29 novembre 2006

FABLE

Nuvole gonfie minacciano pioggia. Il sole scompare dietro la collinettà. I suo ultimi raggi vividi come il fuoco, bruciano i contorni scuri dell’albero, ormai secco per il sopraggiungere dell’inverno, che si staglia come un uomo in preghiera sullo sfondo.
Vedendo la scena mi sembra di essere dentro a una cartolina. Io la bimba che guarda dalla finestra un tramonto lontano sotto lo sguardo attento di un uomo che stringe la bianca cornice del cartoncino che a breve invierà a qualche amico.
Questa atmosfera presagiva l’arrivo di una di quelle notti piene di spiriti e fate. Notti di vento quando i bambini si addormentano piangendo. In quelle serate buie il papa mi raccontava la favola che mi piace tanto. Quella del piccolo servo di Oberon che scappa da Arcadia e che per anni si rifugia nel mondo degli uomini. Non vi nasconderò di averlo visto quel Puk. Era un bambino seduto su un muretto che osservava gli uomini dall’alto. Aveva un ghigno malefico nascosto da un rincuorante sorriso. Mi avvicinai a lui. Gli parlai e lui rispose. Il suo profumo di fiori nascondeva l’olezzo del sangue. Piccole gocce di pioggia rossa cadevano dall’orlo del suo cappotto. Pioveva sempra quando si mostrava ai miei occhi. Giocavamo insieme per ore. Mi raccontava storie di scherzi che aveva fatto durante la sua vita. Non si credeva quanti ne avesse fatti e dire che avrà avuto si e no dieci anni. Eppure quell’olezzo non lo abbandonava mai così come il profumo. Non capivo. In quei giorni però capire non era importante. Ero ammaliata dai suoi occhi dalle sue parole. Ma tutto in lui nascondeva qualcosa. Lo sapevo ma non me ne curavo.
Gli raccontai anche la storia che mi piaceva tanto. Lui ascoltò prima pensieroso poi sorridente. Un baleno attraversò i suoi occhi stretti. Ma è vero tutto questo? Si mia dolce bambina è vero. Oberon ci ha provato a riportarmi a casa ma Puk è più astuto.
Un giorno dalla mia camera lo vidi seduto fra le falangi dell’arbero distese verso il cielo. Muoveva la sua mano come a chiamarmi. Voleva che andassi da lui. La nonna era in casa. La salutai dicendole che andavo a giocare nei pressi dell’albero. Mi baciò e si raccomandò come sempre. La baciai forte; allora non sapevo bene il perché di quel gesto così intenso.
Puk mi guardava come faceva sempre con tutti gli uomini; dall’alto verso il basso.
Scese agile dall’albero. Quel giorno era bello e raggiante. Nessun olezzo, nessuna oscurità, nessun liquido scarlatto. Anche la pioggia era sparita. Mi tese la mano.
Insieme ci incamminammo lungo il sentiero. Lui mi parlava. Mi raccontava altre storie. Io ero felice. Le preoccupazioni mi avevano abbandonato insieme alle domande. Persino l’entrare nel fitto bosco non mi inquietava. Le verdi chiome si chiudevano su di noi.
I rami ci salutavano. Il verde lasciò il posto al marrone poi arancione giallo e infine l’oro. I colori si susseguirono in un calidoscopio di mutazioni. Poi li vidi erano li. Piccoli come topi, volteggiavano sulle noste teste. Grossi come tori, si inchinavano al nostro passaggio. Aure arcobaleno li avvolgevano. La radura si aprì. Cinque erano le fate che si fecero avanti. Cinque fate con cinque bambini. Puk non era più un pargolo di dieci anni. O almeno non più il rubicondo essere che mi era apparso fino ad allora. Ora era proprio come papà me lo discriveva e tutto era tornato. Olezzo, oscurità, sangue. Il grosso uomo cervo era seduto all’interno di un’antica quercia incavata. Le gambe incrociate; fece cenno di avvicinarsi. Li vidi tutti cambiare quei bambini. Ognuno prese l’aspetto della fata che lo aveva accompagnato. Ognuno di essi prese il posto del suo reciproco.
La fata tra i mortali e il mortale fra le fate.
Equo cambio perché non vi sia disequilibrio. Questa era la legge, sosteneva Oberon.
Eppure Puk non cambiò. Rimanemmo li fermi in quel luogo sacro dell’ARCADIA, intrappolati tra il mondo delle fate e quello degli uomini. Del mio mondo mi rimane un unico dolce ricordo. In quel ricordo mi avvolgo trasformandolo in barriera. Non sono ancora cambiata come gli altri compagni giunti fin qui. Mantengo tutti i miei tratti umani. Niente occhi di foglia, niente voce sottile e capelli di selva. Ma eccoli che ritentano le loro magie. Mi concentro. Sono nel mio salotto. Ecco ONE. Guardo BIM BUM BAM, è pomeriggio e mia nonna mi prepara la nutella. Mi prende in braccio per vedere insieme a me lovey sara, anna dai capelli rossi e tutti i cartoni che davano alla televisione e loro, così, non hanno alcun potere su di me.

