29 dicembre 2006

L’ANTRO PIU’ ANTICO

1
Era notte. Gli alberi si ergevano imponenti, inarcati sulla strada e sull'Argentaroggia che s'inoltravavano improvvisi sotto i loro rami frondosi. I tronchi erano grigi al pallido lume delle stelle e le foglie fremevano con un tocco di giallo maggese. Novilunio si avvicinava e la notte era scura e ventosa. Guardò verso occidente scorgendo l'opprimente profilo delle montagne dove, a poco più di cinque leghe di distanza, si aprivano i cancelli di Moria.
Ainulin il Grigio soppesò la possibilità di entrare Khazad-dum. Quale emozione sarebbe stata poter sondare, primo elfo dopo molte lune, i segreti dell'Abisso. Non aveva, però, tempo; in più gli risuonavano ancora nelle orecchie le parole che la Dama aveva sussurrato, quando era andato ad accomiatarsi da lei, prima di lasciare Lorien.
"Ricorda Celebrimbor e i suoi anelli; ricordati come il Nemico lo ingannò, promettendogli la conoscenza e poi lo uccise. La conoscenza è importante, ma senza saggezza, è la prima catena che ti lega all'ombra"
"Lo so, mia signora. Però per la prima volta dopo quarant'anni ho notizie certe di mio padre. Ti prometto che tornerò in tempo per prendere parte alla battaglia, se Sauron dovesse muoverci guerra"
Lei lo aveva guardato con gli occhi colmi di tristezza, come se fosse sicura che lui non sarebbe tornato.
"So che non puoi fare a meno di andare. Buona fortuna"
Ora lui era accampato poco fuori dal sentiero e stava osservando la sgualcita pergamena che un uomo di Gondor, ucciso dagli orchetti quasi un mese prima, mentre cercava di raggiungere il Bosco d'oro, aveva in una bisaccia. Era morto stringendone l'involucro di legno intarsiato, quasi che il contatto con esso avesse potuto mutare la sua infausta sorte. Era strano come gli uomini fossero in grado di investire semplici oggetti di un'importanza intrinseca totalmente simbolica. Come doveva essere complessa la loro mente, come vuota la loro esistenza, se per riempirla, erano costretti a simili proiezioni mentali. Non era riuscito a sapere chi era quell'uomo né come era venuto in possesso di quel documento. Chissà se egli ne conosceva il contenuto. La pergamena era scritta in elfico antico, con rune vergate da una mano gentile. In parte era iLleggibile ma inequivocabilmente si riferiva al tesoro che suo padre aveva cercato per tutta la vita.

[...] la tomba in fondo alla roccia [...] i servi dell'ombra adoranti [...] Melkor, la cui furia sarà presto [...]

In fondo vi era un appunto scritto in quenya meno arcaico, con il sigillo della famiglia di Ainulin.

"Vieni, o figlio dove l'Abisso è più fondo ed inaccessibile. Io ti aspetterò"

Aveva creduto che suo padre fosse morto, ucciso dalla sua sete di sapere, dal desiderio di salvare la propria gente. Ora aveva una traccia.
Non c'era alcun riferimento preciso al luogo in cui la tomba si trovava, ma Ainulin aveva dalla sua i racconti e le informazioni che per secoli la sua famiglia si era tramandata. Per generazioni la ricerca di quel tesoro, l'unico in grado di offuscare tutte le scoperte e le conoscenze della Terra di Mezzo. Forse questa brama non era degna di un elfo. Questa era l'opinione che molti Priminati avevano della famiglia di Ainulin. Spesso i suoi avi si erano scontrati con i propri simili, ma nessuno era mai riuscito a distoglierli dalla ricerca della verità.
Mangiò il pan di via e si riposò, studiando attentamente le carte in suo possesso. L'Antro più Antico si doveva trovare nascosto da qualche parte nell'enorme sistema di cunicoli in cui era scavata Moria. Essendo un antro più antico della terra stessa (come aveva trovato in un racconto epico elfico, probabilmente la traduzione scritta di un racconto orale risalente alla fine della Prima Era) supponeva che si trovasse nelle zone più profonde di Moria, se i nani, pur scavando tanto da liberare il Flagello di Durin, non lo avevano mai scoperto. Secondo i suoi studi avrebbe dovuto trovare una lapide, alle sorgenti del Nimrodel. Da li sarebbe partito. Più di tutto una cosa lo turbava. "io ti aspetterò", aveva scritto il padre chissà quanti anni prima. Era ancor vivo? O la ricerca gli era stata fatale come a tutti i suoi avi? Come avrebbe voluto poter parlare col portatore della pergamena! Perché la morte aveva tranciato l'unico esile filo che lo univa al padre?
Quando la mezza notte era passata da qualche ora udì dei fruscii nella boscaglia. Si avvolse nel manto elfico e si nascose nella macchia. Il cielo era limpido e il freddo pungente. Sarebbe potuta essere una perfetta serata per cantare e suonare sotto le stelle.
Presto un drapello di orchetti transitò vicino al luogo in cui si era nascosto. Erano cinque. Non facevano il minimo tentativo di nascodere la loro presenza. Evidentemente erano sicuri di non correre rischi e questo poteva significare solo che ce n'erano molti altri. Accantonò quindi l'idea di un attacco a sorpresa. Si risolse a rimanere nascosto. Del resto quella aveva tutta l'aria di una battuta di caccia ed era difficile che a Khazad-dum sapessero di lui. L'Occhio del Nemico era rivolto lontano e la sua mente forse ignorava perfino l'esistenza dell'Antro (o almeno così sperava). Ainulin però sapeva che il Portatore dell'Anello con un gruppo di valorosi stava marciando verso Mordor e si diceva che avrebbe fatto tappa a Lorien. Non era da escludere che gli intrepidi viandanti avessero attraversato le montagne passando per Moria. Questa poteva essere la causa dell'inaspettata attività dei malvagi abitatori delle montagne. A meno che Sauron non avesse accelerato i tempi dell'attacco. Decise di avvicinarsi di più al nemico per cercare di carpirne le intenzioni. Quasi invisile, nella luce lunare, si avvicinò, muovendosi silenzioso come un gatto, tra le fronde. Due orchetti si erano attardati ad osservare delle impronte.
Ainulin era in grado di comprendere, in parte, la loro orrida favella.
"Credo che ormai siano lontani" - disse un grosso orchetto pesantemente armato.
"Comunque non possiamo spingerci troppo vicino a Lorien"
"Ci penseranno gli altri, alla Torre"
"Già. noi abbiamo fatto la nostra parte: lo Stregone ha avuto il fatto suo"
Il gruppetto continuò ad esplorare i dintorni, annusando l'aria come segugi, Ainulin decise che un'attacco era inutile: la Compagnia dell'Anello era già passata e probabilmente il portatore era al sicuro nel Bosco d'oro. L'elfo si mosse facendo attenzione a non fare il minimo rumore, rimanendo sottovento per nascondere ogni possibile odore. Si arrampicò su un'alberò, e li si preparò a trascorrere l'ultima parte della nottata. Quello era il tempo dell'attesa, non della lotta.
Dal suo nascondiglio l'elfo osservò i cinque immondi orchetti raggiungere un gruppo più vasto e risalire il Celebrant verso i Canceli di Moria. Rifletté sulle parole che il grosso orchetto con l'ascia aveva pronunciato poco prima. Lo Stregone non poteva essere che il famoso Gandalf, il membro del Bianco Consiglio. Cosa poteva essergli successo? Nessuna orda di orchetti avrebbe potuto impensierire il portatore di Narya, un solo nome rimbombava miaccioso nella mente di Ainulin: Balrog. Solo il Flagello di Durin sarebbe stato in grado di lottare alla pari con lui, a Moria. Ciò nonostante Ainulin non poteva credere che lo Stregone fosse morto. Lo aveva conosciuto anni prima a Gran Burrone e aveva visto nei suoi occhi la potenza della luce e del fuoco. No. Non poteva essere morto. Intonò sommessamente un antico canto elfico, in quenya. Parlava di Nimrodel ed era molto triste; ben si addiceva al suo stato d'animo. Guardò ad oriente e percepì l'oppressiva potenza dell'ombra che si allungava sulla Terra di Mezzo. Vide, però, anche il piccolo e caldo involucro di luce che era sotto l'influsso di Galadrier.
La mattina Ainulin si mise in movimento molto presto. Era una giornata cupa e il cielo era carico di pioggia. Una leggera nebbiolina avvolgeva gli alberi. Calcolava che ci volesse un'intera giornata per inerpicarsi fino alle sorgenti del Nimrodel. Costeggiò il fiume tenendosi, fin quando potè, al riparo della macchia. Gli orchetti difficilmente sarebbero usciti allo scoperto di giorno ma non erano l'unico pericolo nella zona. Man mano che il sentiero saliva e il fiume diventava sempre più simile a un torrente impetuoso, la vegetazione si diradava. In cielo poteva veder volteggiare qualche rapace. Quando il freddo sole invernale raggiunse la massima altezza nel cielo, l'elfo si fermò e consumò il lembas. Ormai le montagne erano vicine ed opprimenti, con nubi scure ad incoronarne le cime. Ma Khazad-dum era silente e lui decise di affrettare il passo. Dopo un'ora di cammino il suo occhio esperto non potè fare a meno di cogliere le impronte di un essere piccolo di statura, impresse nel terreno sassoso. Portavano fino a una macchia di vegetazone a una trentina di metri dal sentiero. Il fiume ruggiva alle sue spalle mentre lui, impugnando il pugnale di mithril si avvicinava alla vegetazione. Quella lama si accendeva di luce in presenza di orchetti e questa volta era opaca.
A un tratto una creatura bassa e tozza, ingabbiata in una pesante corazza, uscì dalla macchia roteando un'ascia a doppia lama e urlando frasi a dir poco sconce in una lingua che l'elfo aveva imparato in un viaggio ormai dimenticato, con suo padre, ad Erebor.
Un nano.


2
"Pace a te figlio di Aule"
"Non ci sarà pace, finché Khazad-dum non sarà riconquistata; via dalla mia terra, orecchie a punta"
"Sbagli. Piccolo amico - gli rispose con sarcasmo - i Cancelli sono più a nord"
Come punto sul vivo il nano reagì con stizza.
"Vattene. Tutta la montagna è nostra e quello che c'è sepolto. Via traditore dei Naugrin"
"Dimmi il nome di colui che osa frapporsi tra un Noldor e la sua missione!"
"Sono Angruk, figlio di Drain che combatté la battaglia dei Cinque Eserciti, elfo. Ho lasciato il regno sotto la montagna per venire qui e riconquistare Khazad-dum"
"Come puoi riuscire, solo contro le orde di Mordor e il Flagello di During?"
"Presto la mia gente accorrerà al mio richiamo"
"Presto anche la tua gente sarà impegnata contro Sauron, non ci sarà tempo per Moria."
"Khazad-dum non verrà mai dimenticata. Io attenderò la mia gente, tu, elfo tornerai da dove sei venuto"
"Non posso. Ho una missione. La vita di un mio simile e l'onore della mia stirpe dipendono da me. Non fallirò. Per fermarmi dovrai uccidermi."
"Non aspettavo altro invito"
Si lanciò su di lui fendendo l'aria con la pesante ascia. Era agile, nonostante la corazza. Ainulin evitò per un soffio la lama. Doveva pensare velocemente: non voleva uccidere il nano che, pensava, doveva essere uscito di senno. Non poteva però perdere tempo con lui, lì allo scoperto in una zona infestata da lupi ed orchetti. Avrebbe preferito non usare la gemma per non rischiare di mostrare la sua presenza. Non c'era però tempo. Toccò il gioiello scarlatto, che gli stessi orafi autori degli anelli del potere avevano forgiato per un suo avo, e si sentì avvolgere dal suo rassicurante calore. Sentì Angruk gridare "maledetto stregone", poi il nano cadde a terra stordito. Ainulin lo trascinò dietro gli alberi da cui era sbucato. Mentre stava per uscire, i suoi sensi, enormemente potenziati dal potere della gemma, percepirono sette orchetti di pattuglia. Stavano risalendo il sentiero, diretti forse a qualche avamposto, dato che l'ingresso dei Cancelli era molto lontano. Sarebbero arrivati in pochi minuti. Si nascose, tenendo sempre d'occhio il nano, che avrebbe ripreso i sensi entro poco tempo.
Erano grossi orchetti armati fino ai denti. Non mostravano alcuna paura della luce, quindi dovevano essere i temibili Uruk di Sauron, sebbene non gli risultasse ce ne fossero da quelle parti. Si misero a fiutare l'aria come bestie e a scrutare il terreno. Le sue impronte erano molto difficili da individuare, ma quel nano pazzo non aveva fatto nulla per passare inosservato. Notarono subito che c'era qualcosa di strano. Se avessero chiamato rinforzi sarebbe stata la fine. Estrasse l'arco, si concentrò sulla gemma e si preparò a ucciderli. "Un amante della conoscenza non dovrebbe mai ricorrere alla violenza - si disse - ma stavolta non posso farne a meno. Temo che prima di trovare l'Antro più Antico, altre volte dovrò affidarmi alla forza piuttosto che alla ragione: giorni tristi sono questi"
La prima freccia centrò la gola di un orchetto che cadde senza emettere suoni. Poi Ainulin, aiutato dalla gemma, corse come un fulmine appostandosi senza essere visto in una macchia poco più a monte della prima. I sei nemici rimasti si buttarono sul cespuglio urlando e imprecando. Solo allora l'elfo realizzò di aver condannato a morte il nano, inerme nelle braccia del nemico. Si maledisse per la distrazione e scoccò di nuovo; un altro orchetto cadde in una pozza di sangue. Stavolta cambiò posizione più lentamente, in modo da farsi vedere, distogliendo così gli assalitori dal nascondiglio di Angruk. Due nemici gli furono sopra e l'elfo li investì col caldo potere di Talos, la sua gemma scarlatta. I due si consumarono come tizzoni in un camino. A quel punto, però la lama di un altro assalitore lo colpì a una mano. Il dolore fu forte, gli cadde l'arco e si deconcentrò. Il freddo dei monti lo avvolse di nuovo e i due restanti orchetti gli furono sopra. "Valinor, sto arrivando" pensò, prima di udire il feroce grido di battaglia di Angruk, il nano. La testa dell'orchetto che lo aveva ferito e che stava per maciullargli al faccia con la scimitarra, volò a terrà tra schizzi di sangue. L'ultimo orchetto si volse con rabbia verso il nano che parò il colpo con l'ascia; i due si scambiarono alcuni fendenti. Ainulin potè vedere la maestria con cui il nano maneggiava la pesante arma. Poi l'orchetto sbagliò la misura di un'affondo e l'arma del figlio di Drain affondò mortalmente spaccandogli corazza di cuoio e cassa toracica.

