nascondeva un’apertura nel pavimento che, mediante una scala di legno, portava in un antro usato dal vecchio per compiere i rituali più complessi dell’antica religione. Gilgamesh scese la scaletta, dopo aver acceso alcune candele, esaminò quel luogo. Tutto era come doveva essere in un laboratorio magico. Vi erano libri, alambicchi, vasi di terracotta contenenti mandragora e belladonna.
Il suo interesse, però, fu subito calamitato dai due anelli disegnati sul ruvido pavimento di pietra. Il primo copriva quasi l’intera superficie della stanza e riportava nella sua corona i simboli, nei tipici linguaggi rituali, di Azazel, Aluquah, Utukku, Shedu e Se’irim. Nel secondo, più piccolo, interno e tangente il primo, erano riportate le parole Mamitu kashshapu Ibacus: sortilegio dello stregone Ibacus. Posizionate sul cerchio interno dell’anello più grande vi erano cinque candele rosse.
Osservando più attentamente, Gilgamesh si rese conto che, tracciando delle linee che univano fra loro le diverse candele si veniva a disegnare un pentacolo, al centro del quale si poteva notare una zona carbonizzata come se vi fosse stato acceso un falò in grado di sprigionare un calore così intenso da poter fondere l’acciaio.
La sua congrega e molte altre avevano proibito ai propri affiliati di erigere simili cerchi. Lo scopo di questi rituali era quello di evocare spiriti e demoni dalle dimensioni attigue alla nostra per poi vincolarli ai voleri del mistico. Come tutti sapevano, questi erano riti estremamente complessi e per compierli occorreva la presenza di un gran numero di maghi. Tutto doveva essere preparato alla perfezione. Il vecchio doveva aver commesso qualche errore nella procedura perdendo così il controllo sulla creatura. Mentre era intento a fare congetture, il suo sguardo vigile cadde all’interno del piccolo anello. Appoggiato su d’un leggio d’osso, vi era un libro rivestito da una robusta pelle marrone. I piatti erano rinforzati negli angoli, tramite inchiodatura, con quattro placche di metallo a forma di mezza luna.
A metà del lato lungo si poteva notare un delicato fermaglio mentre nella parte superiore, fissato ad un anello, partiva una grossa catena che assicurava il libro al leggio.
A quella vista Gilgamesh si sentì pervadere da una grande euforia.
Aveva riconosciuto subito la tipica rilegatura a catena adottata solo negli ultimi tempi dai monasteri e dalle congreghe. Quel tipo di rilegatura, progettata per evitare la sottrazione del volume dai “santuari”, stava ad indicare che l’opera era molto importante e di grande valore. Deciso a portare via con sé il manoscritto, supponendo che al suo interno potesse trovarsi il modo per arrestare quell’essere, il mago improvvisò un incanto che gli permise di staccare la catena dal leggio senza rovinare in alcun modo il lavoro dei maestri legatori.
I due uscirono dalla casa quando ormai il sole aveva oltrepassato lo zenit e si diressero alla magione del feudatario dove avrebbero riposato mente e membra.
Per tutto il pomeriggio Gilgamesh non fece altro che perlustrare il feudo, in cerca di qualche indizio o informazione che lo potesse condurre alla creatura.
Verso sera la sua mente era cosi piena di dubbi, pensieri, concetti frammentari che credette di impazzire. Pur tentando, non riuscì a smettere di pensare a quella macabra storia in cui si era trovato coinvolto.
Cenò, come la sera precedente, in compagnia dei suoi ospiti. Ma al contrario della sera passata nessuno parlava e quindi il pasto prosegui nel più totale silenzio e imbarazzo. Quando la cena finì, tutti gli abitanti del villaggio erano ormai nei loro lettti da parecchio tempo. Tutto era avvolto dal buio di una notte senza luna.
