28 aprile 2007

LE LONTANE LUCI DI CASA

Il sole stava ormai tramontando ed era ancora lontano da casa.
Poco male… non aveva voglia di tornare.
Fissò lo sguardo sul disco rosso fuoco che lentamente scendeva dietro ai contorni frastagliati delle cime dei monti. Sulle vette più alte era già caduta la prima neve.
Una folata di vento gli scompigliò i capelli e lui distolse lo sguardo dal sole.
La valle era già in ombra, le luci dei lampioni e delle case andavano lentamente accendendosi. Piccoli punti luminosi sotto di lui. Alzò lo sguardo: anche le stelle una ad una cominciavano a comparire. Piccoli punti luminosi sopra di lui.
I suoi occhi si posarono sulla sua moto: Kawasaki Ninja 1000 NZ-10R verde Kawa.
Anche lei sembrava fissare la valle e anche lei sembrava riflettere. Guardò il suo profilo sinuoso; avvicinandosi sentì il calore che emanava dal motore, era bellissima e forse… forse era l’unica a conoscerlo davvero.
“L’unica donna che non mi ha mai deluso…”
Le posò una mano sulla sella e l’accarezzò lentamente.
Quanta strada aveva percorso in sella ad una moto, insieme a quest’ultima arrivata e a tutte quelle che l’avevano preceduta. Quanti paesaggi meravigliosi avevano visto, quanto sole e quanti temporali. E poi, le emozioni che aveva provato, a volte persino la paura; nei suoi ricordi più belli le sue moto erano quasi sempre presenti.
… pensò che forse questo avrebbe dovuto farlo riflettere…
Lanciò un ultimo sguardo al sole che sempre più velocemente veniva inghiottito dai monti, i suoi occhi dai riflessi verdi catturarono l’ultimo raggio prima che il disco di fuoco scomparisse del tutto.
Era ora di tornare.
Si infilò il casco e montò in sella. Ubbidiente, come sempre, la sua Signora rispose al suo delicato comando e in un attimo lasciarono lo spiazzo panoramico.
Conosceva molto bene quella strada, l’aveva percorsa centinaia di volte; centinaia nei suoi trent’anni di vita. Conosceva ogni curva e ogni avvallamento, ogni difetto dell’asfalto, ogni albero e ogni centimetro di paesaggio.
A quell’ora non c’era mai nessuno, i turisti erano già scesi dalle vette e lungo quella salita non abitava quasi anima viva.
Decise che aveva voglia di divertirsi un po’… in fondo era domenica sera, lo attendevano una casa troppo grande e una donna che non amava più, domani sarebbe dovuto tornare al lavoro e sarebbe stata una settimana fitta di impegni. Invece ora c’erano solo lui e la sua Ninja; loro e la strada più bella di tutta la regione.
Diede gas e si preparò ad impostare la curva.
Il bosco sfrecciava al suo fianco, gli alti abeti formavano un muro compatto e impenetrabile.
Sopra la sua testa il cielo vestiva il suo manto più scuro e accendeva le sue mille lanterne d’oro: la notte si stava preparando a dare il benvenuto alla sua Regina.
E lui correva. Il cuore libero da ogni pensiero, il vento che allontanava da lui ogni problema: il tempo che passava, l’Amore non ancora trovato, gli errori commessi, le delusioni, le persone che non capivano… ora c’era solo la libertà, l’adrenalina, la vita che sentiva fluire in ogni centimetro della sua anima.
D’improvviso una luce strana attirò la sua attenzione, rallentò e accostò in un piccolo spiazzo a lato della strada. La valle sotto di lui sembrava già addormentata, si voltò verso la luce che aveva intravisto alle sue spalle e rimase per un istante con il fiato sospeso.
Quella era una notte di luna piena e lentamente l’astro candido si apprestava ad occupare il suo trono nel cielo.