3

Molti minuti di salita dopo, Ainulin ruppe il silenzio. "Grazie, Angruk della montagna"
Si era medicato la ferita alla mano con alcune foglie di darsurion. Non era profonda ma faceva male; spesso era costretto a tenere la mano protetta sotto il mantello, per non sentire i venti gelido sulla ferita.
"Quella razza immonda merita di essere sterminata. Poi tu ti sei mostrato valoroso e hai rischiato la vita per distogliere il loro attacco dal mio nascondiglio."
"Perchè, mi stai seguendo?"
"Perché questa montagna appartiene alla mia razza. Io ho giurato sulla tomba di mio padre di custodirla fino a quando mio il popolo verrà per riconquistarla. Non mi piace che uno stranieo, sebbene valoroso, si aggiri per questi sentieri con un oggetto degno di uno stregone. Voglio controllare quello fai. Dimmi, però qual'è il tuo nome?"
"Sono Ainuln, figlio di Lemas. Mio nonno Ainulin il Solitario conobbe Durin il Senzamorte. Devo ritrovare mio padre, o forse la sua tomba, sepolta nell'Antro più Antico, la dove il Nimrodel ha le sue fonti. La troverò la verità e potrò spazzare via dal mio popolo la più grande delle infamie."
"Non so di cosa stai parlando, Ainulin nipote del Solitario. Però ti accompagnerò fino alle sorgenti del fiume. Dove, se le nostre leggende raccontano il vero, si erge una pietra più antica della terra stessa: non voglio lasciarti aggirare impunemente per le gallerie che mi appartengono."

Ormai l'impervio sentiero si era fatto poco più di una traccia tra le rocce brulle; il fiume ruggiva carico di giovane vigoria e la fredda sera invernale stava scendendo a coprire i Monti Brumosi. Il cielo si era annuvolato, né luna né stelle rincuoravano il viandante.
"Sarà una notte buona solo per i Warg" disse Angruk cupo.
"E' meglio cercare un rifugio per la notte"
"Tranquillo, orecchie a punta, questi sono i miei monti. Seguimi."
Lo portò fuori dal sentiero, dove un costone di roccia sporgeva come un grosso dito rivolto al cielo. Sulla sommità, dissimulato da arbusti e sassi, c'era l'ingresso di un cunicolo.
Il nano entrò senza fatica, mentre Ainulin dovette strisciare.
"Voi elfi siete costruiti senza logica: a cosa mai potrà servire essere così alti?"
Ainulin sorvolò sul commento e si accomodò (si fa per dire) sulla dura roccia.
"Come facevi a sapere di questo nascondiglio?"
"Serviva alle carovane di mercanti, come rifugio. In origine c'era una porta di pietre, chiusa da un sortilegio come quello che nel cancello orientale fu inciso da Celebrimbor"
"Dite, amici, ed entrate" - confermò Ainulin.
"Già. Che tempi erano quelli"
"Torneranno. Quando l'ombra sarà sconfitta"
"Troppe piaghe segnano i corpi delle nostre stirpi. L' incomprensione aleggia tra noi. Non sarà facile tornare all'antica amicizia"
L'elfo rimase in silenzio senza rispondere. Quel nano un po' pazzo aveva ragione. In anni di guerre e distruzioni il seme della discordia era attecchito ai quattro angoli della Terra di Mezzo. Non sarebbe stato facile estirparlo.
"Dimmi, Angruk, perché non hai risposto alla mia domanda?"
"Quale?"
"Come hai fatto a scovare questo posto. La porta era ostruita e, a giudicare dalla polvere e dalle ragnatele, questo luogo deve essere abbandonato da decenni."
"Fermo, elfo. Vuoi sapere troppo sulle mie montagne. Ti basti sapere che Angruk non dorme mai all'aperto nella terra dei suoi padri" - abbozzò un sorriso sghembo che si tramutò in una grassa risata che gli fece fremere la monumentale barba.
Ainulin guardò il grosso antro, che una volta doveva essere stato arredato con letti di legno e armadi, forse pieni di provviste. Ora tutto era sfasciato, piatti e botti di birra rotte giacevano in fondo alla stanza. Il camino era ostruito da ragnatele e calcinacci. Vi erano state iscrizioni sulle pareti, ora la maggior parte di esse era illeggibile.
"Anche in questo posto si vede la gloria passata della mia gente" la voce del nano era carica di tristezza.
Angruk estrasse dalla bisaccia carne salata e la offrì all'elfo insieme ad un sorso d'acqua.
"Accetto volentieri l'acqua mio piccolo compagno di viaggio. Spero di non offendere la tua ospitalità se rifiuto la carne secca. Ho con me del pan di via. Permettimi di offrirtelo"
"Il tuo cibo è famoso, orecchie a punta, ma preferisco consumare la mia carne."
Parlarono poco, fuori iniziò a piovere. Un vento gelido penetrava dall'apertura della caverna. Ainulin usò la gemma per scaldare la stanza. Sebbene vedessero entrambi perfettamente al buio la luce rossa del gioiello rassicurava la mente in quel posto isolato e pericoloso.
"Quanto manca alla sorgente?"
"Poco. Lasciami dormire. Noi nani ne abbiamo bisogno. Per mezzogiorno sarai alla tua lapide.

4

L'indomani quando Angruk si svegliò Ainulin era già in piedi. Fuori la pioggia aveva ceduto il passo alla neve. L'elfo tradiva grande preoccupazione.
"Non arriveremo mai alla sorgente, con questa tormenta"
"Chi ti dice che ci arriveremo passando dall'esterno, seguimi"
Lo condusse sul fondo della grotta. Esaminò la parete, finché non trovò una fessura dove introdusse la mano. Dopo un po' si sentì uno schiocco; una porta si aprì nella roccia. Solo allora Ainulin notò il cadavere mezzo mummificato di un uomo, trafitto da una raffica di piccoli dardi.
"Una trappola ben costruita"
"Fatale, per chi non conosce la sublime arte dei suoi costruttori"
La porta si apriva su un cunicolo scavato nella roccia. L'odore di vecchio e di chiuso era penetrante.
"Vado avanti io - disse il nano - questa galleria è antica e probabilmente alcuni punti sono crollati. Ci saranno molte insidie. Metti i piedi esattamente dove li metto io."
La galleria doveva esser sembrata ampia e ariosa ai suoi costruttori ma ad Ainulin mancava l'aria. Scendeva nei meandri della montagna, alternando scale a rampe. La muffa e le ragnatele coprivano le fessure per d'areazione. Il terreno era in vari punti inumidito dalle infiltrazioni d'acqua provenienti dalle nevi disciolte. L'aumento costante dell'umidità e del muschio fece supporre all'elfo che stessero passando nei pressi del corso del fiume.
"Stiamo passando sotto il fiume" - gli disse Angruk - "tra qualche ora saremo sotto le sorgenti".
A un tratto il nano vacillò. Avevano appena imboccato l'ennesima rampa in salita, Ainulin sentì il sordo schiocco di un legno che si stava spezzando. Angruk urlò, mentre la gamba affondava in un'asse marcia del rivestimento del pavimento.
Ainulin fu veloce come un fulmine e prese al volo il nano, issandolo dove l'appoggio era più saldo.
"Non è possibile, le assi di legno servivano solo per rendere meno scosceso il terreno: sotto deve esserci la roccia."
"Aspetta" - Ainulin si era affacciato sul buco dove il suo piccolo compagno aveva rischiato di cadere. La sua vista elfica, aiutata dal potere della pietra, gli mostrò un'enorme caverna naturale, dove un lago sotterraneo dormiva un sonno indisturbato da anni. In mezzo al lago vi era una grande colonna di roccia che si ergeva verso il soffitto a volta della caverna. L'elfo lanciò un sasso che toccò terra dopo parecchi secondi. - "E' un passaggio segreto"
Anche Angruk si era avvicinato. - "Impossibile: nessuna leggenda parla di un posto simile. Sembra quasi un tempio"
"Ci sono poteri più antichi della stessa Terra di Mezzo"
"Vuoi scendere, vero?"
"Puoi scommetterci. Non so se sia questo l'Antico Abisso, ma sicuramente Ainulin il Grigio non lascerà la tua montagna prima di aver esplorato questa caverna"
"E tuo padre?"
"Mi ucciderebbe se sapesse che il mio interesse personale ha avuto il sopravvento sulla ricerca della verità"
"Strana stirpe di elfi, la tua"
"Mi aiuterai?"
"Certo. Non posso permettere che esista una galleria inesplorata in questa montagna" stavolta il nano rise fragorosamente.
Angruk prese il piccone e ingrandì il passaggio. Poi si consultarono su come fare a scendere.
"E' troppo alta e non si vede bene se la parete offre appigli"
"Non possono aver messo un passaggio segreto, senza che ci fosse la possibilità di scendere"
"Non un passaggio segreto. Secondo me la galleria aveva una specie di doppio fondo, guarda"
In effetti il foro che avevano provocato aveva aperto la sezione di un condotto. Le assi di legno erano posizionate a una spanna dall'antico fondo a u della grotta, sorrette da mattoni posizionati ad intervalli regolari; questo creava una sorta di tubo, forse uno scarico per l'acqua. Ciò avrebbe potuto spiegare lo stato di marciume e l'umidità del pavimento. Evidentemente chi aveva scavato la galleria non si era accorto che la roccia, su cui poggiava il pavimento di legno, era molto sottile. Il tempo l'aveva fatta cedere in più punti.
"Strano. Sembra che l'intera grotta sia sul punto di implodere su se stessa"
"Forse il soffitto non è naturale. E forse è antichissimo"
"Questo non risolve il problema: come si fa a scendere?"
"Questo condotto è troppo grossolano per essere opera nostra. Queste gallerie non le abbiamo scavate noi, quindi se quello è un tempio, da qualche parte avrà un'entrata. Secondo me, basta cercare di avvicinarsi a quella grande colonna di roccia: che io non sia più un minatore se quella cosa non è artificiale"
"Hai ragione. Ma come facciamo"
"Seguimi"
Angruk partì come un razzo, quasi che l'emozione della scoperta avesse spento in lui ogni prudenza. Batteva con l'ascia la roccia, ascoltando con l'orecchio ogni suono strano. Ad un tratto inciampò e cadde fragorosamente a terra in un concerto di imprecazioni e rumori di ferro contro la pietra.
"Ormai anche Sauron avrà sentito il baccano che fai" disse l'elfo, non riuscendo a trattenere un sorriso.
"Taci, orecchie lunghe. E aiutami: guarda."
Ainulin rimase sbigottito. Il nano reggeva un frammento di manto elfico; era lacero ma l'elfo sentiva che si trattava della prima prova evidente del passaggio di suo padre.
"E' sua. Lo sento"
"Di tuo padre?"
"Si"
"Come fai ad essere così sicuro?"
"Lo so."
"Tuo padre non poteva conoscere l'ingresso di questo cunicolo alle sorgenti del fiume. Potrà aver trovato al massimo la stele; l'ingresso è troppo ben celato."
"Non sottovalutare....aspetta. Proseguendo per questa galleria si arriva alle sorgenti del fiume, e alla lapide di cui mi parlavi?"
"Si"
"La lapide parla dell' Antro più Antico?"
"Dice qualcosa in proposito, se quello che dicono i bardi è vero"
"E' molto lontana?"
"No. Un'ora, forse meno, dipende dal tuo passo. Dovremo salire, passare sotto il corso del fiume altre due volte, la galleria piega all'interno, qui siamo ancora verso il bordo della montagna..."
Angruk si arrestò, come folgorato "Ora ho capito dove vuoi andare a parare. La stele può ben essere la punta emergente di quella colonna di roccia. La posizione può coincidere, più o meno."
"Presto. Portami alle fonti del Nimrodel"
Accelerarono il passo. La galleria ormai risaliva con costanza e Ainulin poteva quasi percepire la fragranza dell'aria pulita che veniva dall'esterno; presto avrebbe lasciato il freddo buio della caverna, presto sarebbe riemerso alla luce del sole. Oh sole che rischiari la Terra di Mezzo, perla di questo cielo che molti elfi preferirono a quello di Valinor.
L'attacco giunse quando ormai potevano udire distintamente il forte srosciare del fiume sopra di loro.
"Ci siamo quasi" aveva urlato Angruk prima di essere investito da una grossa ombra scura.
Troll.
Possibile che ce ne fossero in quella zona? Ainulin non si permise il lusso di pensare un secondo di più e usò la pietra.
Il gioiello rimase inerte nelle sue mani.
"No!"
Sentì il nano urlare di sfida, mentre teneva a bada il mostro, roteando l'ascia minacciosamente.
Ainulin, ancora stordito dalla sorpresa per il fallimento del suo incantesimo, si gettò su quella creatura; affondò il pugnale, ma colpì il nulla. La lama si sciolse e un gelido formicolio avvinghiò il suo braccio.
Spettro.
Una grossa mano informe cadde sull'elmo di Angruk, fracassandolo. Il nano cadde a terra urlando e vomitando sangue. Ainulin fu sfiorato da quell'essere e sentì il freddo pervadergli il corpo. Il torpore lo avvolse e la vista si appannò. Pensò alla splendida Lorien e all'elfa che aveva sempre amato. Narmroel, tanto simile nel nome alla Nimrodel dell'antica ballata. Come questa, anche lei triste, in attesa del ritorno del suo promesso. "Mi spiace di averti abbandonata, non avevo scelta; perdonami"

5

Le stelle si alternavano al sole in un infinito rincorrersi. Aveva sete e freddo e caldo insieme. Non sapeva dov'era; era ramingo nella sua stessa mente. Ricordi mozzati si accavallavano tra loro; quasi un secolo di vita speso ad inseguire la verità, gli ribolliva nell'anima come un torrente in piena. Non seppe mai quante volte riprese i sensi e quante li perse. A volte gli sembrava di non potersi muovere, quasi braccia e gambe non gli appartenessero più. In altri momenti si sentiva leggero, pronto a volare con gli uccelli. La sua anima era tormentata da un gelido demone; una sola sicurezza c'era nel delirio: era ancora vivo, se di vita si poteva parlare, in quella prigione d'ombra...