AUTORE - SIMONE

26 novembre 2006

FATE I BUONI BAMBINI

La cucina era avvolta da miasmi pestilenziali che fuoriuscivano dal pentolone che ribolliva insistentemente sul forno. Sulle mensole in legno troneggiavano cioccolate dall'aspetto curioso ma che ad un'analisi più attenta, assumevano realistiche forme di parti umane. Il gigantesco tavolo era cosparso da un liquido gelatinoso che imbrattava alcuni arnesi domestici. In un angolo, ammucchiate una sopra all'altra, una quantità incredibile di ciocche di capelli castani e biondi. Davvero poco igienico in una cucina. Di fianco al pentolone disposti in rigoroso ordine su un tagliere, degli appetitosi dolcetti alla crema. All'interno di uno dei mobiletti fissati alla parete, stavano seminascosti dei vasetti di varie dimensioni piene di liquido trasparente, al cui interno galleggiano come pesciolini, oggetti filamentosi non ben definiti. Tutti i vasetti contrassegnati da targhette che recavano date e nomi propri.
Nell'altra sala confinante, il piccolo sorrise teneramente, immerso fino al suo esilissimo collo in quell'infinita coperta multicolore. La testolina rapata a zero spuntava da quell'arcobaleno. Seduto sul lettone accanto a lui, l'omone intento a leggergli una stupenda favola da un libro rilegato finemente. Una folta barba bianca adornava il suo faccione dalle grosse gote rosse, e ciò gli donava un'aria docile e affettuosa. La sua vocetta armoniosa stregava il piccolo.
Sulle pareti della sala stavano attaccate decine e decine di ritratti, raffiguranti bambini di ogni tipo sorridenti a trentadue denti, mentre sul tappeto erano sparsi disordinatamente giocattoli di vario genere. Un tintinnio insistente continuava a giungere dalla cucina, l'omone si alzò e tranquillizzando con una strizzatina d'occhio il piccolo. Recatosi in cucina assicurò il coperchio del pentolone che sbottava con insistenza, estrasse con un forchettone un zampone di piccole dimensioni ma dalla forma strana. Lo osservò soddisfatto, strizzandolo con i suoi ditoni ne assaggiò la consistenza dopodiché lo rinfilò dentro. Aprì un cassetto pieno zeppo di lecca-lecca, ci immerse la mano scegliendone uno. Scartandolo se lo mise in bocca ciucciandolo con estremo gusto. Indirizzatosi nell'angolo vicino al tavolo sbloccò una maniglia d'acciaio di una porta blindata, da cui fuoriuscì dell'aria refrigerata. L'omone entrò in una stanza frigorifera, scostando quarti di bue appesi a dei ganci arrugginiti e stando attento con le sue pantofole a forma di cucciolo di cane, a non pestare le pozze di sangue formatesi a terra. Colpita una carcassa e chiamatola con un nome femminile, scomparve nella nebbia gelida esclamando: "Fa un'po freddo, eh ragazzi?".
Il piccolo sorrise, iniziò ad intonare una cantilena con la sua vocetta flebile, fissando di continuo il soffitto. L'omone lo raggiunse rassicurandolo, gli sollevò la coperta togliendola completamente e mostrando i moncherini del piccolo che indossava un pigiamino azzurro. La parte finale dei quattro arti era stata mutilata con precisione, le maniche arrotolate su se stesse e fissate da grossi spilloni luccicanti. L'omone lo afferrò per i fianchi e lo sollevò come fosse un bambolotto gonfiabile con il sorriso stampato sulla faccia. L'omone fece molta attenzione a trasportarlo in cucina: "Adesso andiamo a fare il bagnetto... Sarà un'po calda l'acqua, sai?".
Due ombre si avvicinarono titubanti alla casetta di marzapane dell'omone. Erano una donna e un bambino con un cappellino. I due si fermanorono. La donna s'inginocchiò sistemandogli il cappellino, gli mise la mano sulla schiena e lo sospinse invitandolo ad avvicinarsi da solo alla casetta. Lei rimase immobile ad osservarlo mettendosi una mano sulla faccia. Il bambino si voltò verso di lei un'ultima volta. La donna si strinse le coscie con forza.
L'omone era in cucina tagliuzzando finemente della carne rossa su un tagliere, il suono del campanello lo mandò in febbrile agitazione. Asciugatosi le mani sul grembiule, tirò fuori da un cassetto un grosso sacco nero della spazzatura e si recò nella sala accanto. Il letto dove stava il piccolo era ancora disfatto. L'omone dinanzi allo specchio, iniziò a levarsi il sontuoso parrucchino bianco e la barba finta, buttandoli a terra. Dal sacco estrasse una capigliatura rosso fuoco, compresa di mustacchi affilati che venne immediatamente provata sulla sua capoccia scintillante. PERFETTO!!! Sistemata velocemente la sala, aggiunse alla sua collezione di ritratti anche quello del piccolo, raffigurato con una chioma rossa e riccioluta. La porta della casetta di marzapane si aprì e l'omone accolse a braccia aperte il NUOVO piccolo. La luce che emanava la casa illuminò il suo visetto sorridente. Anche l'omone sorrise.