Immerso in un innaturale silenzio. Ricordando che la creatura era apparsa sempre nelle ore notturne, Gilgamesh decise di perlustrare la zona interna alle mura in compagnia di Eladrin, la cui paura era stata messa a tacere dalla voglia di conoscenza.
Quando i due, sconsolati dall’infruttuosità delle ricerche, tornarono alla casa il giorno era ormai vicino.
Lasciata Eladrin nel corridoio che portava nella zona in cui dormivano le figlie del padrone di casa, Gilgamesh, stanco per la pesante giornata, andò nella sua stanza. Non appena fu dentro accese alcune candele e, dopo essersi tolto il suo lungo manto nero dall’interno bianco e averlo sistemato su di una sedia al fianco del letto, si sdraiò.
Il silenzio permeava ogni angolo della stanza e neppure dall’esterno si percepiva alcun tipo di rumore.
D’improvviso però qualcosa mutò. Si poteva sentire una distorsione delle energie magiche insite nella realtà, come se qualcuno stesse distorcendo lo spazio creando una specie di passaggio dimensionale. Senza neanche dargli il tempo per focalizzare i propri pensieri, la creatura gli fu addosso.
Era enorme. Un’ombra, senza occhi ne naso con un’unica apertura, all’altezza della bocca dalla quale penzolava una lunga lingua bavosa.
“Ora il tuo guscio è mio giovane mago. Annienterò il tuo spirito e userò il tuo corpo per muovermi liberamente nel tuo mondo”.
Il demone impose le sue lunghe mani sulla testa di Gilgamesh che percepì immediatamente una enorme pressione mentale.
La pressione aumentava. Sentiva il suo spirito che piano piano scivolava via mentre quello della creatura prendeva il suo posto. La sua mente era in continua espansione nel vano tentativo di imporsi su quella dell’essere. I suoi pensieri vorticavano nella ricerca di un modo per liberarsi da quella presa mentale. Di colpo come se fosse stato illuminato da una suprema conoscenza capì ciò che doveva fare.
Eliminò ogni resistenza mentale e focalizzò tutto il suo io e tutte le sue energie in un unico, complesso, pensiero.
La creatura si trovò per un attimo spiazzata dalla mancanza di resistenza che fino ad allora l’aveva tenuta in scacco. Ormai era un tutt’uno col corpo del mago, riusciva già a percepire gli odori le sensazioni tattili e le emozioni. Quanto erano intense le emozioni di quel mago in quel momento. Odio, paura, angoscia. Tutto si mischiava in un caleidoscopio di percezioni completamente nuove per quell’essere. Era vivo. Mortale. Si sentiva euforico, anche se non ne comprendeva il significato.
Aveva vinto e nulla lo avrebbe più fermato dal raggiungere il suo scopo.
“Finalmente sei mio!” gridò.
Ma l’essere s’ingannava.
Appena prima che lo spirito della creatura entrasse nel corpo di Gilgamesh questi lasciò scorrere in un unico incanto le energie trattenute. L’essere si ritrovò avvolto da una potente magia che iniziò ad allontanarlo dall’incantatore. Solo allora comprese che ciò che aveva percepito non era altro che una semplice illusione, un inganno perpetrato alla sua mente dalla grande forza di volontà del mistico.
Ma ormai era troppo tardi. L’incantesimo stava disperdendo l’energia che manteneva unite fra loro le particelle di materia reale che formavano il suo corpo.
“Maledetto! Mi hai ingannato!”
“Ritornerò con un corpo di carne e allora vedremo chi di noi sarà il più forte!”
Uno scoppio di luce e poi il silenzio.
Nella stanza tutto era tornato alla normalità. L’unico segno visibile, a testimonianza di ciò che era avvenuto, era una bruciatura sul pavimento nel punto in cui il demone era sparito. Gilgamesh, ancora scosso dallo scontro, non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto resistere ad un essere così forte. Sapeva che lo avrebbe rincontrato un giorno, e che in quel giorno il libro ritrovato nel laboratorio di Ibacus sarebbe stato la sua unica salvezza.