...O come era lontana la luce! Dove era finito? Sembrava che il mondo si fosse fermato, nulla aveva una forma. Il dolore si era attenuato, la sete era meno opprimente. Forse qualcuno gli aveva dato da bere, ma chi? Il nano, come si chiamava? Chissà se stava bene.
O Narmroel, luce dei miei occhi, non ti rivedrò più!...

I momenti di veglia si erano fatti più lunghi. A volte riusciva a concentrarsi sul luogo dove si trovava; poi però dimenticava ciò che stava vedendo. Di sicuro c'era qualcuno con lui. Una figura alta ma ricurva, avvolta da un mantello grigio e con un cappuccio in testa.
"Bevi. Ci vorrà ancora un po', ma ne stai uscendo" Gli sembrava di conoscere la voce. Avrebbe voluto chiedere qualcosa al suo compagno ma la gola arsa da un fuoco freddo era incapace di emettere suoni.
Un giorno, chissà quale, riuscì ad alzarsi a sedere e a rimanere sveglio.
Si trovava in un rifugio costruito su un albero. Sotto di lui il Nimrodel era poco più di un ruscello. Il suo ospite si aggirava furtivo per gli aridi sentieri sottostanti...

"Stai meglio, vedo" la voce dell'umanoide incappucciato era ferma ma dolce.
"Chi sei?"
"Bevi"
L'infuso sapeva di erbe e lo fece piombare di nuovo in un sonno più calmo ma ugualmente popolato di incubi. In uno di questi il nano Angruk veniva divorato da un essere più nero della notte e lui, Ainulin, tentava di strapparlo dalle bavose fauci dell'animale; alla fine gli restava in mano solo la testa sfigurata del malcapitato, che lo apostrofava "Orecchie a punta, presto ci rincontreremo, nello stomaco della bestia"
Si svegliò del tutto dopo l'ennesimo incubo. In cielo una leggera foschia velava le stelle. L'aria invernale era gelida. L'incappucciato vegliava avvolto nel mantello grigio, quasi indistinguibile tra le foglie.
"Questo albero" - iniziò quasi parlando tra se - "è l'unico così grande che cresce a questa altezza. Si dice che Eru in persona lo piantò, per dimostrare che i suoi figli erano ancora da lui prediletti, sebbene la colpa di pochi li costringesse all'esilio"
"Cos'è successo? Cosa ci ha attaccati?"
"L'ho battezzata la Bestia dell'Antro più Antico"
"Cos'è?"
"Nessuna leggenda ne parla. Si è manifestata appena ho trovato l'ingresso dell'antro, sotto la stele"
"Sembra uno spettro"
"Non so cosa sia. Ma comunque è ancora la fuori. Ti avvolge tra le sue spire e ti succhia la vita come un ragno fa con la polpa di un insetto."
"Aspetta". Ainulin aveva avuto il primo ricordo chiaro di quello che gli era successo."Che fine ha fatto il mio amico, il nano?"
"La Bestia lo ha preso" - l'incappucciato aveva un tono di voce piatto.
Ainulin rimase in silenzio. Povero, coraggioso Angruk. "Sei riuscito a seppellirne il corpo?"
"Non era il caso ritornare in quella galleria, con te qui ferito. Avevi bisogno di cure costanti. Il tocco di quell'essere ti aveva infettato l'anima. Soltanto la tua naturale resistenza elfica ai malefici ti ha salvato. Ho dovuto purificarti. Sei qua sopra da quasi sei giorni."
"Sei giorni?"
"Si. Ti ho strappato dalle sue fauci e ti ho portato qui. Quell'essere immondo non uscirà dalla sua grotta. Credo sia una sorta di guardiano. Sono mesi che cerco il modo per liberarmene. Solo così potrò entrare nell'antro."
"Sei tu ad aver lasciato quel frammento di manto elfico, nella galleria?"
"Mi sono strappato la mantella quasi un anno fa"
"Allora, sei tu, padre?"
"Si. Figlio."
"Perché non ti sei subito rivelato a me?"
"Perchè la lunga ricerca mi ha profondamente mutato. In questi dieci anni ho visto luoghi e ho scoperto cose che perfino la mia mente assetata di sapere ha paura di ricordare. Il ricordo della luce di Lorien è lontano e sfumato. Mi vergogno molto per come mi sono ridotto, per come ho abbandonato i miei simili in questi anni di estremo pericolo. Speravo che tu non mi riconoscessi. Mi avresti creduto morto, sarebbe stato meglio così"
"Ma allora, perché mi hai mandato il messaggio?"
"Quale?"
"La mia bisaccia. Sei riuscito a recuperarla?"
"Eccola. La stringevi a te come un amuleto"
Ainulin ne estrasse il cilindro di legno e lo porse al padre. L'altro lo aprì; prese la pergamena e ne lesse il contenuto.
"Ormai disperavo di riaverla. Non era rivolta a te. Tuo nonno, Ainulin il solitario ritrovò questa pergamena quasi mille anni fa. Me la diede trecento anni or sono, quando mi affidò la ricerca. Alcuni anni fa mi fu rubata. E' il destino che ti porta qui. Insieme, sento che porteremo a termine la ricerca."
"Perchè non mi mostri il tuo volto padre?"
"Non sono cambiato solo nello spirito, figlio. Sei sicuro di volermi vedere?"
"Nessun cambiamento potrà rendermi insopportabile il tuo volto."
L'altro si abbassò il cappuccio e il suo volto emerse tra le foglie, unica parte del suo corpo non mimetizzata. Lemas l'elfo aveva perso un occhio e l'intera parte destra della faccia era sfigurata. Il suo era il volto di chi aveva visto la morte in faccia in più di un'occasione. Si abbracciarono alcuni minuti, poi Ainulin chiese al padre di raccontargli quello che era successo in quei dieci anni passati dall'ultima volta che si erano visti, a Gran Burrone.
Lemas raccontò di come avesse vagato in cerca di indizi dai Cancelli di Mordor alla Contea. Raccontò dei piccoli Hobbit e di Tom Bombandil. A Tumulilande aveva trovato una chiave antichissima che in rune elfiche molto arcaiche recava la scritta "Abisso". Era stato ad Angmar dove ancora vivo era il ricordo del Re Stregone. Lì aveva trovato documenti che parlavano della stele e delle fonti del Nimrodel. Per un po' aveva avuto come compagno un certo Granpasso, un ramingo. Un tipo veramente strano, che dava l'idea di sapere molto più di quanto volesse mostrare. Alla fine era stato a Fangorn e lì aveva conosciuto gli Ent. Era stato nel tragitto tra la foresta e le montagne che un Warg gli aveva strappato via l'occhio.
Finalmente, dopo lungo penare e dopo essere stato derubato da un dunlandiano della pergamena del padre, Lemas era giunto alla stele. Aveva tradotto, grazie agli indizi recuperati ai quattro angoli della terra di mezzo, ma senza poter usare gli appunti del padre, le rune più antiche incise su essa. "Mi manca soltanto una parte del mosaico, grazie a questa pergamena che mi hai portato, forse capiremo come sconfiggere la Bestia." Lemas raccontò di come trovò l'ingresso dell'Antro.
"Dapprima rinvenni l'entrata mal celata della galleria dove siete stati attaccati dal mostro. Pensai di addentrarmici un po'. Dopo qualche ora di cammino, ricordo di aver notato che le assi del pavimento della galleria cedevano. Così ne tolsi alcune e, con mia grande meraviglia vidi che la roccia sottostante era franata, mostrandomi l'enrome caverna. Ero così eccitato che tentai di calarmi giù. Per poco non precipitai. Fu lì che mi strappai la veste."
"Anche noi abbiamo scoperto le assi malferme e la roccia franata"
"Allora avrai capito che l'ingresso doveva trovarsi sotto la stele."
"Lo avevamo supposto"
"Infatti è così. Io però ci ho messo tre mesi per sciogliere il rompicapo. Stavo quasi per rinunciare quando fui attaccato da alcuni orchetti, probabilmente un gruppo che si era perso. Nella colluttazione uno di loro calò un fendente su un cespuglio che si trovava vicino alla stele e lo divelse. Quando li ebbi uccisi tutti, mi accorsi che tra il terriccio smosso, dove prima affondavano le radici di quella pianta c'era un pesante portello di metallo, con una serie di scritte incomprensibili e una serratura. Le uniche rune che riuscivo a comprendere erano proprio sulla fessura, ed erano uguali a quelle della chiave. "Abisso"
Infilai la chiave e l'antica porta girò da sola sui cardini. Fu allora che scorsi una scala a chiocciola senza fine che penetrava nella montagna a perdita d'occhio. Stavo per scendere quando la Bestia mi attacco. Non so ancora come mi salvai. Mi gettai nel fiume e l'acqua del torrente scacciò da me il fetore di quell'essere. Poi vagai giorni e giorni, in stato di confusione. Deliravo e credevo di morire, ma la voce di tuo nonno mi dava forza. Mi ci volle più di un mese per trovare il coraggio di riavvicinarmi. Da quel momento ho studiato ogni documento in mio possesso ma nessuno spiega come distruggere quell'essere."
"Come pensi che la mia pergamena possa aiutarti? E' quasi illeggibile"
"Ora vedrai. E' ora che lasciamo il nido e andiamo a vedere l'ingresso dell'Antro più Antico."
Lemas lo aiutò a scendere dal loro rifugio. Il cielo era di rame e faceva freddo. Un leggero nevischio riempiva l'aria di gelide stilettate. Ainulin era ancora debole ed aveva la nausea. Ma l'aver ritrovato il padre gli aveva dato una grande carica. Insieme ce l'avrebbero fatta.
L'enorme albero affondava le sue radici sulla riva del torrente, qualche centinaio di metri più sotto del punto in cui aveva subito l'attacco della Bestia. Risalirono il Nimrodel fino alle sorgenti, sopra di loro c'erano solo i ghiacciai. Ainulin osservò la sottile frattura nella montagna che costituiva l'ingresso della galleria segreta dei nani. Sembrava l'occhio bieco di qualche enorme animale morto. Pensò ad Angruk che aveva creduto che non ci fossero pericoli, per lui, tra le gallerie dei suoi padri. Il nano aveva detto che non era possibile scovare l'ingresso del passaggio, mimetizzato dalla sapienza degli avi. Su troppe cose il suo amico si era sbagliato. "Addio, Angruk il Pazzo" - disse tracciando sulla terra un simbolo propiziatorio - "che Aule accolga la tua anima".
Il padre gli diede una pacca affettuosa sulla schiena e lo condusse alla stele.
Era un cono di roccia, consumato dal tempo, alto poco meno di un metro. Era inclinata come un'antica lapide, ed emergeva proprio dalle acque del fiume infante, ribollenti di gorghi. Sul lato che dava sulla riva, a terra, le mani del padre tolsero alcuni arbusti, rivelando la porta di ferro. Chiusa.
"L'ho richiusa, sperando di far tornare in letargo quella creatura. Ma ormai lei ha infestato questi monti, come prima di lei fece il Flagello di Durin. Queste montagne sono le tombe del passato: chissà quanti altri misteri e quante altre storie tristi celano!"
"E la sua prima vittima è stato un nano. La storia si ripete."
I due si avvicinarono alla lapide. Era scritta in rune antichissime, che, partendo dalla punta smussata scendevano a spirale, tutt'intorno alla stele, fino al terreno. Attraverso le limpide acque del Nimrodel si vedeva che le scritte proseguivano ben al di sotto del terreno.
"Secondo me la stele è tutta coperta di scritte. La parte che si vede contiene una serie di formule religiose molto arcaiche, più simili a riti magici che a preghiere. Vedi queste scritte più nuove, fuori della spirale. Sono in lettere feanoriane. Sono aggiunte fatte in epoche storiche. E' Quenya e, come puoi vedere, parla di qualcuno che trovò le sorgenti e la stele. Si fa riferimento all'antro ma non all'ingresso. Quindi non è detto che si parli dell'Antico."
"Angruk diceva che la stele parlava dell'Antro."
"Del resto è logico. I nani stanno esplorando queste montagne da secoli. Non credo che noi siamo stati i primi a imbatterci nell'Antro."
"Forse in tutti questi casi la Bestia è stata liberata. Poi è tornata a dormire."
"Se ne parlerebbe, nei libri. Secondo me ci sfugge qualche collegamento tra quest'essere e l'Antro."
"Andiamo per ordine. Cosa dice, la stele."
"Te la potrei citare a memoria, ormai. Ma tremo al solo pensiero di recitarla a voce alta. Leggi questa pergamena: è il frutto di un anno di lavoro. Ho tradotto tutto quello che ho potuto, servendomi dei documenti e dei racconti orali più antichi di questa terra. La mia è un'interpretazione. Molte frasi ti sembreranno oscure, ma credo che la chiave di lettura sia questa.

