06 dicembre 2005

GHIACCIO

Rainar scostò la pelle che copriva l'entrata della sala del consiglio. L'aroma di resina proveniente dal camino scoppiettante lo investì, causandogli un attimo di sbandamento; la bruciante aria gelida respirata in settimane di viaggio sul ghiaccio l'aveva privato dell'abitudine a odori così forti.
L'uomo del nord posò il pesante mantello di pelliccia in un angolo e si diresse al posto che gli era stato riservato, insieme agli altri Signori delle Lande, i capi degli insediamenti di quella popolazione che i meridionali chiamavano barbari.
"Saljaran, Rainar." Il Padrone della steppa accompagnò il saluto con un cenno della mano.
"Saljaran, compagni. Perdonate il ritardo; la madre bianca ha deciso di farci piombare nella grande notte con due cicli di anticipo."
Il Padrone della steppa, capo dei capi del nord, annuì gravemente e fece cenno a Rainar di sedersi sullo scranno. Poi iniziò il suo discorso.



Nelle terre di Fhas, nel cuore del grande impero, il sole splendeva nel cielo inondando di luce il Palazzo d'Argento. Molte delle finestre del castello erano aperte per far entrare la leggera brezza ristoratrice nella speranza che alleviasse l'afa che incombeva in quei giorni.
Quasi invisibile, da una di queste finestre si sporgeva un uomo, le braccia poggiate al davanzale di marmo. I pratici indumenti che indossava erano in perfetta armonia con la sua persona semplice, il fisico asciutto, i capelli ben curati raccolti con un povero ma robusto laccetto di cuoio. I suoi occhi grigi scrutavano a nord, seguendo il volo di alcune aquile degli altopiani; la mano pareva invece intenta a tormentare la corta barba sul mento.
Una porta si aprì alle sue spalle. "che fate, padre?". L'uomo si volse ben sapendo che si sarebbe trovato davanti una splendida ragazza. Gli occhi, identici a quelli del genitore, erano come gemme incastonate nel suo splendido viso, incorniciato da una cascata di capelli castani come quelli della madre. Anche le vesti, sebbene comode e di stoffa robusta, lasciavano intravedere le delicate forme della fanciulla.
L'uomo sorrise, tendendo una mano verso sua figlia.
"Abigail! Che ci fai qui, bambina mia?" la cinse con un braccio, attirandola a sé e schioccandogli un bacio sulla fronte. Lei fece una smorfia: ormai era quasi una donna fatta, ma suo padre si ostinava a chiamarla in quel modo.
"Non dovevi essere con tua madre giù al porto?"
"Sono venuta a salutarti, padre. Non volevo perdere la tua partenza." Abigail posò lo sguardo sulle sagome delle aquile, ormai scomparse dietro l'orizzonte delle montagne. "Sono stupende, non è vero?"
L'uomo annuì.
"Siete turbato ultimamente. Questo viaggio vi preoccupa così tanto?"
L'uomo guardò la ragazza, per poi volgere nuovamente lo sguardo a settentrione.
"Non mi piace ciò che sto per fare. E' necessario, sì, ma mi angoscia terribilmente. Non ho scelta."
Un alto funzionario entrò nella sala, prostrandosi in un ampio inchino. "Se vostra maestà l'imperatore è pronto possiamo partire."
L'uomo si voltò annuendo, e si diresse verso l'armatura da battaglia posata in un angolo.
In silenzio iniziò ad armeggiare con piastre e cinghie; non si era mai voluto avvalere dell'aiuto di paggi o servi.
Una volta sistemata l'ultima fibbia, l'imperatore abbracciò sua figlia Abigail e si diresse verso la porta dopo un ultimo sguardo, ma la voce della ragazza lo fermò.
"Padre…?"
"Sì, bambina mia?"
"Cosa andate a fare al nord, di preciso? Questa on sembra una normale campagna."
L'uomo si voltò verso la figlia, fissandola negli occhi. "Meglio che tu non lo sappia Abigail. Né ora, né mai."
Ed uscì dalle sue stanze.