AUTORE - CHRISTIAN MARCHI

22 novembre 2006

S_______A

Arghhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh
Whaughhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh
Ehuuuuuuulllllllllll….
HUFF…HUFF.
Finalmente bastardo sei morto. Ho sudato sette camice per finirti. Non mi sono rimaste nemmeno le forze per rialzarmi. Il mio corpo ti sovrasta vincitore di questa lotta. Quest’odio nei miei confronti ti ha portato li. Sono giorni che mi perseguiti. Mi segui.
Ho tentato mille espedienti per sfuggirti… tutti inutili. Pensa che mi sono rivolto anche a Dave. Lui si è messo sulle tue tracce ma tu, fottuto, sei riuscito a sfuggirgli. Neanche i veleni sono serviti. Sei un duro tu. Mi chiedo se tu venga veramente da quel luogo.
Mi ritrovo a pensare che invece tu sia un alieno. Un maledetto parassita. Questo sforzo nel rialzarmi mi ripagherà della visione della tua fine. Dio mio quanto sei brutto. Il tuo corpo a pelo dell’acqua è ormai tutto raggrinzito. Sento già l’odore della morte che esali. È quasi insopportabile. Non azzardarti a fissarmi. Il vincitore sono io, punto e basta.
Mi chiedo solo come tu abbia fatto. Sei fottutamente grosso eppure non ti ho mai notato. Che cacchio sei un Ninja?! Mi ricordo di aver percepito la tua presenza ben cinque giorni fa. Fose tu te lo ricordi meglio di me quel giorno. Ero al ristorante. Quel piccolo bistrot sulla sesta. Quello con le lunghe vetrate e i tavolini con le panche. Il posto è bello. Ha un che di malfamato ma al contempo è molto chic. Ero con Annabella. Annabella, il nome da una giusta dichiarazione del suo aspetto. Bella da impazzire con quei suoi grandi occhi verdi. Sembra il personaggio di un manga. Dai quelle formose cerbiatte che ocheggiano con il protagonista ammaliando lui e tutti quegli Hotaku attaccati allo schermo che non si perdono una sola puntata del serial. Ecco Annabella è così. Penso che tu non l’abbia vista… o forse si… In ogni caso mi stavo immergendo in una tazza di cioccolato fumante mentre, la torta di panna mi foderava la bocca. Lei mi osservava sorridendo. Aveva davanti a se una tisana purificante al finocchio; al finocchio. Perché non al timo o alle rose? Non è che voleva dirmi qualcosa con quella sua scelta? In ogni caso abbiamo parlato dei suoi studi, fa la psicologa. Mi ha raccontato cose da urlo sapessi.
Ci potremmo veramente divertire insieme io e lei. Non trovi che sarei un bel caso?
Che c’è non sorridi? Certo che tu saresti un caso molto più interesanti se potessi parlare di te stesso. Mi immagino la tua vita. Costretto in quattro pareti fino alla maturità. Bistrattattato da tutti, anche da chi, infondo non ti conosce. Offeso e additato come la peggiore delle piaghe. Come so tutto questo? Lo vedo e questo ti basti. Sei morto e le spiegazioni non ti serviranno a nulla. Non perderò tempo a riflettere sulle tue motivazioni. Non ci sono motivazioni infondo. È tutta colpa della tua natura. Sei uno scarto della società e per questo sarai sempre trattato di merda. Ma non distraiamoci.
Il vero protagonista. Il vincitore di questo scontro, Io se non lo avessi ancora capito, non si può far oscurare da te. Quindi continuiamo. Voglio che tu sappia che mai mi avresti potuto sorprendere. Al bistrot infatti ti avevo sentito. Mi sono guardato attorno varie volte. Cercando e non trovando. Ma i miei sensi sono acuti. Hai presente il senso di ragno di Peter Parker? Ecco così. Ti percepii subito. Fu così sconvolgente quella sensazione che mi dovetti nascondere. Annabella rimase di stucco quando corsi in bagno. Bella figura che feci e tutto perché tu eri li. Tremavo come una foglia. Ricordo la sensazione di freddo come quando la morte ti si avvicina. Mi dovetti rannicchiare contro il muro e pregare. Pregai che non mi trovassi. Adesso che sei morto non mi sfotti più come prima.