Lui non era mai arretrato innanzi ad un nemico e anche questa volta avrebbe aspettato la sua comparsa, armato della più sottile conoscenza.
AUTORI - SIMONE
Il cuore palpitava impazzito. I suoi occhi indagatori si muovevano in modo frenetico cercando, nel buio opprimente che lo avvolgeva, qualcosa di famigliare su cui poter far convergere la propria insicurezza ed esorcizzare quella tremenda visione.
Luce; aveva bisogno di luce.
La desiderava e questo bastò a far si che nel centro della stanza si concentrasse un piccolo globo luminoso che, sprigionando una pura ma intensa luce, eliminò ogni traccia di oscurità.
Gilgamesh non comprendeva. Tutto appariva alla sua mente molto confuso.
L’incubo della sua infanzia era tornato a tormentare le sue notti.
Perché proprio ora?
Che fosse connesso agli strani avvenimenti su cui era stato chiamato a indagare?
Far supposizioni era inutile. La soluzione si sarebbe presentata solo riesaminando, in modo analitico, le informazioni ricavate fino a quel momento.
Al suo arrivo in compagnia di Eladrin, una giovane menestrello, tutto sembrava svolgersi nella più assoluta normalità. Alcuni abitanti del feudo, caricati dei loro attrezzi da lavoro e di qualche provvista, si recavano nei campi per rimanervi fino a poco prima del tramonto. Le botteghe, che si ergevano intorno alla Chiesa, erano nel pieno delle loro attività produttive. Le donne, intente a parlottare fra di loro, procedevano serene verso la zona dei laboratori, nella quale agli uomini era vietato l’accesso.
Nei volti della gente però si intravedeva qualcosa di anomalo; una paura che incombeva sulle loro piccole menti e alla quale non riuscivano a dare una spiegazione plausibile. Anomalia questa rafforzata dal fatto che, per il feudo, si aggiravano parecchi monaci, tutti indaffarati nella cerca di chissà quale nemico.
Giunti dal borgomastro, un uomo ormai non più nel fiore degli anni ma dallo spirito ancora molto forte, i due vennero accolti con tutti gli onori dovuti a degli ospiti del loro retaggio. L’uomo assegnò loro due piccole stanze all’interno della sua abitazione e li invitò alla sua mensa per il pasto serale. Fu proprio in quell’occasione che Gilgamesh e la sua compagna vennero a conoscenza del motivo per cui erano stati mandati a indagare in quel villaggio sperduto fra i monti.
Ma procediamo per gradi.
Visto che i due avevano a disposizione tutto il pomeriggio decisero di mettersi subito al lavoro raccogliendo alcune indiscrezione dagli abitanti. Gilgamesh parlò con gli artigiani mentre Eladrin interrogò le donne nella zona dei laboratori. Quando, prima della cena, si scambiarono le informazioni ottenute si accorsero che molte di esse erano simili. Nel complesso si potevano riassumere tutti gli eventi, avvenuti fino a quel momento, attraverso un paio di fatti piuttosto macabri; il concepimento di esseri umanoidi deformi e una serie di morti inspiegabili e particolarmente violente.
Ma fu la cena, come avevo già anticipato, ad essere veramente rivelatoria.
Tutti i commensali erano seduti ad una grande tavola rettangolare di quercia.
Ai due capi della tavola sedevano Gilgamesh e il padrone di casa mentre ai lati invece, dove erano state predisposte due sedie per parte, stavano le tre giovani figlie del nostro ospite e la delicata Eladrin che, come d’abitudine, non si presentava mai ad un banchetto senza essere accompagnata dalla sua fedele e adorata lira.
La tavola, riccamente imbandita, era stata preparata con scrupolosa attenzione. Grandi vassoi di peltro mettevano in bella mostra svariati tipi di cacciagione cucinata nei modi più disparati. L’odore delle spezie e del pane caldo riempiva l’aria.