Era stata una giornata strana quella.
Aveva ritrovato vecchi amici che non vedeva da molto tempo, vecchi amici tutti uniti dalla stessa passione per la moto. Amici che venivano da lontano, che vivevano vite diverse in paesi diversi, che avevano opinioni diverse e facevano lavori diversi… eppure… eppure ogni volta che si incontravano sembrava che tutto quello non avesse la minima importanza.
Tutte le differenze sparivano e rimanevano solo le persone, anime simili che godevano del solo fatto di essere lì insieme.
Era stata una bella giornata, l’autunno aveva messo a loro disposizione la sua tavolozza più bella tingendo il cielo di un cristallino celeste, i boschi d’oro e di rame scintillante e le colline del verde più fresco.
Il sole li aveva accompagnati lungo tutto il tragitto attraverso i sentieri di un’affascinante regione sospesa a metà fra i monti e il mare.
Si… era stata una bella giornata… e non aveva nessuna voglia di vederla finire…
«Parlami bella luna… dimmi dov’è la mia Principessa…»
Ma la Regina del cielo non diede segno di averlo sentito. Era troppo lontana forse; o non c’era risposta a quella sua domanda. Forse lui la sua Principessa l’aveva già incontrata e perduta.
Già… una volta lei era stata la sua Principessa e poi… cos’era successo? Perché il tempo impietoso li aveva allontanati tanto? Come avevano potuto permetterlo?
Nascose la testa fra le braccia incrociate sul serbatoio. La luce candida lo accarezzava lieve, come una mano gentile giunta a consolare quel pianto silenzioso.
Doveva tornare.
La sua Signora attese paziente che lui fosse pronto e poi lo riportò lungo la strada che lo avrebbe condotto di nuovo a casa.