Tombe scure, forse buie. Aprite o voi che le avete costruite.
Melkor signore dei morti. Adoriamo il signore dei morti. La tua tomba o Morgoth sarà la nostra casa. Ciechi, soli e curvi ti avremo nostra guida.
Apri la strada per Valinor e tuo sarà il trono degli Dei.
Dall’ombra dove ci scacciarono noi torneremo.
Uscite o morti dalle vostre tombe! Perite o vivi nell’Antro in cui riposa la storia del mondo.
Più giù mai si potrà andare.
Signore!
Nostro Dio!
Dacci l’estremo potere!
Il comando sui tutti i poteri!
Morgoth l’Onnipotente! Il Grande! L’Invincibile!

"E' molto confusa ma è il massimo che ho potuto fare."
"Sembra una preghiera. Non vedo l'ora di leggere tutta la scritta. Però ci sono due punti oscuri. La mano che ha vergato queste infami parole appartiene di certo agli adoratori dell'ombra; perché, allora essi parlano di Valinor.?"
"All'origine della nostra cacciata da Valinor c'è la guerra per le tre gemme e il giuramento blasfemo di Feanor. Le leggende di quelle epoche antichissime nascondono, a mio avviso molti punti poco chiari. Credo che qualcuno congiurò contro gli elfi provocandone l'esilio e che in questo tempio dei più antichi adoratori di Morgoth troveremo la verità"
"Ora capisco cosa stiamo cercando. Ma se tu scoprissi che davvero Feanor giurò e che, peggio ancora, adorò il Nemico e tradì la sua specie, cosa farai?"
"Credo che non sopravviverei. Ma morirei anche se abbandonassi la ricerca ora, che forse ho gli strumenti per riscattare l'onore del nostro popolo."
"L'altra cosa che mi turba è il contenuto delle ultime strofe."
"Hai notato anche tu la somiglianza, vero?"
"Si."
Ainulin pensò alla poesia dell'Anello e al passo che, si diceva, era inciso all'interno dell'Unico.

Un anello per domarli, un anello per trovarli
Un anello per ghermirli e nel buio incatenarli

Dacci l’estremo potere!
Il comando sui tutti i poteri!

"Evidentemente, in qualsiasi epoca si adori Melkor e germogli il suo seme, sono sempre gli stessi principi a guidare la mano dei suoi servi"
Il padre lo condusse alla porta di ferro, dove le scritte, se possibile erano ancora più confuse. Si trattava, gli disse l'elfo più anziano, di scongiuri e preghiere, qualcosa di scritto successivamente.
"Secondo me non vogliono difendere l'accesso dell'Antro, ma il mondo esterno da lui. Sembrano le frasi che si scrivono sulle tombe per impedire che i morti ne escano."
"Cosa dice?"
Lemas gli diede un'altra pergamena con una traduzione. Vi erano alcune lacune, che si potevano colmare con la parte di traduzione che il nonno di Ainulin aveva preparato per il figlio e che il gondoriano ucciso aveva portato fino al nipote.

Non uscire o figlio del buio
Non temere mio piccolo amico
Lui non uscira'
Finche' la luce inondera' queste terre
La luce lo uccide
La tenebra lo nutre
Che sia sempre la luce
Non aprire del re dalla corona ferrea la tomba
La gemma del sacrilegio deve dormire nella
Tomba in fondo alla roccia tra
I servi dell'ombra adoranti
Non fate rumore o si risveglieranno
Fate calore e si riaddormenteranno
Non violate il sepolcro di Melkor, la cui furia sarà presto
Voluta e rievocata

"Ora è tutto più chiaro. La tua pergamena ha chiarito gli ultimi dubbi, vedi. L'Antro è la Tomba in fondo alla roccia. La tomba di Melkor. Li c'è uno dei Silmaril, "la gemma del sacrilegio". Durante la Caduta qualcuno adorò quella pietra come una divinità e si nutrì dell'odio in essa accumulato. Quest'antro è il simbolo del sacrilegio. E la Bestia e l'essenza malefica di Melkor."
"Questo però non spiega come neutralizzarla. Quando ho provato a far calore con la mia gemma, essa è rimasta insensibile."
"Qui ti sbagli. Non è rimasta insensibile. Io ho sentito il suo richiamo e ti ho salvato. L'odio che abita in quel tempio era troppo forte per le tue sole facoltà, ma ora credo di aver capito."
"Spiegami."
"Non descrive come neutralizzarlo. E' una formula, va pronunciata. Aprirà la porta e ci darà la luce necessaria."
"Chi può avercela messa? Non credo che i servi di Morgoth volessero dirci come profanare la tomba del loro Re."
"Quella non è la tomba di Morgoth, è la tomba delle anime dei suoi servi, tutte racchiuse nella Bestia che ti ha assalito. Un antico testo che ho consultato ad Isengard, parecchi anni or sono, parla proprio dei poveri figli che sbagliarono ed ebbero la dannazione eterna, nell'Antro più Antico"
"Pensi che ci siano elfi tra loro?"
"E' quello che voglio scoprire. Questa formula è stata vergata dalla mano gentile di chi voleva dare l'ultima speranza a dei condannati. "
"La chiave che hai trovato in quel tumulo, allora?"
"Messa lì da chi non vuol liberare i suoi prigionieri"
"Lo facciamo ora?"
"Credo che sia meglio riposarci prima. Ormai è pomeriggio inoltrato; domattina col sole ad incoraggiarci, purificheremo la tomba del Nemico"

8

"Cosa credi di trovare, lì sotto?"
Ainuin e il padre stavano bevendo acqua di ruscello e mangiando pan di via."
"Non lo so. Forse solo le tombe degli adoratori del Nemico, con i loro nomi. Così potremo scagionare il resto della nostra razza davanti agli dei. Forse solo i corpi di uomini o nani, le cui anime attendono solo di poter trovare pace. Forse il Silmaril."
"Hai dei concetti piuttosto vaghi."
"La verità è sfuggente e vaga, figlio mio. Forse una morte onorata è l'unico modo di ritornare a Valinor e alla verità"
"Pensi sia giusto?"
"Credo sia giusto salvare quei disperati"
"Se troverai la corona di ferro del Nemico con le tre gemme incastonate, le porterai con te?"
"No. I Silmarin hanno già provocato troppi dolori alla nostra razza"
"Spero che saremo in grado di mantenere la nostra moralità"
"Forse proprio così salveremo la nostra razza"

9

Ainulin si mosse silenzioso. Il padre era in quella specie di trance che per gli elfi equivale al sonno degli uomini. Sapeva che Lemas non avrebbe approvato ciò che stava per fare. Era pericoloso ma non poteva lasciare Angruk senza sepoltura. Scese dall'albero e si avviò all'imboccatura della galleria in cui il nano aveva trovato la morte. Era freddo, il cielo era oscurato da nubi. Scendeva una fastidiosa pioggerella. Si avvicinò, toccando la gemma che portava al collo, nutrendo il suo coraggio col calore della pietra. L'interno della galleria era buio e percosso da correnti d'aria umida, provenienti dalle profondità della montagna. Regnava un silenzio di tomba. Ainulin si muoveva lentamente, aspettandosi ad ogni svolta l'attacco del mostro. Non ci mise molto a trovare il corpo del nano, già in stato di decomposizione. Senza preoccuparsi delle condizioni del corpo, iprese in braccio il suo sfortunato compagno e si avviò all'uscita. Stava per varcare la soglia della caverna quando sentì, dalle profondità della montagna, il ringhio di un animale. Si voltò ma la galleria era vuota e buia. Uscì mentre il nevischio iniziava a rimpiazzare la pioggia. Adagiò il cadavere ed inizò a raccoggliere quanti più arbusti possibili, ammassandoli per formare una pira. Vi sdraiò il nano con le mani giunte ad impugnare l'ascia da battaglia. Pronunciò alcune formule purificatrici e si concentrò. Non sarebbe stato il momento di usare la pietra, ma la pioggia aveva reso il legno umido e impossibbile da incendiare naturalmente. La gemma rifulse di luce rossa e il legno iniziò a bruciare. La pioggia ricominciò più forte. Ainulin guardò a valle e notò che le nubi si addensavano solo sopra di lui. Potenziò ancora il fuoco magico e la pira si accese, unica luce nella notte. Iniziò a soffiare un vento terribile che lo costrinse a ripararsi dietro la stele.
"Vuole impedirlo. Vattene signore dei morti. Lascia in pace il mio amico".
Il torrente ruggiva e il fuoco magico vacillava. A un tratto sentì l'affannoso respiro della Bestia, vicinissimo. L'essere uscì dalla galleria in forma di enorme Warg. Ruggì e caricò. Ainulin non ci pensò un momento e gettò la gemma sulla pira. Ci fu una fiammata alta decine di metri; il corpo del nano Angruk arse mentre l'elfo afferrava la maniglia della botola di ferro e pronunciava la formula. . .

Non uscire o figlio del buio
Non temere mio piccolo amico
Lui non uscirà
Finché la luce inonderà queste terre
La luce lo uccide
La tenebra lo nutre
Che sia sempre la luce
Non aprire del re dalla corona ferrea la tomba
La gemma del sacrilegio deve dormire nella
Tomba in fondo alla roccia tra
I servi dell'ombra adoranti
Non fate rumore o si risveglieranno
Fate calore e si riaddormenteranno
Non violate il sepolcro di Melkor, la cui furia sarà presto
Voluta e rievocata

"Ci sia sempre luce" urlò Ainulin un'ultima volta; Prese una freccia dalla faretra e ne incendiò la punta. Il Warg ululò e saltò verso di lui, ma l'elfo scoccò e centrò l'animale mentre era ancora in volo. Cadde rovinosamente nel Nimorodel. Le acque iniziarono a diventare scure ed a ribollire violentemente. La pira divenne un'immensa colonna di fuoco. Sembrò che dalle viscere della montagna una voce poderosa urlasse di sgomento e furore. L'immenso falò ormai occupava l'intera spianata intorno alla stele. Le rune incise sulla roccia iniziarono a sanguinare. Il cielo divenne ancora più scuro. La pioggia cadde violentissima insieme alla neve. L'acqua del fiume divenne rossa e ribollì.

Lemas riprese coscienza e notò l'incendio. Vide anche che il figlio non era sull'albero e capì. "No!" Si lanciò giù dal loro rifugio e coprì di corsa la distanza tra l'albero e la porta dell'Antro. Vide la pira maestosa e l'ombra ergersi dalle acque e allungare la propria mano su Ainulin che fermo in mezzo al fuoco cantava a squarcia gola la ballata di Nimrodel. Ma mentre snocciolava gli antichi versi, spesso cambiava il nome della fanciulla elfica, sostituendolo con quello della sua Narmroel. Poi vide l'ombra smembrarsi; il forte vento la portò via e la disperse. Per un istante colse delle forme tra le lingue di fuoco, tante anime salvate dalla notte eterna. Tra esse ne riconobbe di famigliari e finalmente capì. La sua mente registrò per un attimo il trionfo. Aveva scoperto la verità. Ora sapeva cosa era successo a Feanor e perché gli elfi erano stati cacciati da Valinor. Fu però un attimo. La montagna sembrò urlare di dolore, la botola d'acciao saltò in aria e dal profondo dell'Antro uscirono, liberati, gli ultimi prigionieri. La tempesta montò e vi fu uno schianto violentissimo.
La montagna tremò e tutta la spianata dove si ergevano la stele e la pira crollò. Lemas si sentì trascinare a terra mentre la montagna sotto di lui franava.
Subito perse di vista il figlio, poi ci furono solo buio e rumore mentre l'Antro più Antico implodeva su se stesso, con una deflagrazione che fu avvertita per chilometri. Il terremoto scosse i Monti Brumosi fino a Moria.