"Proclama un consiglio di guerra. Adesso."
Il soldato annuì, ma venne subito fermato. "Non solo uomini. Donne. Bambini. Voglio tutti, in quella piazza."
Il soldato non protestò e ripartì velocemente.
Rainar si lasciò cadere pesantemente sulla sedia, reclinando il capo e chiudendo gli occhi. Rimase fermo per un tempo che preferì non calcolare, finché non decise che era il momento giusto.
Erano passate tre ore da quando aveva dato l'ordine al soldato, e ad attenderlo trovo una piazza gremita; il diadema della conquista poggiato sul capo, segno della sua vittoria nella Sfida Reale, gli avrebbe permesso di farsi udire chiaramente da tutte le centinaia di persone presenti.
Quando apparve sul piccolo palco tutti si inginocchiarono puntando lo sguardo verso il basso in segno di rispetto. Rainar osservò attentamente la sua gente, il suo popolo. E pianse.
E mentre le lacrime gli rigavano il volto, scese dal palco e iniziò a camminare in mezzo agli altri.
"No, alzatevi.- Disse. -Ora non sono il vostro sovrano. Sono solo Rainar, figlio di cacciatori come voi. E sono qui oggi per darvi la peggiore delle notizie." Trasse un grande respiro, nella speranza che gli desse la forza per continuare e sostenesse la sua voce rotta.
"Narth'azak si avvicina. La Grande Battaglia delle leggende è ormai prossima: lì verrà deciso il fato del nostro popolo. Lì verrà decisa la nostra fine o la nostra vita.
Gli abitanti delle terre assolate giunsero molto tempo fa, bramosi del metallo del sole conservato dalla madre bianca. Hanno tentato di comprarci. Di separarci. Di renderci deboli. Ma non ci sono riusciti! Ed ora, hanno deciso di sterminarci."
Non un brusio si levò dalla folla. Soltanto la natura, con il suo vento era padrona di quel silenzio.
"Il loro esercito è grande e forte, i loro soldati coperti di metallo; in questo momento si stanno avvicinando al Grande muro.
Ed in questo momento anche gli altri re del nord stanno parlando al loro popolo come sto facendo io. Noi non capiamo perché stiano agendo così. Noi credevamo che il loro re fosse saggio e fiero, ma evidentemente ci siamo sbagliati."
Rainar tornò sul palco e si sedette sullo scranno approntato per lui.
"Ora andate. Le leggende vi hanno insegnato cosa dovete fare."