I bicchieri erano già stati riempiti con un forte vino dal dolce profumo e dall’intenso color carminio. Semplici candelabri di ferro battuto illuminavano la modesta sala.
Le danzanti fiamme delle candele davano a quel luogo un aspetto misterioso che si andò ad accentura durante la serata.
La cena procedette in piena serenità, tra un bicchiere di vino e un cosciotto di cinghiale alle erbe, fino a quando Gilgamesh non decise che era venuto il momento di chiarire ciò che aveva scoperto quel pomeriggio. Non appena il mago entrò in argomento, le facce degli ospiti, che fino a poco prima erano felici e sorridenti, si oscurarono improvvisamente. Subito non capì il perché di un tale e repentino cambiamento; poi tutto si chiarì nel momento in cui una delle tre figlie del borgomastro, con un pianto represso, si alzò da tavola e correndo si rifugiò nella sua stanze da letto.
A detta del padre, poche sere prima, la giovane era stata violentata da un essere che la ragazza aveva descritto come un eterea creatura di natura tutt’altro che umana.
Mentre raccontava queste cose l’uomo si segnava continuamente come se temesse che le sue parole potessero richiamare qualcosa di antico.
La ragazza fece ritorno a casa con le vesti lacere, e subito il padre pensò che fosse stata vittima di qualche contadino che, in preda ai vapori del vino, avesse perso la ragione. Invece la serva, che per prima si prese cura della ragazza, gli riferì che i seni e i fianchi della fanciulla portavano evidenti segni di graffi, molto simili a quelli lasciati dagli orsi sulla corteccia degli alberi per segnare il loro territorio. Perdipiù, sempre secondo la serva, nella parte interna delle gambe, in prossimità del pube, vi erano delle lesioni che potevano essere state fatte solo col fuoco.
Il ricordo di quelle parole strappò Gilgamesh alle sue riflessioni.
Il mago sentì l’ansia imposessarsi del suo animo.
Solo ora riusciva a intuire un qualche collegamento fra il suo sogno e gli eventi che avevano come protagonista la figlia del feudatario. L’essere di cui nessuno aveva mai visto l’aspetto era lo stesso che lo perseguitava fin da ragazzo.
Lo stesso che, secondo il suo mentore, lo aveva aggredito quella notte di vent’anni prima. Il ricordo era ancora vivido nella sua mente. Era riuscito a sottrarsi a quell’essere per pura fortuna rifugiandosi in un anfratto situato alle spalle di una piccola cascata.
In quell’occasione aveva riportato una lieve ferita alla spalla che, a causa della sua natura magica, era refrattaria a qualsiasi tipo di incantesimo curativo.
“La ferita! Ecco la prova!”
Con un rapido gesto della mano sinistra, in uno stato di agitazione crescente, Gilgamesh si sollevò la manica dalla maglia mettendo a nudo la spalla. Ciò che vide lo fece riflettere e nel contempo confermò le sue ipotesi. Dalla cicatrice, rimarginata perfettamente ormai da tempo, fuoriusciva un leggero rivolo di sangue che prese a strisciare, come un piccolo serpentello, lungo il braccio scoperto.
La sua mente si concentrò sulla ferita e questa smise immediatamente di sanguinare.
“Tu sei il più adatto a questo compito” gli avevano detto gli anziani della confraternita quando gli affidaro l’incarico.
Evidentemente erano già a conoscenza di ciò che stava avvenendo in quel luogo e di come lui vi fosse legato.
Gilgamesh però non si spiegava il perché lo avessero tenuto all’oscuro di tutto.
Che avessero voluto metterlo alla prova facendogli affrontare le sue paure?
Si arrovellò un po’ su questa cosa cercando di darsi una motivazione plausibile, ma poi accantonò il pensiero decidendo che al suo ritorno avrebbe chiesto chiarimenti.