10

"Gli occhi della Terra di Mezzo erano puntati verso Mordor, in quei giorni, e nessuno seppe mai cosa era successo alle sorgenti del fiume di Bosco d'Oro"
"Dove sono finiti, Ainulin e Lemas?"
"Io credo che siano a Valinor, dove forse hanno trovato la verità"
"Ma è una storia vera o ti sei inventato tutto?"
"Ogni storia è vera, a suo modo, e l'elfo che me l'ha raccontata diceva di aver visto tutto attraverso un qualche magico portale. Sai, come sono gli elfi."
"Ma gli elfi esistono davvero? Io non ne ho mai visti"
"Ora dormi"
Il vecchio Hobbit rimboccò le coperte del piccolo. "Altrimenti verrà Sauron e ti porterà via" aggiunse dando un buffetto al piccolo che si mise a ridere. Lo baciò sulla fronte e uscì dalla casa. Si sedette sulla veranda a fumare un po' di erba pipa e a guardare le stelle.
"Ogni storia è vera, a suo modo" disse sorridendo.
"Buona notte mister Samvise" urlò un vicino prima di chiudere la porta di casa.
"Buona notte a lei"

AUTORE - GABRIELE
(racconto omaggio...con qualche libertà... all’amato J.R.R. Tolkien: i puristi mi scuseranno)

25 dicembre 2006

VICINI DI CASA

Linda odiava i suoi vicini di casa.
Ormai era arrivata al limite della sopportazione.
C’era arrivata per gradi, quasi senza accorgersene. Colpa di tante piccole cose accumulate nel tempo, una dopo l’altra.
Alla prima aveva portato pazienza, all’inizio ci aveva anche riso su, poi però ne era saltata fuori una seconda, poi una terza e alla fine era arrivata al punto che anche solo il pensiero della loro vicinanza la riempiva di rabbia e di repulsione.
Per primo, alla sinistra della sua proprietà, il signor Galimberto Brancolini.
Innanzitutto il suo giardino.
Nel quartiere ci tenevano tutti, lo si sapeva da sempre. Era una di quelle regole non scritte che tutti però erano tenuti ad osservare.
Anzi, il vicinato era costantemente in gara per avere i fiori più belli e colorati, il vialetto ben pareggiato, l’erba tagliata.
Invece lui no.
Linda inorridiva nel guardare la giungla davanti a casa sua. Cumuli di foglie morte in stato di decomposizione appestavano tutti con il loro odore di muffa, fiori ingrigiti e appassiti, erbacce dappertutto… un vero sfacelo.
Lei aveva provato a farglielo notare, all’inizio con toni delicati, con frasi buttate lì come per caso, poi, visto che non cambiava nulla, in modo più esplicito.
E lui come aveva reagito?
Togliendole il saluto!
Roba da matti.
Non che ne sentisse la mancanza eh? Tanto lui ormai aveva litigato con tutti.
Si, perché il Sig. Brancolini, era sempre stato un asociale, fin dal suo arrivo.
E dire che subito sembrava una persona così distinta.
Quando arrivò, con il suo vestito scuro e le scarpe lucide, sembrava proprio un uomo per bene. Lo accompagnava una bella ragazza, tutti avevano subito pensato che fosse sua figlia e che il Sig. Brancolini fosse vedovo. Ma poi lei non si era più vista.
In verità non andava a trovarlo mai nessuno; per forza, con il caratteraccio che si ritrovava non doveva avere una gran collezione di amici.
Tornando all’odio di Linda… se il Sig. Brancolini si fosse limitato ad essere un vecchio scorbutico e solitario, la cosa avrebbe potuto anche essere sopportabile, pur rimanendo sconveniente e per nulla di buon gusto.
Il fatto era che, essendo una persona piena di astio nei confronti del mondo, il Sig. Galimberto non perdeva una sola occasione per rovinare la vita agli altri.
Tanto per fare un esempio.
Di norma il Sig. Brancolini se ne stava tutto il giorno rintanato in casa e, con grande sollievo di tutti, era come se non ci fosse.
Il problema sorgeva quando qualcuno del vicinato aveva ospiti. Infatti, non appena vedeva arrivare qualcuno, il maledetto iniziava a fare il matto strepitando e gridando tanto da spaventare a morte i poveretti.
Per questo motivo gli amici e i parenti di Linda, che prima andavano regolarmente a trovarla, con il tempo avevano notevolmente diradato le loro visite.
E tutto questo per invidia! Perché da lui non andava mai nessuno!
Voi direte che doveva essere una povera persona sola e triste che andava capita e aiutata.
Linda si era sempre ritenuta una brava donna, disponibile verso gli altri e piuttosto socievole. Ma con lui aveva proprio dovuto arrendersi.
Aveva provato ad essere gentile, ad invitarlo alle riunioni del quartiere, ad informarsi sul suo stato d’animo… niente, tutto quello che era riuscita ad ottenere erano stati solo mugugni e imprecazioni.
A quel punto persino un santo avrebbe gettato la spugna.
Come se questo non fosse bastato, c’era l’altra vicina, quella sulla sua destra: tale Benedetta Priscilla Malverti.
Una single convinta.
Zitella, per come la vedeva Linda.
Il suo cattivo gusto era tragicamente palesato dal colonnato corinzio con tanto di timpano decorato a bassorilievi in marmo rosa che aveva scelto per l’ingresso di casa. L’apoteosi della pacchianità, oltre che una vera sciagura estetica per il loro elegante e sobrio quartiere.
A peggiorare il tutto Benedetta Priscilla era una persona molto devota. Carica di quella religiosità “esteriore” che la portava irrimediabilmente a riempire il giardino di statue di angeli e madonne in preghiera. Come se il colonnato da solo non fosse sufficiente a valerle l’oscar del kitsch.
Un vero orrore.
Ma Linda era una persona che, sebbene con un po’ di sforzo, riusciva ad andare oltre all’apparenza.
Aveva tentato di creare un rapporto di cortesia con Benedetta.
In quanto “sola per scelta degli altri”, la ragazza era spesso triste e Linda non era rimasta indifferente ai suoi lugubri lamenti e ai suoi inconsolabili pianti.
Era andata a trovarla spesso e avevano chiacchierato a lungo, toccando anche argomenti profondi, che vertevano sul fatto di doversi sempre migliorare per rendersi più amabili agli occhi degli altri.
Ma ogni volta che Linda riusciva ad avvicinarsi a lei e a conquistare un po’ della sua stima e fiducia, puntualmente arrivavano i genitori della ragazza a rovinare tutto con discorsi su quanto fosse bella e cara e unica e su quanto nessuno si fosse mai accorto del suo valore.
E ogni volta che i suoi genitori se ne andavano, Benedetta tornava ad essere di nuovo una giovane zitella acida, viziata e piena di sé.
Se Linda pensava a quanto tempo avrebbe dovuto ancora sopportare quei due si sentiva male.
Già, perché facendo una mano di conti, avrebbe dovuto rimanere lì almeno per altri quindici anni. Ah, se solo suo marito le avesse dato retta! Quante volte glielo aveva detto che voleva essere cremata? Le sue ceneri a quest’ora avrebbero dovuto riposare sul fondo dell’oceano.
Invece no, la tradizione è tradizione: funerale, cassa in mogano e corone di fiori.
E adesso lei si trovava lì, assillata da quei terribili vicini di lapide, nel terzo vialetto a sinistra del cimitero comunale.

AUTORE - SARA

29 novembre 2006

FABLE

Nuvole gonfie minacciano pioggia. Il sole scompare dietro la collinettà. I suo ultimi raggi vividi come il fuoco, bruciano i contorni scuri dell’albero, ormai secco per il sopraggiungere dell’inverno, che si staglia come un uomo in preghiera sullo sfondo.
Vedendo la scena mi sembra di essere dentro a una cartolina. Io la bimba che guarda dalla finestra un tramonto lontano sotto lo sguardo attento di un uomo che stringe la bianca cornice del cartoncino che a breve invierà a qualche amico.
Questa atmosfera presagiva l’arrivo di una di quelle notti piene di spiriti e fate. Notti di vento quando i bambini si addormentano piangendo. In quelle serate buie il papa mi raccontava la favola che mi piace tanto. Quella del piccolo servo di Oberon che scappa da Arcadia e che per anni si rifugia nel mondo degli uomini. Non vi nasconderò di averlo visto quel Puk. Era un bambino seduto su un muretto che osservava gli uomini dall’alto. Aveva un ghigno malefico nascosto da un rincuorante sorriso. Mi avvicinai a lui. Gli parlai e lui rispose. Il suo profumo di fiori nascondeva l’olezzo del sangue. Piccole gocce di pioggia rossa cadevano dall’orlo del suo cappotto. Pioveva sempra quando si mostrava ai miei occhi. Giocavamo insieme per ore. Mi raccontava storie di scherzi che aveva fatto durante la sua vita. Non si credeva quanti ne avesse fatti e dire che avrà avuto si e no dieci anni. Eppure quell’olezzo non lo abbandonava mai così come il profumo. Non capivo. In quei giorni però capire non era importante. Ero ammaliata dai suoi occhi dalle sue parole. Ma tutto in lui nascondeva qualcosa. Lo sapevo ma non me ne curavo.
Gli raccontai anche la storia che mi piaceva tanto. Lui ascoltò prima pensieroso poi sorridente. Un baleno attraversò i suoi occhi stretti. Ma è vero tutto questo? Si mia dolce bambina è vero. Oberon ci ha provato a riportarmi a casa ma Puk è più astuto.
Un giorno dalla mia camera lo vidi seduto fra le falangi dell’arbero distese verso il cielo. Muoveva la sua mano come a chiamarmi. Voleva che andassi da lui. La nonna era in casa. La salutai dicendole che andavo a giocare nei pressi dell’albero. Mi baciò e si raccomandò come sempre. La baciai forte; allora non sapevo bene il perché di quel gesto così intenso.
Puk mi guardava come faceva sempre con tutti gli uomini; dall’alto verso il basso.
Scese agile dall’albero. Quel giorno era bello e raggiante. Nessun olezzo, nessuna oscurità, nessun liquido scarlatto. Anche la pioggia era sparita. Mi tese la mano.
Insieme ci incamminammo lungo il sentiero. Lui mi parlava. Mi raccontava altre storie. Io ero felice. Le preoccupazioni mi avevano abbandonato insieme alle domande. Persino l’entrare nel fitto bosco non mi inquietava. Le verdi chiome si chiudevano su di noi.
I rami ci salutavano. Il verde lasciò il posto al marrone poi arancione giallo e infine l’oro. I colori si susseguirono in un calidoscopio di mutazioni. Poi li vidi erano li. Piccoli come topi, volteggiavano sulle noste teste. Grossi come tori, si inchinavano al nostro passaggio. Aure arcobaleno li avvolgevano. La radura si aprì. Cinque erano le fate che si fecero avanti. Cinque fate con cinque bambini. Puk non era più un pargolo di dieci anni. O almeno non più il rubicondo essere che mi era apparso fino ad allora. Ora era proprio come papà me lo discriveva e tutto era tornato. Olezzo, oscurità, sangue. Il grosso uomo cervo era seduto all’interno di un’antica quercia incavata. Le gambe incrociate; fece cenno di avvicinarsi. Li vidi tutti cambiare quei bambini. Ognuno prese l’aspetto della fata che lo aveva accompagnato. Ognuno di essi prese il posto del suo reciproco.
La fata tra i mortali e il mortale fra le fate.
Equo cambio perché non vi sia disequilibrio. Questa era la legge, sosteneva Oberon.
Eppure Puk non cambiò. Rimanemmo li fermi in quel luogo sacro dell’ARCADIA, intrappolati tra il mondo delle fate e quello degli uomini. Del mio mondo mi rimane un unico dolce ricordo. In quel ricordo mi avvolgo trasformandolo in barriera. Non sono ancora cambiata come gli altri compagni giunti fin qui. Mantengo tutti i miei tratti umani. Niente occhi di foglia, niente voce sottile e capelli di selva. Ma eccoli che ritentano le loro magie. Mi concentro. Sono nel mio salotto. Ecco ONE. Guardo BIM BUM BAM, è pomeriggio e mia nonna mi prepara la nutella. Mi prende in braccio per vedere insieme a me lovey sara, anna dai capelli rossi e tutti i cartoni che davano alla televisione e loro, così, non hanno alcun potere su di me.

AUTORE - SIMONE

26 novembre 2006

FATE I BUONI BAMBINI

La cucina era avvolta da miasmi pestilenziali che fuoriuscivano dal pentolone che ribolliva insistentemente sul forno. Sulle mensole in legno troneggiavano cioccolate dall'aspetto curioso ma che ad un'analisi più attenta, assumevano realistiche forme di parti umane. Il gigantesco tavolo era cosparso da un liquido gelatinoso che imbrattava alcuni arnesi domestici. In un angolo, ammucchiate una sopra all'altra, una quantità incredibile di ciocche di capelli castani e biondi. Davvero poco igienico in una cucina. Di fianco al pentolone disposti in rigoroso ordine su un tagliere, degli appetitosi dolcetti alla crema. All'interno di uno dei mobiletti fissati alla parete, stavano seminascosti dei vasetti di varie dimensioni piene di liquido trasparente, al cui interno galleggiano come pesciolini, oggetti filamentosi non ben definiti. Tutti i vasetti contrassegnati da targhette che recavano date e nomi propri.
Nell'altra sala confinante, il piccolo sorrise teneramente, immerso fino al suo esilissimo collo in quell'infinita coperta multicolore. La testolina rapata a zero spuntava da quell'arcobaleno. Seduto sul lettone accanto a lui, l'omone intento a leggergli una stupenda favola da un libro rilegato finemente. Una folta barba bianca adornava il suo faccione dalle grosse gote rosse, e ciò gli donava un'aria docile e affettuosa. La sua vocetta armoniosa stregava il piccolo.
Sulle pareti della sala stavano attaccate decine e decine di ritratti, raffiguranti bambini di ogni tipo sorridenti a trentadue denti, mentre sul tappeto erano sparsi disordinatamente giocattoli di vario genere. Un tintinnio insistente continuava a giungere dalla cucina, l'omone si alzò e tranquillizzando con una strizzatina d'occhio il piccolo. Recatosi in cucina assicurò il coperchio del pentolone che sbottava con insistenza, estrasse con un forchettone un zampone di piccole dimensioni ma dalla forma strana. Lo osservò soddisfatto, strizzandolo con i suoi ditoni ne assaggiò la consistenza dopodiché lo rinfilò dentro. Aprì un cassetto pieno zeppo di lecca-lecca, ci immerse la mano scegliendone uno. Scartandolo se lo mise in bocca ciucciandolo con estremo gusto. Indirizzatosi nell'angolo vicino al tavolo sbloccò una maniglia d'acciaio di una porta blindata, da cui fuoriuscì dell'aria refrigerata. L'omone entrò in una stanza frigorifera, scostando quarti di bue appesi a dei ganci arrugginiti e stando attento con le sue pantofole a forma di cucciolo di cane, a non pestare le pozze di sangue formatesi a terra. Colpita una carcassa e chiamatola con un nome femminile, scomparve nella nebbia gelida esclamando: "Fa un'po freddo, eh ragazzi?".
Il piccolo sorrise, iniziò ad intonare una cantilena con la sua vocetta flebile, fissando di continuo il soffitto. L'omone lo raggiunse rassicurandolo, gli sollevò la coperta togliendola completamente e mostrando i moncherini del piccolo che indossava un pigiamino azzurro. La parte finale dei quattro arti era stata mutilata con precisione, le maniche arrotolate su se stesse e fissate da grossi spilloni luccicanti. L'omone lo afferrò per i fianchi e lo sollevò come fosse un bambolotto gonfiabile con il sorriso stampato sulla faccia. L'omone fece molta attenzione a trasportarlo in cucina: "Adesso andiamo a fare il bagnetto... Sarà un'po calda l'acqua, sai?".
Due ombre si avvicinarono titubanti alla casetta di marzapane dell'omone. Erano una donna e un bambino con un cappellino. I due si fermanorono. La donna s'inginocchiò sistemandogli il cappellino, gli mise la mano sulla schiena e lo sospinse invitandolo ad avvicinarsi da solo alla casetta. Lei rimase immobile ad osservarlo mettendosi una mano sulla faccia. Il bambino si voltò verso di lei un'ultima volta. La donna si strinse le coscie con forza.
L'omone era in cucina tagliuzzando finemente della carne rossa su un tagliere, il suono del campanello lo mandò in febbrile agitazione. Asciugatosi le mani sul grembiule, tirò fuori da un cassetto un grosso sacco nero della spazzatura e si recò nella sala accanto. Il letto dove stava il piccolo era ancora disfatto. L'omone dinanzi allo specchio, iniziò a levarsi il sontuoso parrucchino bianco e la barba finta, buttandoli a terra. Dal sacco estrasse una capigliatura rosso fuoco, compresa di mustacchi affilati che venne immediatamente provata sulla sua capoccia scintillante. PERFETTO!!! Sistemata velocemente la sala, aggiunse alla sua collezione di ritratti anche quello del piccolo, raffigurato con una chioma rossa e riccioluta. La porta della casetta di marzapane si aprì e l'omone accolse a braccia aperte il NUOVO piccolo. La luce che emanava la casa illuminò il suo visetto sorridente. Anche l'omone sorrise.