«Ma ti rendi conto di che ore sono?»
Lui non rispose, appoggiò il casco e si slacciò la giacca.
«Mi stavo preoccupando, non mi avevi detto che saresti tornato così tardi!»
Sempre in silenzio lui si diresse in bagno e aprì l’acqua della doccia che cominciò a scorrere coprendo la voce di lei che continuava a rivolgergli rimproveri misti a richieste di spiegazioni.
«Sto parlando con te!»
Lei era entrata in bagno; lui si fermò un istante a fissarla: indossava una vestaglia e calzava le pantofole, i capelli erano leggermente in disordine; probabilmente si era addormentata sul divano mentre lo aspettava.
Non sapeva che dirle. Non avrebbe potuto dire nulla di giusto in quel momento; tanto era arrabbiata e non lo avrebbe ascoltato.
«Oh, vai al diavolo!» lei si girò di scatto uscendo, lui intravide i suoi pugni stretti e i suoi occhi leggermente lucidi; forse si era preoccupata davvero… Forse avrebbe dovuto fermarla, chiedere scusa…
Finì di spogliarsi e si infilò sotto al getto caldo della doccia.
L’acqua gli tolse di dosso il profumo del vento e il calore del sole di quella domenica e in cambio lo rivestì con un manto di stanchezza e malumore.
Andò in camera ma lei non era a letto, andò in cucina ma non era neppure lì, la trovò in sala, davanti alla televisione accesa.
«Vieni a dormire?»
Lei gli rivolse uno sguardo di fuoco, forse aveva capito male… ma lui sapeva che quello era il segnale che annunciava l’inizio di una sfuriata. Ora che lui le aveva concesso un istante di attenzione lei lo avrebbe seppellito con i suoi rimproveri e le sue lamentele.
E così accadde.
Lui rimase lì in piedi davanti a lei; cercò di rivederla come quando era la sua Principessa… ma le due immagini non ne volevano proprio sapere di sovrapporsi.
La sua voce gli dava fastidio, non avrebbe resistito molto, si preparò mentalmente a rispondere a tono a tutto quello che lei gli stava sputando addosso ma all’ultimo minuto decise di tacere.
La fissò ancora per un istante e poi uscì.
Tornò ad infilarsi la tuta, gli stivali e la giacca e, raccolto il casco, uscì di casa.
La Ninja non era ancora addormentata del tutto, il suo motore era ancora tiepido e in un attimo tornò a cantare per lui.
«Andiamocene di qui piccola mia»
Era rimasto calmo fino a quel momento, ma ora il suo malumore stava peggiorando velocemente. Si lanciò sulla strada che usciva dalla città, voleva solo fuggire lontano.
Il vento lo graffiava con i suoi piccoli denti di ghiaccio, la luna era ancora lassù, indifferente alla sua rabbia.
Era arrabbiato, si, era deluso… andassero tutti al diavolo, non aveva diritto anche lui ad essere felice?
Aumentò la velocità: anche se la strada era avvolta nell’oscurità lui conosceva ogni curva a memoria e la anticipava senza quasi mai frenare.
La sua Signora cantava nella notte, sfogando quel grido che la sua voce non riusciva a liberare.
Ancora un tornante, sempre più in alto, verso la luna, verso il paradiso, lontano da quella valle buia, lontano da quella prigione che era diventata la sua vita.
Ogni errore si dovrebbe poter correggere.
La prossima curva era particolarmente stretta, lo ricordava bene, una volta era persino caduto, doveva rallentare… ma la sua mano sembrava non voler mollare la presa. Avrebbe potuto finire così: cancellare in un istante tutti gli errori, volare con la sua Signora oltre quella curva e finire come una stella cadente.
La curva si stava avvicinando velocemente e lui non aveva ancora cominciato a rallentare, preso d’improvviso da una follia che rischiava di portarlo troppo lontano.
Sentiva l’adrenalina esplodere nel suo petto, la morte si stava avvicinando a lunghe falcate, la fine dei suoi problemi… solo il silenzio e la libertà…
Poi, non chiamata, una voce esplose nelle sue orecchie; era solo un sussurro, ma a lui parve un boato «Sii prudente».
In un istante fu di nuovo catapultato nella realtà, vide la curva, richiamò i cavalli della moto e, a fatica, la convinse a voltare il capo verso la strada e non verso il vuoto.
La Ninja protestò e lui sentì le ruote slittare… la stava perdendo… ma non si diede per vinto, ogni suo muscolo concentrato nello spasmo, ogni briciolo della sua attenzione assorbito dal tentativo di rimanere in piedi.
E alla fine la sua Signora si fermò.
Era sull’erba, al limitare del bosco che pochi centimetri dopo si gettava nel vuoto della valle addormentata, un ginocchio per terra, l’altro piede ancora sul pedale del cambio, una mano a terra, un sasso fastidioso proprio sotto al palmo.
Era finita. Era ancora vivo. La moto non si era neppure graffiata A fatica si risollevò e sistemò la Ninja sul cavalletto.
Si tolse il casco e si deterse il sudore dalla fronte. Era ancora vivo.
Poi, mentre si riempiva i polmoni della fredda aria della notte fissando il nulla in cui aveva rischiato di sparire, gli tornò in mente la voce.
Quella voce che lo aveva salvato.
Frugò fra i ricordi per collegare un volto a quella voce sussurrata e, dopo diversi minuti vide due occhi e un sorriso.
Ma certo… era una delle motocicliste che aveva rivisto quel pomeriggio. Era seduta accanto a lui a pranzo e avevano parlato per tutto il tempo. Fra le varie battute lui le aveva accennato dei suoi problemi con la moglie, cambiando presto argomento perché quello era un giorno dedicato alla spensieratezza.
Al momento dei saluti lei lo aveva fissato con i suoi occhi scuri e gli aveva sussurrato «Sii prudente; se vuoi per stasera ti presto il mio angelo custode».
Avevano riso della battuta, ma in fondo al sorriso di lei forse c’era una nota di preoccupazione.
Sentì che qualcosa dentro di lui si stava rompendo: il muro dietro cui continuava a relegare i suoi sentimenti stava cedendo, ma questa volta non avrebbe combattuto per trattenerli. Si sedette e lasciò che il suo cuore fosse investito prima dal dolore, poi dalla stanchezza e infine da quello strano calore che il ricordo dell’amica motociclista e del suo angelo in prestito aveva suscitato in lui.
Era ancora vivo e forse non tutto nella sua vita era sbagliato.
Forse c’era ancora qualcosa che avrebbe potuto tentare per rimediare agli errori.
Forse avrebbe potuto provare a chiedere scusa, per una volta, e tornare a parlare con sua moglie.
Ora, su quel colle, sotto quella luna assonnata, vicino come non mai alla morte, aveva finalmente ritrovato la forza per combattere.
«Torna da lei ora, angelo custode. E dille grazie da parte mia»