Ora l’importante era riposare. Lo attendeva un’intensa giornata di ricerche e doveva essere nel pieno delle proprie facoltà mentali se voleva sbrogliare, al più presto, la matassa che legava assieme tutti quei delitti.
*******
Il sole, caldo, risvegliava la terra ancora addormentata sotto una coltre di rugiada.
La leggera brezza mattutina che filtrava dalle imposte semi aperte, svegliò dolcemente Gilgamesh che, in poco tempo, si preparò ed uscì dalla stanza. Aprì la porta della camera e dietro vi trovò Eladrin, in procinto di bussare. La ragazza col il viso arrossato e le lacrime agli occhi gli fece segno di seguirlo invitandolo ad affrettarsi.
All’esterno molti degli abitanti del feudo si erano ammassati intorno alla casa del maniscalco, dalla quale provenivano grida di disperazione. L’abitazione, piuttosto grande rispetto alle altre, era formata da una parte di pietra dove viveva l’artigiano con la moglie e da un’altra, in legno, adibita a stalla e fucina.
All’interno di quest’ultima Gilgamesh intravide il borgomastro che, con una mano alla bocca, gesticolava nella sua direzione.
Facendosi largo tra la folla, senza dare il tempo ai suoi occhi di cogliere tutti i particolari della scena, il Mago si portò all’ingresso della stalla.
Non appena oltrepassò la soglia il suo olfatto fu colpito violentemente da un intenso odore di escrementi misto a sangue e poco ci mancò che il suo stomaco lo abbandonasse.
Appeso ad un trave della stalla, come un semplice quarto di bue, vi era la parte inferiore di un uomo. Il busto era stato posto sotto di essa. Come in una grottesca messa in scena teatrale la testa era orientata in modo tale da poter osservare il proprio bacino dilaniato e le interiora pendere ormai prive di vita.
Ripresosi dallo turbamento iniziale, Gilgamesh incominciò a osservare la scena.
Il suo occhio vigile notò subito che, mimetizzate con la paglia e la polvere presenti nella stanza, vi erano tracce di sangue che portavano in fondo alla stanza verso una porta di legno.
Con circospezione si avvicinò e l’aprì lentamente.
I segni all’interno della casa erano più nitidi e non sembravano casuali ma, ben delineate, quasi come se qualcuno avesse voluto indicare una strada da seguire ai soccorritori.
Avanzando Gilgamesh si ritrovò al cospetto di un altro efferato delitto.
Questa volta si trattava di una donna; la moglie del maniscalco.
La trovò stesa sul suo letto, completamente nuda.
Il suo corpo, al contrario del marito, non presentava segni di lacerazioni.
Ad un primo sguardo sembrava esser morta nel sonno.
Eppure, quella scena di apparente normalità, era resa grottesca da un particolare alquanto inquietante.
Sul corpo della vittima vi era una lunga ustione che partiva da sotto il mento e si snodava lungo tutto il corpo fino alla zona pubica.
Sembrava che una grossa lumaca, strisciandole sul ventre, l’avesse ustionata.
Solo dopo aver esaminato la donna, Gilgamesh, si accorse che sulla parete alla sua sinistra vi era una scritta.
La lingua usata era il latino, e l’iscrizione diceva :_ Una volta mi fuggisti. Per te ora non vi è più scampo. Tu pensi di essere il cacciatore ma non ti sei ancora reso conto di essere la preda.
La scritta riuscì solo ad irritarlo. Si sentiva ferito nell’orgoglio e questo riempiva il suo animo di rabbia.
“Il primo! Devo sapere chi è stato il primo a morire!” questo uscì dalla bocca di Gilgamesh non appena abbandonata la casa del maniscalco, in preda all'ira, vide il capovillaggio nell’aia che coordinava un gruppo di contadini intenti a deporre ciò che rimaneva delle spoglie dell’artigiano in un carretto.
L’imposizione cosi secca e decisa spiazzò per un attimo l’amministratore.