AUTORE - CHRISTIAN MARCHI

22 novembre 2006

S_______A

Arghhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh
Whaughhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh
Ehuuuuuuulllllllllll….
HUFF…HUFF.
Finalmente bastardo sei morto. Ho sudato sette camice per finirti. Non mi sono rimaste nemmeno le forze per rialzarmi. Il mio corpo ti sovrasta vincitore di questa lotta. Quest’odio nei miei confronti ti ha portato li. Sono giorni che mi perseguiti. Mi segui.
Ho tentato mille espedienti per sfuggirti… tutti inutili. Pensa che mi sono rivolto anche a Dave. Lui si è messo sulle tue tracce ma tu, fottuto, sei riuscito a sfuggirgli. Neanche i veleni sono serviti. Sei un duro tu. Mi chiedo se tu venga veramente da quel luogo.
Mi ritrovo a pensare che invece tu sia un alieno. Un maledetto parassita. Questo sforzo nel rialzarmi mi ripagherà della visione della tua fine. Dio mio quanto sei brutto. Il tuo corpo a pelo dell’acqua è ormai tutto raggrinzito. Sento già l’odore della morte che esali. È quasi insopportabile. Non azzardarti a fissarmi. Il vincitore sono io, punto e basta.
Mi chiedo solo come tu abbia fatto. Sei fottutamente grosso eppure non ti ho mai notato. Che cacchio sei un Ninja?! Mi ricordo di aver percepito la tua presenza ben cinque giorni fa. Fose tu te lo ricordi meglio di me quel giorno. Ero al ristorante. Quel piccolo bistrot sulla sesta. Quello con le lunghe vetrate e i tavolini con le panche. Il posto è bello. Ha un che di malfamato ma al contempo è molto chic. Ero con Annabella. Annabella, il nome da una giusta dichiarazione del suo aspetto. Bella da impazzire con quei suoi grandi occhi verdi. Sembra il personaggio di un manga. Dai quelle formose cerbiatte che ocheggiano con il protagonista ammaliando lui e tutti quegli Hotaku attaccati allo schermo che non si perdono una sola puntata del serial. Ecco Annabella è così. Penso che tu non l’abbia vista… o forse si… In ogni caso mi stavo immergendo in una tazza di cioccolato fumante mentre, la torta di panna mi foderava la bocca. Lei mi osservava sorridendo. Aveva davanti a se una tisana purificante al finocchio; al finocchio. Perché non al timo o alle rose? Non è che voleva dirmi qualcosa con quella sua scelta? In ogni caso abbiamo parlato dei suoi studi, fa la psicologa. Mi ha raccontato cose da urlo sapessi.
Ci potremmo veramente divertire insieme io e lei. Non trovi che sarei un bel caso?
Che c’è non sorridi? Certo che tu saresti un caso molto più interesanti se potessi parlare di te stesso. Mi immagino la tua vita. Costretto in quattro pareti fino alla maturità. Bistrattattato da tutti, anche da chi, infondo non ti conosce. Offeso e additato come la peggiore delle piaghe. Come so tutto questo? Lo vedo e questo ti basti. Sei morto e le spiegazioni non ti serviranno a nulla. Non perderò tempo a riflettere sulle tue motivazioni. Non ci sono motivazioni infondo. È tutta colpa della tua natura. Sei uno scarto della società e per questo sarai sempre trattato di merda. Ma non distraiamoci.
Il vero protagonista. Il vincitore di questo scontro, Io se non lo avessi ancora capito, non si può far oscurare da te. Quindi continuiamo. Voglio che tu sappia che mai mi avresti potuto sorprendere. Al bistrot infatti ti avevo sentito. Mi sono guardato attorno varie volte. Cercando e non trovando. Ma i miei sensi sono acuti. Hai presente il senso di ragno di Peter Parker? Ecco così. Ti percepii subito. Fu così sconvolgente quella sensazione che mi dovetti nascondere. Annabella rimase di stucco quando corsi in bagno. Bella figura che feci e tutto perché tu eri li. Tremavo come una foglia. Ricordo la sensazione di freddo come quando la morte ti si avvicina. Mi dovetti rannicchiare contro il muro e pregare. Pregai che non mi trovassi. Adesso che sei morto non mi sfotti più come prima.
So che mentri mi guardavi mi sfottevi. Annabella dovette mandare uno a cercami. Bella figura. Ti odio. Poi spiegami… che cosa ti ho fatto? Perché ti sei accanito contro di me?
Questa è la cosa che non capisco.
La notte seguente al Bistrot fu la peggiore della mia vita. Era più di un giorno che ti percepivo. Mi osservavi in ogni mia azione. Mi attaccavi ma io resistevo alla tua guerra psicologica. Quali saranno i tuoi poteri? Mi piacerebbe proprio saperlo. Hai la possibilità di piegare la gente al tuo volere questo lo so bene. La costringi a correre scappare lontana. La puoi far soffrire. Così almeno hai fatto con me. Penso che per causa tua non riuscirò mai più a leggere Kafka. Il dolore che provai quella notte fu immenso. La testa pulsava mentre ogni nervo era percorso da fitte profonde. Che tu sia maledetto. Sono contento di vederti esanime. Alla fine ho vinto io nonostante i tuoi poteri. Dannazione non riesco mai a portare avanti il mio discorso. Devi smetterla di distrarmi anche da morto… ma sarai veramente morto?! Si Si sei morto non vi sono dubbi. Kafka ecco.
Premetto che quell’autore per il mio palato è estremamente ostico. Forse è colpa di quella prof di italiano delle superiori… un momento… che sia una tua parente? Può essere, aveva il tuo medesimo comportamento. Mi aveva portato addirittura ad odiare ciò che invece amavo. Insomma Kafka, la metamorfosi, già, come dicevo, è una luttura angosciante e tetra se ci metti una luce soffusa, il ciclico rumore basso e ovattato della ventola del pc e un dolore ritmico e martellante penso che tu abbia ricostruito esattamente lo stesso ambiente della mutazione di Gregor Samsa. Questi sono quei libri che è meglio evitare se hai mangiato pesante e se un fottutissimo essere cerca di attentare alla tua vita utilizzando i metodi più abbietti. Capisco che il tuo fisico non ti avrebbe mai portato a uno scontro frontale. Ma anche il tuo intelletto sul lungo termine non ti ha agevolato. Spossato per la notte insonne in cui mancò poco che mi sentissi veramente uno scarafaggio gigante, presi la mia decisione. Ti avrei costretto a uscire allo scoperto. Ho capito subito le tue abitudini. Ti ho studiato. Attacchi nei momenti di maggior debolezza psicologica. Nei momenti di maggior stress e nella notte. Inoltre sembra che rompermi le balle mentre mangio sia la cosa che più preferivi fare. E così dormivo e mangiavo lo stress veniva da se.
Mi siedo a tavola. Brodo caldo, pane, insalata, dolce e caffè. Ancora uno volta ti sento prepotente, insinuarti coi tuoi poteri, in me. Ti ho fatto crescere ed espanderti. Più la tua invasività sarebbe stata grande più ti sarebbe stato difficle sfuggirmi. E tu, bastardo, ci sei caduto in pieno. Questa volta non sono scappato come al Bistrot. Ti sono venuto incontro. Ti ho affrontato e sconfitto. La lotta è stata dura ma alla fine ne sono uscito vincitore.
Butto su di te questo bianco sudario. Non voglia che si dica in giro che non ho rispetto per i miei nemici. Non ho intenzione di pregare per te mi sembrerebbe una blasfemia dato che, in fin dei conti, come ti ho già detto non sei altro che un rifiuto di questa socièta malata, ricca e vorace.
Bussano. Qualcuno, al di la della porta mi inveisce contro. Addio bastardo. Spingo il bottone dello sciaquone. Il gorgo d’acqua inghiotte il tuo corpo.
Ecco FRANCI ho finito!

AUTORE - SIMONE

20 novembre 2006

IL GRIDO DEL TUO SILENZIO

La cassa viene calata nelle profondità del carnaio. La terra fredda ed intrisa di lacrime, suggella quella splendida giornata di morte. Ora inizia il crepuscolo.
Marika penetra nel minuscolo camposanto. Non è sola. Le sepolture sono murate lungo grandi pareti nere che suddividono l'interno in settori. Due vecchietti sghignazzano passandole accanto. Con occhietti maliziosi la scrutano attentamente. Marika percorre il corridoio principale, una tomba vuota la attira. Si piega e con la mano ne segue lentamente i contorni. Infila la testa dentro. Al suo orecchio giunge un suono impercettibile che cresce sempre più d'intensità. Il vagito di un neonato dato alla luce le perfora l'orecchio. Si allontana turbata. Una foto ritraente un ragazzo biondo di bell'aspetto le provoca una visione ad istantanee: UN AUTO / IL RAGAZZO E' ALLA GUIDA / E' UBRIACO SI DISTRAE / L'AUTO SBANDA / OSCURITA' / LE LAMIERE CONTORTE SONO IMBRATTATE DI ROSSO / IL PNEUMATICO SGONFIO GIRA A VUOTO / LA TESTA DORATA E' SEMISEPOLTA DAL TERRICCIO / IL FUMO SALE FINO A SFIORARE LE FRONDE SPOGLIE DI UN ALBERO / IL PNEUMATICO CONTINUA A GIRARE. Vicino un'altra foto. Una bambina con i capelli raccolti da una coda. L'ennesima visione di Marika: LA BAMBINA E' SEDUTA SU UN BALCONE / E' SOLA / GIOCHERELLA CON UN TRENINO / GLI DA SLANCIO / IL TRENINO DELINEA UNA CURVA E PASSA SOTTO LA VETRATA / PRECIPITA GIU' / LA BAMBINA SI ALZA E SI SPORGE / VUOLE RIACCHIAPPARE IL SUO GIOCATTOLO / L'UNICO CHE HA / LO RAGGIUNGE. I rimproveri di una madre al figlio down destano Marika. La madre riallaccia la cerniera dei pantaloni del bambino. Questo per pudore cerca di allontanarla. Innervosito la spintona facendola cadere all'indietro. Il bambino scappa. Dal ginocchio violaceo della madre cola un rivolo di sangue. Marika supera due fila di lapidi. Nota una persona voltata di spalle dinanzi all'angolo di un settore, vicino ad una tomba di marmo. E' un uomo vestito di nero, quasi pelato. Ha la testa ovale. La pelle di color olivastro reca delle disturbanti pieghe sul dorso del collo. Si gira adagio verso la ragazza. Un lieve scricchiolio accompagna questo suo movimento. Si arresta rimanendo di profilo. Con l'occhio sinistro la osserva. Sorride. Marika rimane a fissarlo. L'uomo si rigira verso il suo angolo abbassando il capo. Gli occhi spalancati della ragazza lacrimano. Se li riasciuga rapidamente e riprende il suo cammino. Passa in rassegna gli sguardi pregni di mistero e di rimpianti di tutte le anime presenti. Un mazzo di fiori liquefatti e gocciolanti troneggia su una lapide dimenticata. Al passaggio di Marika l'intero liquame ricade a terra. Due ometti non molto rispettosi conversano ad alta voce sulla soglia dell'entrata. Marika non se ne cura, supera una donna con un velo nero sul volto. La ragazza si ferma e senza farsi vedere inizia a spiarla. La donna è al cospetto di un caro estinto. Legge un libro a bassissima voce, alcune parole vengono pronunciate con decisione. In mano ha la Bibbia. Sfoglia una pagina. Serra il pugno accartocciandola. La strappa e la infila in bocca. Marika si allontana prudentemente verso il penultimo settore dove la attende il bambino down. Lui è seduto a terra e tiene la mano dentro la crepa formatasi in una lapide. Da questa sgattaiola fuori un grosso topo nero seguito da una torma di scarafaggi. Estrae la mano. Tiene stretto un topolino che si dimena. Il bambino gli molla un morso che gli stacca di netto la testolina. La ragazza indietreggia spaventata. Tutti i personaggi del camposanto si sporgono sul corridoio principale dai loro rispettivi settori. La guardano in silenzio. Le si avvicinano piano piano. Il bambino down si alza e le porge quel che resta del topolino. Marika cerca la fuga nell'ultimo settore. Sa che non ci sono altre uscite. Alza gli occhi. Dal soffito spuntano facce urlanti pietrificate ammassate tra loro. Sono finalmente arrivati. Sono davanti a lei. Tutti insieme puntano il dito su una tomba che le è accanto.Marika volge lo sguardo verso la foto incorniciata che la ritrae. / TUTTO SI FA BUIO /. Marika apre gli occhi. E' distesa dentro una cassa. Sopra di lei uno specchietto da cui scorge il cielo. Lo specchietto inizia ad oscurarsi lentamente. Della terra viene gettata sulla cassa. Marika spalanca la bocca mentre calano le tenebre. Ora tutto tace. Niente più si sente, tranne il grido del tuo silenzio Marika.