AUTORE - SARA

16 aprile 2007

L'AQUILA

L’aquila planò sulla città devastata. Aveva fatto molta strada dalle montagne dell’Italia centrale per giungere in quel luogo, spinta solo dall’istinto. Mossa da un forza superiore che esulava dal concetto di coscienza, non provava sentimenti per le persone che morivano sotto di lei, non erano le prime che vedeva soffrire, né sarebbero state le ultime. Ciononostante, si attardò ad osservare dall’alto la capitale in rovina, mantenendosi librata nell’aria dove il fragore della battaglia giungeva solo attutito e non si percepivano i miasmi di una città in decomposizione. Quasi immobile nella brezza marina, assaporò un’ultima volta l’odore di quella città, imprimendo nella memoria i contorni aristocratici di un luogo che presto sarebbe diventato leggendario, chiuso allo sguardo degli uomini e relegato nella memoria di un passato mitico. La sua vista superiore le permise di osservare ogni vicolo e finestra di quella città, di cogliere il terrore dei civili che fuggivano al saccheggio e dei soldati che difendevano le posizioni con rassegnato coraggio, ben sapendo che era preferibile morire lì, con la spada in pugno, piuttosto che finire nelle mani dei vincitori. Mentre osservava la battaglia colse una figura che la colpì. Era per quell’uomo che era venuta. Combatteva con la stessa foga disperata dei suoi soldati. In più, però, era animato da un altra grande forza: la consapevolezza di essere l’Ultimo della sua stirpe. Lo vide battersi come un leone, menando fendenti sempre più stanchi, affondando i calzari nel fango, talmente imbrattati di sangue da coprire il loro color porpora. Lo vide attorniato da formidabili guerrieri armati fino ai denti e agghindati da elmi e corazze di foggia orientale. Osservò l’uomo, esausto, abbattere l’ennesimo avversario, affondandogli la tozza spada nel ventre. Ormai agiva per inerzia, in attesa che tutto finisse, che qualcuno lo colpisse e ponesse fine a un regno tormentato, nobilitato dall’eroico sacrificio finale. Il colpo venne, come spesso accade, per caso. Un affondo scoordinato, a causa della stanchezza, e l’uomo si sbilanciò fatalmente. L’aquila osservò impotente la scena, vista tante volte nella sua lunga esistenza. Vide l’avversario trafiggere il sovrano e la calca sommergerne il corpo, un tempo venerato. Immaginò la paura degli ultimi istanti – che provano tanto l’imperatore quanto l’ultimo degli schiavi – quasi vide con gli occhi del morente, che guizzavano disperati in mezzo alle gambe corazzate dei giannizzeri, mentre la città cristiana moriva avvolta dalle fiamme del saccheggio.Il rapace attese ancora, non poteva svolgere il suo compito in mezzo alla rissa. Quando i turchi superarono i cadaveri dei difensori, dilagando, finalmente l’aquila scese sul terreno lordo di sangue. Nonostante la sua vista acuta, faticò a riconoscere il cadavere dell’imperatore, avvinghiato a quello dei suoi uomini e dei suoi assassini, nell’abbraccio livellatore della morte. Lo individuò dalle effigi che aveva sui calzari, raffiguranti proprio l’aquila imperiale. Dolcemente, il rapace, si avvicinò alle mani dell’imperatore. La destra stringeva ancora la spada. Col becco, facendo attenzione a non ferirlo, gli sfilò l’anello col sigillo. Diede un ultimo sguardo alla capitale morente e si librò maestosa tra le volute di fumo in direzione del mare.Sotto di lei Costantino XI Paleologo giaceva trucidato in mezzo allo scempio della sua capitale. Gridando di disperazione al cielo, l’aquila si diresse verso il luogo in cui avrebbe custodito il sigillo finché l’istinto le avrebbe suggerito che, da qualche parte nel mondo, qualcuno sarebbe stato degno di indossarlo, rivendicando l’eredità di Roma e Bisanzio. Costantinopoli era morta e con essa le ultime vestigi del mondo antico. Nulla da quel fatale martedì 29 maggio 1453 sarebbe mai più stato come prima.


AUTORE - GABRIELE

02 aprile 2007

NUOVO E-BOOK

E' disponibili da scaricare gratuitamente sul nostro sito un nuovo E-BOOK!


DIFFERENTI PROSPETTIVE
Una raccolta di racconti di Sara Bosi

NON PERDETELA!


Scaricate DIFFERENTI PROSPETTIVE

nella nostra sezione E-BOOK

Buona lettura a tutti ;-)