Il mago, nei suoi abiti di cuoio nero, non gli era mai apparso così imponente e rigoroso come in quel momento.
Quegli occhi scuri, inflessibili, che lo fissavano carichi di cieco odio spaventarono il pover uomo che frappose subito alcuni metri tra se e il suo interlocutore.
“Ebbene! Sto aspettando!”
“Subito mio Lord, glielo mostrerò immediatamente” così dicendo il borgomastro, ancora intimorito, accompagnò Gilgamesh ad una piccola casa in legno isolata da tutte le altre.
“Questa era la casa del vecchio Ibacus. L’ultimo prete della vecchia fede che ancora si poteva trovare nella zona circostante”.
Senza neanche ascoltare l’ultima affermazione dell’uomo, Gilgamesh si fece largo nella polverosa abitazione.
All’interno l’odore di muffa era piuttosto forte. Sul pavimento si potevano ancora notare le macchie di sangue lasciate dall’omicidio che vi si era perpetrato.
Portatosi nel centro della stanza il mago si concentrò iniziando a salmodiare una strana litania. Le energie magiche risposero prontamente andando a ripescare nel flusso temporale le immagini delle vicende accadute in quel luogo, per poi sovrapporle alla realtà del momento. In questo modo Gilgamesh poté osservare il vecchio prima che la creatura lo uccidesse e scoprire che in quella casa non tutto era come sembrava. Uscito dalla stato di concentrazione necessario per plasmare l’incantesimo si avviò verso una vecchia madia. Con l’aiuto del suo accompagnatore, rimasto per tutto il tempo immobile sulla soglia della casa, spostò il mobile dalla sua posizione originale. La credenza, con grande stupore del borgomastro, nascondeva un’apertura nel pavimento che, mediante una scala di legno, portava in un antro usato dal vecchio per compiere i rituali più complessi dell’antica religione. Gilgamesh scese la scaletta, dopo aver acceso alcune candele, esaminò quel luogo. Tutto era come doveva essere in un laboratorio magico. Vi erano libri, alambicchi, vasi di terracotta contenenti mandragora e belladonna.
Il suo interesse, però, fu subito calamitato dai due anelli disegnati sul ruvido pavimento di pietra. Il primo copriva quasi l’intera superficie della stanza e riportava nella sua corona i simboli, nei tipici linguaggi rituali, di Azazel, Aluquah, Utukku, Shedu e Se’irim. Nel secondo, più piccolo, interno e tangente il primo, erano riportate le parole Mamitu kashshapu Ibacus: sortilegio dello stregone Ibacus. Posizionate sul cerchio interno dell’anello più grande vi erano cinque candele rosse.
Osservando più attentamente, Gilgamesh si rese conto che, tracciando delle linee che univano fra loro le diverse candele si veniva a disegnare un pentacolo, al centro del quale si poteva notare una zona carbonizzata come se vi fosse stato acceso un falò in grado di sprigionare un calore così intenso da poter fondere l’acciaio.
La sua congrega e molte altre avevano proibito ai propri affiliati di erigere simili cerchi. Lo scopo di questi rituali era quello di evocare spiriti e demoni dalle dimensioni attigue alla nostra per poi vincolarli ai voleri del mistico. Come tutti sapevano, questi erano riti estremamente complessi e per compierli occorreva la presenza di un gran numero di maghi. Tutto doveva essere preparato alla perfezione. Il vecchio doveva aver commesso qualche errore nella procedura perdendo così il controllo sulla creatura. Mentre era intento a fare congetture, il suo sguardo vigile cadde all’interno del piccolo anello. Appoggiato su d’un leggio d’osso, vi era un libro rivestito da una robusta pelle marrone. I piatti erano rinforzati negli angoli, tramite inchiodatura, con quattro placche di metallo a forma di mezza luna.
A metà del lato lungo si poteva notare un delicato fermaglio mentre nella parte superiore, fissato ad un anello, partiva una grossa catena che assicurava il libro al leggio.