AUTORE - CHRISTIAN MARCHI

10 novembre 2006

PUNTI DI VISTA

Se vi racconto ciò che ho visto, sono sicuro che non mi crederete. Non certo perché io sia incapace di dire cose sensate, quanto perché so già che non mi riterrete un testimone attendibile. Mi è capitato altre volte, ormai ci sono abituato, ma non ci faccio più caso e nemmeno mi offendo. Qui ad avere dei problemi siete voi, mica io.
Io ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare, e non è affatto una presa in giro, la mia. È una cosa seria. Dal mio punto di vista la prospettiva è diversa, impari a guardare la gente dal basso verso l’alto e non il contrario, come fanno tutti quelli con la puzza sotto al naso. Un vizio che hanno preso parecchi, di questi tempi. Ma lasciamo stare. Dopotutto sono qui per dare informazioni sull’accaduto. Tutto quello che so. Una gran brutta faccenda davvero. Ma partiamo dall’inizio.
Dall’Italia qualche giorno fa era arrivata questa coppia di sposi novelli. Li ho visti entrare e prendere possesso della casa del proprietario del B&B in cui avevano trovato un alloggio di fortuna. Di questi tempi gira molta gente qui, anche se non si direbbe, e si fa fatica per trovare un tetto, ve lo assicuro. Erano innamorati l’uno dell’altra, si vedeva, e si sono ambientati subito. Erano pure entusiasti del posto: telefonavano a casa quasi ogni giorno per dire ai parenti che stavano bene e che tutto andava per il meglio, che si divertivano e che qui tutto era stupendo. In fondo, siamo pur sempre a Caracas, non in una località qualsiasi. Sole, mare, relax, sollazzi. Gli ingredienti ci sono tutti per andare alla grande.
Tutto è andato per il meglio, fino a ieri. Ieri notte è successo un casino. Inaspettato. Nemmeno io avrei potuto immaginare una cosa del genere. Io ero presente. Ho visto tutto.
Erano le due circa quando ho iniziato a sentire dei rumori strani. Di solito di notte c’è pace, qui, un silenzio totale interrotto solo dai richiami di qualche uccello notturno.
Erano in quattro. Sono entrati e hanno raggiunto la coppia di sposi che dormiva in camera da letto. Hanno tirato fuori dei fili di ferro e li hanno legati poi hanno iniziato a malmenarli, a picchiarli con violenza con degli oggetti contundenti. Uno li ha persino colpiti al viso con un remo. Un gesto unico di efferatezza gratuita. I quattro parlavano la lingua del posto, si capiva che c’era qualcosa sotto. Insomma, non erano lì per caso, non volevano soldi o gioielli, le solite cose di routine. Erano lì per un motivo ben preciso. C’è di mezzo un pezzo grosso, una vendetta trasversale, ci metterei la mano sul fuoco se solo ne avessi una.
Infine, se ne sono andati. Li hanno lasciati legati come due salami e li hanno creduti entrambi morti. Invece si sono sbagliati. Il tizio ha fatto solo finta, è stato lui a chiamare i soccorsi trascinandosi al telefono e chiamando la polizia. Per sua moglie non c’è stato niente da fare. Quando è arrivata l’ambulanza si sono accorti che era morta soffocata, strangolata dal filo di ferro. Non vi dico quanto sangue e schifezze c’erano in giro, e non vi dico quanti improperi ho tirato io, quando sono venuti quelli della scientifica a visionare il luogo del delitto. So già che nei prossimi giorni mi aspetterà la rogna della pulizia. Una cosa che non auguro a nessuno.
Lo so, lo so. Li conosco i tipi come voi. Quelli che fanno romanzi struggenti sopra ogni cosa. Non fate gli ipocriti, so anche che non vi importa niente, dopotutto siete pur sempre giornalisti. Siete qui per raccogliere testimonianze, no? E allora, eccomi qui. Adesso potrete scrivere nei vostri articoletti tutti lacrime e colpi di scena che avete incontrato un testimone insensibile e cinico che vi ha raccontato i fatti senza un filo di emozione, senza un moto di commozione, un testimone duro e freddo a cui non frega nulla di questi due poveretti che volevano solo farsi una vacanza in pace e sono capitati al momento sbagliato nel posto sbagliano nelle mani sbagliatissime di uomini senza scrupoli. Scrivete pure. Ah già, dimenticavo che non mi considerate una voce attendibile. In fondo avete ragione, la mia non è una voce che potete (o volete) capire.
Sarò cinico come dite, ma mettetevi un po’ nei miei panni: nella mia situazione non vedo in quale altro modo si possa sopravvivere se non così.
Maltrattato, calpestato ogni santo giorno, preso continuamente a secchiate e strofinato con acido e varechina. Voi non sapete quanto sia dura essere come me, ve lo assicuro. Non immaginate quanto sia frustrante stare qui. Non vorreste essere al mio posto, ci potete scommettere. Ma per essere un pavimento, vi assicuro, ne ho viste sin troppe. E dopo questa notte, direi che ne ho avuto abbastanza.

AUTORE - ELISELLE

06 novembre 2006

SENTIRE

Perché qualche volta non c’è più strada davanti.
<> di Robbie Williams.
Non mi sentivo così nostalgico da quando,
erano anni che non succedeva.
Questa canzone mi ha spezzato il cuore. È arrivata dentro.
Esco a farmi un paio di Sambuca. Alcool per alimentare i pensieri.
Nel bene e nel male. Che sennò s’intorpidiscono.
Poi ho voglia di sfinirmi. Poi non riesco a fermarmi.
La solitudine. Questa tremenda cosa. Siamo tutti soli.
Uscire a vedere il mondo da soli. Senza di te.
Questo mi fa stare male.
La sera andare al bar da solo. Ho paura di questo.
Perché qualche volta non c’è più strada davanti.
Poi mi intontisco mi alleggerisco, almeno un po’
e riesco anche a dormire.
Tutto sembrava bello all’inizio. Poi la vita ci ha spezzato.
Frantumato. Strangolato. Ci ha spezzato il cuore.
Mi manchi. Dio cristo quanto mi manchi.
Tutto muore. Non quel ricordo della gioia cui ti attacchi
e anche se lo sai che è falso. Quando tutto questo cominciò,
tutto sembrava più bello.
Poi m’hanno spezzato il cuore.
Poi sono passati anni.
Sono già passati anni col cuore spezzato.
Sono passati anni nel buio.
E qualche volta. Davvero non c’è più strada davanti.
Alcool soltanto per rilassarmi.
La vita che precipita.
Sembrava tutto bello all’inizio.
Questa è vita sofferta.
Quel bambino che io ero una volta che poi è morto.
Gli hanno spezzato il cuore e non è mai riuscito a reagire.
La vita sembra bella all’inizio.
La prima morte è col parto.
Fanculo la scuola. E ripetere e ripetere.
E ancora e ancora.
Mai stato uno studente brillante.
Sono una persona agitata.
Brame e voglie mi sconquassano.
La sera devo sfiancarmi o non riesco a dormire.

Lei giocava alla bambina cattiva. Viziosa vissuta e lussureggiante.
Non aveva mai vissuto niente e cercava di immaginarselo.
Con quell’aria da precoce.
La mia passione per lei diventò sconfinata.
Lei non se la sentì mai. Solo quando si perse, si avvicinò un po’.
Ma senza trovare forza e coraggio,
per spingere quel tasto,
che c’avrebbe devastato.
Così ci siamo devastati distanti, con altre cose e altre persone.
Sono passati dieci anni, forse ci pensiamo così tanto ancora intensamente.
Sono passati dieci anni, e non è cambiato niente.
Perché lei c’aveva quegli occhi cattivi,
che io desideravo così tanto,
così tanto fino al punto che un giorno capii bene,
io non mi sarebbe mai bastato scoparla e devastarla
di quella purezza che conservava in fondo nascosta:
io volevo essere lei.
Io volevo essere lei. La bambina cattiva.
Che gioca alla vita. Con le false pose di chi ancora,
non lo sa com’è che stanno le cose,
e quando non lo sai,
quando il vuoto lo riesci a tenere ancora lontano,
la vita riesci a godertela.

AUTORE - Livio D'Addario

17 ottobre 2006

SETTIMO PIANO

Quando sei bambino hai la testa di vetro.
Credi di avere pensieri tuoi, che nessuno sappia che cosa ti si agita dentro. Ma non è così. Quello che pensi, quello che provi quasi sempre i tuoi genitori te lo leggono in faccia. Non possono cambiarli, questo no, ma li conoscono. E la stessa cosa vale per quello che fai. Credi, al parco con gli amici, di vivere avventure incredibili ma loro ti osservano. Credi che loro non si accorgano che ogni tanto mangi di nascosto qualcuna delle caramelle nella credenza. Ma la verità è che il tuo mondo è una specie di prigione di cristallo dai margini invisibili. Il prezzo della protezione che loro ti offrono (a cui ti costringono) è l’infrangibilità delle loro regole, la tua impotenza al fare.
Dopo, con l’adolescenza, le cose si allentano a poco a poco. Probabilmente sanno che fumi qualche sigaretta di nascosto, il fumo ti rimane attaccato ai vestiti e tu gli dici che è il fumo di altri. Gli basterebbe guardarti nel cassetto per rivelare il tuo segreto, ma non è detto che lo facciano. E’ lo stesso gioco delle parti di un tempo, ha solo assunto un sembiante diverso. Prima eri tu che fingevi di fare le cose, dopo sono i tuoi genitori a fingere di non vedere.
Ad un certo punto, quasi di colpo, ti trovi dall’altra parte. Magari finisci a fare il professore e ti accorgi che, da alunno, il tuo copiare di nascosto era soltanto un teatrino. Vedi chiaramente i tuoi studenti ripetere i tuoi gesti di allora, e capisci che in realtà i tuoi professori fingevano soltanto di non vederti. Allo stesso modo in cui tu richiami soltanto una piccola parte di coloro che nella loro disobbedienza sono più plateali. Non devono capire che ciò che pare proibito è in realtà tollerato.
In molti suoi aspetti questo gioco te lo porti dietro tutta la vita, in tutti i tuoi rapporti umani. Fingi di non vedere quello che ti è sotto al naso. O magari semplicemente eviti di andare alla ricerca di una verità scomoda che pure si ti si offrirebbe con un minimo sforzo.
Alla fin fine l’unica verità è che molto spesso, semplicemente, non vuoi sapere.
Ti ritrovi genitore e sai benissimo che è tua figlia a far sparire i rotoli di carta igienica per prendere il cartone che sta al centro. Lei nega e tu fingi di crederle. In sé è una cosa innocua, e poi non puoi impedirle di fare tutto. Anche tu come i tuoi genitori hai iniziato a fingere di non vedere, questa come mille altre cose.

Poi nasce il tuo secondo figlio.
Tua figlia ha quattro anni e non vuole dividere con lui le tue attenzioni. Un giorno ti arrabbi molto perché mentre il fratellino è nel suo box lei gli fa esplodere un palloncino vicino all’orecchio. Per te è un rimprovero come tanti altri, banale, magari solo un po’ esacerbato dalla rabbia per i tuoi guai al lavoro. Ma quello che sente tua figlia è diverso. Non le pare che tu l’abbia mai sgridata a quel modo e pensa che se vuole avere ancora il tuo amore, anche lei deve amare suo fratello.
Comincia a stare sempre con lui, ad accudirlo come una seconda piccola madre. Sarebbe una cosa bellissima, quasi commuovente, se non fosse che finge. Tu lo sai, glielo leggi in faccia che ora lei lo odia anche di più perché si sente costretta ad amarlo.
Ma non puoi farci nulla. Provi a spiegarle che è soltanto un momento. Che lui non avrà sempre bisogno di tante attenzioni, che quando sarà un po’ più grande insieme si divertiranno un mondo. Lei dice di sì, dice che non capisce perché glielo ripeti così spesso visto il bene che lei ora gli vuole… visto che gli sta sempre appresso… che sta sempre con lui. Non riesci a penetrare la sua corazza. Lei pensa di fingere bene, e tu ti illudi che forse un giorno o l’altro la finzione diverrà semplicemente realtà. Come se questo potesse avvenire con un semplice schiocco di dita.
La verità è che la capisci anche, in un certo senso, è stato così anche per te quando eri bambino, finché tuo fratello non è morto.
Aveva tre anni quando è caduto, tu quasi nove. E’ successo dalla finestra del tinello di quella stessa casa. C’eri anche tu nella stanza, anche se non ricordi praticamente nulla. C’era quel davanzale basso e lui c’era sopra e tu lì vicino. Poi lui era giù.
Sette piani.
Dopo i tuoi genitori hanno voluto andarsene da lì. Troppi ricordi, troppo dolore. Hanno comprato un’altra casa e quella l’hanno affittata. Ci sei tornato a vivere tu con tua moglie quando è nato il secondo figlio. Ti ha fatto uno strano effetto i primi giorni. Non c’eri più tornato, ti pareva di ricordarla appena e invece hai scoperto di riuscire a rilevare ogni singolo dettaglio cambiato.
Ma è passato tanto tempo, sembra quasi la vita di un altro.