L'imperatore varcò la soglia del palazzo, gli occhi rossi e gonfi, ancora lucidi. A Passo di corsa si diresse verso le sue stanze, scaraventando pezzi dell'armatura ovunque lungo il suo cammino.
"Haegan! Vieni qui ! Subito!" ruggì. Una porta si spalancò, mostrando l'imponente figura di una guardia con vari gradi sulla corazza.
"Eccomi, sire. Dite." L'imperatore si sedette sul trono, premendosi le mani sulle tempie e stringendosi la testa. "Ascoltami attentamente."Due respiri per rallentare il cuore.
"Metti agli arresti tutta la Gilda Mercantile del Nord, i suoi quattro sommi mercanti, e il mio terzo consigliere. Sbattili nella cella più buia. Una volta fatto, raduna tutto il palazzo. Dagli sguatteri al primo ministro. Lascia i bambini in custodia alle balie e prenditi cura di mia figlia: non voglio che assista a questo spettacolo."
Haegan deglutì. "C'è altro, sire?"
L'imperatore alzò lo sguardo, gli occhi brucianti di rabbia fissavano un punto nel vuoto, unici spettatori di qualcosa che solo loro potevano vedere.
"Trova i quattro stalloni più forti dell'Impero e la corda più robusta."
"volete… volete giustiziarli tutti, signore?" La voce di Haegan ormai si era ridotta ad un sussurro. "Non avete mai fatto nulla del genere prima."
L'imperatore picchiò violentemente un pugno sul bracciolo di legno massiccio. "Fallo e basta!"
Il capitano delle guardie reali trasalì, poi scattò sull'attenti e fece per uscire.
Sulla soglia si fermò: udiva il sovrano singhiozzare sommessamente.
Haegan chiuse la porta, ordinando alle guardie di non far entrare nessuno; poi si girò e torno verso il trono, sfilandosi l'elmo.
"Gurdil… non posso disubbidire all'ordine dell'Imperatore, lo sai. Ma voglio conoscere i motivi che hanno spinto l'Uomo a fare questa… scelta."
L'imperatore fissò Haegan, le lacrime gli rigavano il viso. A volte, tutte le responsabilità e le rigide etichette gli facevano scordare che Haegan era il suo fratellastro, la persona con cui era cresciuto.
"Piangevano, come me adesso."
Il capitano si chinò sul suo re, preoccupato e perplesso.
"Chi… chi era che piangeva?"
"Loro. Tutti loro. Un'armata intera. Migliaia di guerrieri, erano armate persino le donne. Li abbiamo trovati nella piana ai piedi della montagna che loro chiamano Grande madre. Migliaia."
Gurdil aveva ancora davanti agli occhi quell'immagine. E da giorni sapeva che non se ne sarebbe mai andata.
"I loro re in testa, fieri come le loro genti. Erano meno della metà di noi, ero già stato raggiunto dalle armate dei Graf di confine. Erano meno della metà di noi, ed hanno caricato. Non un grido, un ordine, niente. Soltanto i passi di corsa. E quando la nostra prima linea ha alzato le lance ho visto i loro volti brillare sotto il sole.
Piangevano tutti quanti, Haegan."
Il re scoppiò in singhiozzi afferrando le braccia del parente, dell'amico.
Il capitano della guardia reale stava proteggendo l'imperatore come non aveva mai fatto.
No, non stava proteggendo l'imperatore. Stava proteggendo l'uomo. Soltanto un uomo schiacciato da quanto era successo, troppo per chiunque.
I singhiozzi riecheggiavano per la grande aula vuota.
"Io non potevo più fermare le armate, la battaglia ormai era scoppiata. E nessuno di loro è fuggito, nessuno si è arreso dannazione! Nessuno… piangevano e combattevano, piangevano e morivano come se non ci fosse altro da fare! E poi…
… poi uno dei loro Re mi ha guardato negli occhi. Aveva una grossa ascia, e un diadema sulla fronte, e sanguinava. E allora ho capito tutto."
Il capitano rimase in silenzio. Iniziava a comprendere l'orrore che si era compiuto.
"In quegli occhi ho visto il dolore di un popolo. Un popolo che veniva a morire." Mormorò d'un fiato.
"Un popolo che io sono andato a combattere, convinto di orrori inesistenti da quei… quattro avidi traditori. Un popolo che per difendere le proprie terre si è fatto sterminare. E' stato come combattere contro degli spettri, Haegan."
"Ho versato il sangue innocente di un intero popolo. Le lacrime innocenti di un intero popolo. E tutto per colpa di qualche stramaledetta oncia d'oro sepolta sotto il ghiaccio." Strinse le braccia del capitano in una morsa spasmodica, spalancando la bocca verso il suolo in un silenzioso grido di muto dolore.
"La corda più robusta. La troverò, Gurdil." Disse la guardia con voce sommessa. E strinse il fratellastro più forte che poteva.
Il pavimento di marmo della sala reale era gelido; il ghiaccio del nord sembrava essere entrato anche in quella sala, portato da ricordi laceranti.
Ancora lacrime sul ghiaccio.

AUTORE - VENTI

03 dicembre 2005

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