A quella vista Gilgamesh si sentì pervadere da una grande euforia.
Aveva riconosciuto subito la tipica rilegatura a catena adottata solo negli ultimi tempi dai monasteri e dalle congreghe. Quel tipo di rilegatura, progettata per evitare la sottrazione del volume dai “santuari”, stava ad indicare che l’opera era molto importante e di grande valore. Deciso a portare via con sé il manoscritto, supponendo che al suo interno potesse trovarsi il modo per arrestare quell’essere, il mago improvvisò un incanto che gli permise di staccare la catena dal leggio senza rovinare in alcun modo il lavoro dei maestri legatori.
I due uscirono dalla casa quando ormai il sole aveva oltrepassato lo zenit e si diressero alla magione del feudatario dove avrebbero riposato mente e membra.
Per tutto il pomeriggio Gilgamesh non fece altro che perlustrare il feudo, in cerca di qualche indizio o informazione che lo potesse condurre alla creatura.
Verso sera la sua mente era cosi piena di dubbi, pensieri, concetti frammentari che credette di impazzire. Pur tentando, non riuscì a smettere di pensare a quella macabra storia in cui si era trovato coinvolto.
Cenò, come la sera precedente, in compagnia dei suoi ospiti. Ma al contrario della sera passata nessuno parlava e quindi il pasto prosegui nel più totale silenzio e imbarazzo. Quando la cena finì, tutti gli abitanti del villaggio erano ormai nei loro lettti da parecchio tempo. Tutto era avvolto dal buio di una notte senza luna.
Immerso in un innaturale silenzio. Ricordando che la creatura era apparsa sempre nelle ore notturne, Gilgamesh decise di perlustrare la zona interna alle mura in compagnia di Eladrin, la cui paura era stata messa a tacere dalla voglia di conoscenza.
Quando i due, sconsolati dall’infruttuosità delle ricerche, tornarono alla casa il giorno era ormai vicino.
Lasciata Eladrin nel corridoio che portava nella zona in cui dormivano le figlie del padrone di casa, Gilgamesh, stanco per la pesante giornata, andò nella sua stanza. Non appena fu dentro accese alcune candele e, dopo essersi tolto il suo lungo manto nero dall’interno bianco e averlo sistemato su di una sedia al fianco del letto, si sdraiò.
Il silenzio permeava ogni angolo della stanza e neppure dall’esterno si percepiva alcun tipo di rumore.
D’improvviso però qualcosa mutò. Si poteva sentire una distorsione delle energie magiche insite nella realtà, come se qualcuno stesse distorcendo lo spazio creando una specie di passaggio dimensionale. Senza neanche dargli il tempo per focalizzare i propri pensieri, la creatura gli fu addosso.
Era enorme. Un’ombra, senza occhi ne naso con un’unica apertura, all’altezza della bocca dalla quale penzolava una lunga lingua bavosa.
“Ora il tuo guscio è mio giovane mago. Annienterò il tuo spirito e userò il tuo corpo per muovermi liberamente nel tuo mondo”.
Il demone impose le sue lunghe mani sulla testa di Gilgamesh che percepì immediatamente una enorme pressione mentale.
La pressione aumentava. Sentiva il suo spirito che piano piano scivolava via mentre quello della creatura prendeva il suo posto. La sua mente era in continua espansione nel vano tentativo di imporsi su quella dell’essere. I suoi pensieri vorticavano nella ricerca di un modo per liberarsi da quella presa mentale. Di colpo come se fosse stato illuminato da una suprema conoscenza capì ciò che doveva fare.
Eliminò ogni resistenza mentale e focalizzò tutto il suo io e tutte le sue energie in un unico, complesso, pensiero.