Poi accade. Nel tinello. Un giorno qualunque, oggi.
Il fratellino è sul seggiolone. E’ agitato, vorrebbe scendere, tu sei andato in bagno un istante. Tua moglie è uscita. Entrando nella stanza vedi distintamente che è tua figlia ad averlo aiutato ad uscire dal seggiolone, a farlo cadere. Lo ha fatto apposta.
Tuo figlio è a terra. E’ caduto all’indietro, di schiena. E’ rimasto senza fiato. Corri da lui, lo sollevi tra le braccia, comincia a piangere disperatamente. Non è successo nulla, solo una botta.
Non è successo nulla di grave.
Nulla di grave.
Ti volti verso tua figlia. Lei ti guarda con occhi spaventati. La sua paura non è per quello che è successo, non è per la salute del fratello: è perché non sa se tu l’hai vista spingerlo oppure no. “E’ caduto.” Mormora sull’orlo delle lacrime: “E’ caduto da solo.” Ripete.
Lo fa per convincere te, ma anche sé stessa. Di colpo ha orrore di quello che ha fatto, o forse solo delle conseguenze.
E tu non sai che fare. Vorresti poterle credere, davvero. Vorresti non avere visto. Ma hai visto.
Ti giri, guardi il tuo viso riflesso nella specchiera e d’improvviso il tuo mondo crolla. Il tuo sguardo… il tuo sguardo è lo stesso che aveva tua madre quando tuo fratello è caduto dalla finestra.
Col passare degli anni il ricordo si è confuso, è sfumato. Hai dimenticato o forse solo finto. Persino tu ti sei convinto che sia stato soltanto un incidente, ma lei… tua madre… lo ha sempre saputo.
E ora che il calderone si è scoperchiato anch’io sono tornato. Pensavi di avermi cacciato… non ti ricordavi nemmeno che ero esistito. Ma io ero sempre qui, nascosto nella parte più remota del tuo essere. Sono stato con te tutto il tempo. Ti ha fatto comodo fingere che fossi stato io, non è vero? Ma non è così. O almeno… non da solo. Sono stato io sì, ma anche tu.
Siamo stati noi, insieme e lei, nostra madre, lo ha sempre saputo.
Lo abbiamo spinto giù, perchè lo odiavamo.
E lo abbiamo fatto insieme perché siamo indivisibili.
E ora guarda: dalla finestra occhieggia un riquadro di cielo terso del tutto simile a quel giorno lontano. E’ il momento di regolare i conti. L’infante l’hai già in braccio, la bambina non ti sarà difficile prenderla per mano.
E’ il giudizio di Dio, la nostra ordalia. Ci aiuterà a capire. Non se siamo colpevoli o meno, perché lo siamo, ma almeno se possiamo essere perdonati.
Sette piani.
Se saremo forti, se smetteremo di odiare, forse tutti e quattro insieme riusciremo a volare.

AUTORE - MAX

11 ottobre 2006

LA NONNINA

Alla piccola Rosi, dalle lunghe treccine, hanno sempre detto che la nonna era molto stanca che stava poco bene. Le è sempre stato tassativamente vietato di salire al secondo piano della casa, dove giaceva nel suo lettone la nonna. Tutte le sere i genitori di Rosi le portavano da mangiare, salendo lentamente quegl'interminabili scalini scricchiolanti. La piccola Rosi non l'aveva mai vista ma la sentiva canterellare una ninna nanna, con quella vocetta soffocata che tanto la spaventava.
Ogni qualvolta che i suoi genitori le intimavano di non salire, questi assumevano un'espressione severa. Non volevano in alcuna maniera che si spingesse al secondo piano, nella cameretta della nonna.

La prima occasione Rosi non se la fece sfuggire. Con quell'incoscienza che è di tutti i bambini di cinque anni, sali' di sopra mentre i genitori erano occupati in altre faccende. Fece gli scalini uno ad uno aggrappata alla ringhiera, e percorse il corridoio in penombra con passettini felpati senza farsi sentire. Si arrestò dinanzi ad una porta robusta, da cui proveniva nitida una cantilena infantile.
D'improvviso la vocetta la chiamò per nome. La bambina sorridente girò la maniglia ed entrò dentro. In mezzo alla cameretta ben arredata, legata al lettone con delle cinghie c'era la nonna. Solo le braccia le era consentito di muovere. Oscillando perennemente la mandibola come in una sorta di rito, era intenta a fissare la nipotina, con quei suoi occhioni vuoti . Era per quella malattia debilitante che la costringeva all'immobilità da molto tempo che la sua faccia si contorceva in maniera tanto buffa. Appoggiata su un mobiletto lì a fianco, una bamboletta nera infilzata da una miriade di spilli.
La nonna a stento cercò di allungare la mano raggrinzita in direzione di Rosi, chiamandola a sé, e contemporaneamente iniziò ad intonare la stessa ninna nanna di prima. La bambina non più di tanto sorpresa, fece qualche passo in avanti continuando a sorridere. Accostò la sua manina su quella della nonna che gliela strinse forte, molto forte.
La nonna con un sussulto si alzò dal lettone strappando le cinghie, afferrando violentemente Rosi per i capelli e trascinandola a sé, verso le sue labbra violacee. La bambina non ebbe il tempo di strillare che rimase succube del bacio crudele della nonna.
La porta si chiuse pesantemente alle loro spalle.

Un silenzio assoluto pervase i muri di tutta la casa che era abituata ad ascoltare le voci di due generazioni diverse ma che in futuro sarebbero divenute un tutt'uno.

La porta si aprì lentamente e Rosi uscì fuori. La mandibola le tremava vistosamente come se avesse un tic, ma ciò non le impedì di canterellare la sua ninna nanna. In grembo teneva la bambola nera priva di tutti gli spilli, mentre alle spalle si scorgeva il corpo senza vita della nonna.

AUTORE - CHRISTIAN MARCHI

09 ottobre 2006

XOMEGAP - ANTOLOGIA

Lo staff di XOMEGAP è stato invitato a partecipare al seminario

IL FENOMENO DELLE ANTOLOGIE
Da Gioventù cannibale a The dark side attraversando Gli intemperanti e Semi di fico d'India

BOLOGNA - 24 OTTOBRE 2006 - h18 Mel Bookstore, Via Rizzoli 18

Qui di seguito il link del seminario
IL FENOMENO DELLE ANTOLOGIE

e il link della nostra intervista se qualcuno vuole lasciare commenti! ;-)
IL FENOMENO DELLE ANTOLOGIE - BREVE DI XOMEGAP

03 ottobre 2006

FUTURO IMPERFETTO

Joe sapeva che quella non sarebbe stata una buona giornata. Lo aveva capito non appena il suo piede si era appoggiato sulla stuoia di pelo che teneva affianco al letto e la sua intuizione fu confermata nell’attimo in cui, varcata la soglia della cucina, posò i suoi occhi su Trome.
Il paffuto ragazzetto dai biondi capelli ricci tagliati a caschetto era intento a leggere il giornale.
“Che hai combinato questa volta?” domandò Trome facendo riecheggiare nella stanza il rumore della carta di giornale accartocciata dalla frenetica stretta delle sue mani.
Joe voleva scappare ma ormai era troppo tardi. Le azzurre pupille del giovane lo fissavano con intransigenza. Il volto rosso dalla rabbia.
“Io?! Niente di male suppongo.”
“Niente di male dici?! Forse allora sarà meglio che tu legga il giornale” sentenziò Trome spingendo il quotidiano verso il suo interlocutore.
“Esattamente pagina dieci e la prima pagina locale”
Il TalCual era un giornale nazionale indipendente del Venezuela. Come Joe sapeva Trome adorava i giornali indipendenti sostenendo fossero maggiormente in linea con la sua essenza.
L’articolo principale della pagina dieci parlava di un grosso disguido all’aeroporto italiano di Linate. A causa di un guasto al sistema di controllo tutti i voli internazionali in partenza erano stati sospesi mentre quelli in arrivo erano stati dirottati presso l’aeroporto internazionale di Ciampino. Dalle prime notizie il guasto avvenuto intorno alle diciassette sembrerebbe esser stato causato da un virus informatico introdotto nel sistema da una postazione interna allo stesso aeroporto.
Un sorriso di soddisfazione percorse il volto di Joe.
“Questo pirata informatico è stato veramente bravo.” affermò Joe sfogliando il giornale in cerca della pagina locale.
“Leggi pure anche l’altro articolo” disse con aria di sfida Trome alzando un sopracciglio nel tentativo di guardare ancor più di sbieco l’alto e robusto giovane.
“Vediamo: Caracas. Guardia giurata in preda a follia amorosa spara al suo rivale.
Ieri notte in un appartamento sulla riviera di Caracas F.C. 40 anni broker finanziario italiano è stato ferito da un colpo di pistola esploso da J.M. 25 anni di professione guardia giurata. Sembrerebbe che J.M. fosse venuto a conoscenza che la donna con cui conviveva avesse da tempo una relazione con il businessman italiano. Sentendo lo sparo i vicini hanno chiamato la polizia che, intervenuta sul luogo dell’incidente, ha trovato F.C. riverso a terra. Subito è stata chiamata l’ambulanza che ha ricoverato l’uomo nel reparto di chirurgia. Le condizioni di F.C. non sono state ancora rese note ma fonti non ufficiali affermano che l’uomo stia ancora combattendo una strenua lotta contro la morte.”
Silenzio. Una goccia di sudore si fa strada lungo la tempia di Joe.
“Ero convinto che sarebbe morto. Scusami Trome.”
“Allora vedi che non capisci un tubo!” sbraitò il ragazzetto
“Per fortuna che è ancora vivo! Pensa il casino che sarebbe successo se fosse morto!”
Joe rimase stupito da quella affermazione.
“Ma non mi hai detto tu di occuparmi della questione?!”
Trome si lasciò scivolare, impotente, dalla sedia.
“Non ho ancora capito se sei davvero imbecille o se semplicemente hai un buco nero nel cervello. Io ti avevo detto di fare tutt’altra cosa. Hai ancora il post-hitt che ti ho dato l’altra sera?”
Joe si frugò nelle tasche e oltre a tirarne fuori scontrini, centesimi, chiavi e carte argentate di chewingum estrasse anche una pallina di carta gialla. Ripristinandone la forma meglio che poté Joe la mostrò a Trome.
“Bravo almeno abbiamo la prova della tua deficienza. Leggi ora per favore”
“Allora…” iniziò Joe schiarendosi la voce nel tentativo di nascondere l’emozione.
In quel momento si sentì come se fosse ritornato sui banchi di scuola, quando la maestra ti chiama per l’interrogazione e tu sai di non sapere assolutamente nulla di ciò che ti chiederà.
“Prima vai in Italia assicurati che siano in aereoporto poi vai a Caracas
IMPORTANTISSIMO ore 17 italia bloccare aeroporto Caracas”
“Bene. Adesso rileggilo con la punteggiatura.”
“Prima vai in Italia: assicurati che siano in aereoporto. Poi vai a Caracas.
IMPORTANTISSIMO: Ore 17 italia; bloccare aeroporto Caracas”
Joe, perplesso, non riusciva proprio a capire che differenza ci fosse da quello letto in precedenza.
“Te lo ripeterò con parole semplici in modo che tu possa capire finalmente ciò che hai letto.
Dovevi assicurati che i due fossero all’aereoporto dopo di che saresti dovuto andare a Caracas.
Una volta a Caracas avresti dovuto introdurre il virus nel sistema dell’aereoporto alle diciassette orario Italiano. Questo avrebbe fatto si che il nostro amico broker fosse già in volo. Che la nostra amata coppia arrivasse a Caracas con un paio di ore di ritardo ma comunque nei tempi stabiliti e che la buona guardia giurata uccidesse, carica d’ira per l’attesa, le persone sbagliate!”
Joe bianco come uno straccio deglutì rumorosamente.
“Ora mi ritrovo a dover fare gli straordinari e sai quanto odio doverli fare.”
“Scusami Trome non pensavo di…”
“Questo è il punto Joe: non pensi. Mi chiedo come mai fra tutti quelli che hanno fatto richiesta di venire a lavorare per me abbiano mandato proprio te. Certo che sono dei gran burloni quelli dei piani alti. Giuro che alla prossima riunione mi farò sentire” affermò Trome prima di prendere una lunga sorsata di latte dal suo bicchiere.
“Come risolvo la cosa adesso?” domandò Joe mortificato.
“Risolvere la cosa tu? Sei impazzito!” esclamò il giovane mettendo in mostra due spessi baffi di latte
“ Ci penserò io a sistemare tutto. Tu occupati di scrivere gli incarichi sul libro mastro e cambia il modo in cui quei tre periranno. Metti…incidente aereo.”
“Ma non erano due”
“In verità sono tre. Lei è incinta e quello spirito che porta in grembo non deve vedere luce per un altro secolo.”
Trome lasciò la cucina e quando uscì di casa il suo corpo non era più quello di un bambino rubicondo ma quello di un giovane dai lunghi capelli che stringeva forte nella mano la lunga asta della falce mietitrice di vite.

AUTORE - SIMONE