La creatura si trovò per un attimo spiazzata dalla mancanza di resistenza che fino ad allora l’aveva tenuta in scacco. Ormai era un tutt’uno col corpo del mago, riusciva già a percepire gli odori le sensazioni tattili e le emozioni. Quanto erano intense le emozioni di quel mago in quel momento. Odio, paura, angoscia. Tutto si mischiava in un caleidoscopio di percezioni completamente nuove per quell’essere. Era vivo. Mortale. Si sentiva euforico, anche se non ne comprendeva il significato.
Aveva vinto e nulla lo avrebbe più fermato dal raggiungere il suo scopo.
“Finalmente sei mio!” gridò.
Ma l’essere s’ingannava.
Appena prima che lo spirito della creatura entrasse nel corpo di Gilgamesh questi lasciò scorrere in un unico incanto le energie trattenute. L’essere si ritrovò avvolto da una potente magia che iniziò ad allontanarlo dall’incantatore. Solo allora comprese che ciò che aveva percepito non era altro che una semplice illusione, un inganno perpetrato alla sua mente dalla grande forza di volontà del mistico.
Ma ormai era troppo tardi. L’incantesimo stava disperdendo l’energia che manteneva unite fra loro le particelle di materia reale che formavano il suo corpo.
“Maledetto! Mi hai ingannato!”
“Ritornerò con un corpo di carne e allora vedremo chi di noi sarà il più forte!”
Uno scoppio di luce e poi il silenzio.
Nella stanza tutto era tornato alla normalità. L’unico segno visibile, a testimonianza di ciò che era avvenuto, era una bruciatura sul pavimento nel punto in cui il demone era sparito. Gilgamesh, ancora scosso dallo scontro, non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto resistere ad un essere così forte. Sapeva che lo avrebbe rincontrato un giorno, e che in quel giorno il libro ritrovato nel laboratorio di Ibacus sarebbe stato la sua unica salvezza.
Lui non era mai arretrato innanzi ad un nemico e anche questa volta avrebbe aspettato la sua comparsa, armato della più sottile conoscenza.
AUTORI - SIMONE
7 commenti:
Bel fantasy. Pensi di cimentarti in una serie di racconti sul protagonista? O vuoi partire con un romanzo?
Sinceramente su questo PG non ho fatto progetti.
Adesso sto scrivendo un romanzo di cappa e spada.
Magari dopo potrei provarci! ;-)
Bella anche l'idea di più racconti su di lui!
Simo
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Come see it if you get time.
Stilisticamente sembra quasi un altro racconto. L'unica cosa è che forse patisce un po' la struttura da avventura di AD&D, nel senso che lo rende un po' schematico. E poi specialmente noi maschietti vorremmo saperne molto di più su Elandrin, quindi vedi di tirar fuori il seguito...
Ti ringrazio per il commento sullo stile... questo mi fa sperare di non essere rimasto fermo a sette mesi fa.
Per il resto che dire... si in effetti a livello di trama è un "canalone".
Penserò anche a una nuova avventura visto che i PG sembrano esser piaciuti! ;-)
Il racconto non è male, anzi, direi che si legge con piacere, potresti magari migliorare un po' il ritmo dei dialoghi e caratterizzare meglio i personaggi secondari.
Quel che mi incuriosisce è cosa ti ha portato a dare il "mio" nome ad un giovane mago :o)
Hai frequentato qualche M.U.D. italiano, oltre che ispirarti ad AD&D?
Conosci l'epopea sumera e quella paleobabilonese?
Ciao Gilgamesh
Ti rispondo un po' in ritardo causa assenza dall'italia! ;-)
Allora Quello che hai letto è un racconto tratto da una avventura di Ars Magica... Sono un giocatore di ruolo da ormai 15 anni ma non ho mai giocato a AD&D!
Questa è anche una parte della storia di un mio Personaggio di Vampire, chiaramente Tremere ;-)
Si ho letto entrambe le Epopee e devo dire che Gilgamesh è un personaggio Mitologico che apprezzo molto
Spero che continuerai a frequetare il nostro Blog!
Hola!
Simo
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