So che mentri mi guardavi mi sfottevi. Annabella dovette mandare uno a cercami. Bella figura. Ti odio. Poi spiegami… che cosa ti ho fatto? Perché ti sei accanito contro di me?
Questa è la cosa che non capisco.
La notte seguente al Bistrot fu la peggiore della mia vita. Era più di un giorno che ti percepivo. Mi osservavi in ogni mia azione. Mi attaccavi ma io resistevo alla tua guerra psicologica. Quali saranno i tuoi poteri? Mi piacerebbe proprio saperlo. Hai la possibilità di piegare la gente al tuo volere questo lo so bene. La costringi a correre scappare lontana. La puoi far soffrire. Così almeno hai fatto con me. Penso che per causa tua non riuscirò mai più a leggere Kafka. Il dolore che provai quella notte fu immenso. La testa pulsava mentre ogni nervo era percorso da fitte profonde. Che tu sia maledetto. Sono contento di vederti esanime. Alla fine ho vinto io nonostante i tuoi poteri. Dannazione non riesco mai a portare avanti il mio discorso. Devi smetterla di distrarmi anche da morto… ma sarai veramente morto?! Si Si sei morto non vi sono dubbi. Kafka ecco.
Premetto che quell’autore per il mio palato è estremamente ostico. Forse è colpa di quella prof di italiano delle superiori… un momento… che sia una tua parente? Può essere, aveva il tuo medesimo comportamento. Mi aveva portato addirittura ad odiare ciò che invece amavo. Insomma Kafka, la metamorfosi, già, come dicevo, è una luttura angosciante e tetra se ci metti una luce soffusa, il ciclico rumore basso e ovattato della ventola del pc e un dolore ritmico e martellante penso che tu abbia ricostruito esattamente lo stesso ambiente della mutazione di Gregor Samsa. Questi sono quei libri che è meglio evitare se hai mangiato pesante e se un fottutissimo essere cerca di attentare alla tua vita utilizzando i metodi più abbietti. Capisco che il tuo fisico non ti avrebbe mai portato a uno scontro frontale. Ma anche il tuo intelletto sul lungo termine non ti ha agevolato. Spossato per la notte insonne in cui mancò poco che mi sentissi veramente uno scarafaggio gigante, presi la mia decisione. Ti avrei costretto a uscire allo scoperto. Ho capito subito le tue abitudini. Ti ho studiato. Attacchi nei momenti di maggior debolezza psicologica. Nei momenti di maggior stress e nella notte. Inoltre sembra che rompermi le balle mentre mangio sia la cosa che più preferivi fare. E così dormivo e mangiavo lo stress veniva da se.
Mi siedo a tavola. Brodo caldo, pane, insalata, dolce e caffè. Ancora uno volta ti sento prepotente, insinuarti coi tuoi poteri, in me. Ti ho fatto crescere ed espanderti. Più la tua invasività sarebbe stata grande più ti sarebbe stato difficle sfuggirmi. E tu, bastardo, ci sei caduto in pieno. Questa volta non sono scappato come al Bistrot. Ti sono venuto incontro. Ti ho affrontato e sconfitto. La lotta è stata dura ma alla fine ne sono uscito vincitore.
Butto su di te questo bianco sudario. Non voglia che si dica in giro che non ho rispetto per i miei nemici. Non ho intenzione di pregare per te mi sembrerebbe una blasfemia dato che, in fin dei conti, come ti ho già detto non sei altro che un rifiuto di questa socièta malata, ricca e vorace.
Bussano. Qualcuno, al di la della porta mi inveisce contro. Addio bastardo. Spingo il bottone dello sciaquone. Il gorgo d’acqua inghiotte il tuo corpo.
Ecco FRANCI ho finito!

AUTORE - SIMONE

20 novembre 2006

IL GRIDO DEL TUO SILENZIO

La cassa viene calata nelle profondità del carnaio. La terra fredda ed intrisa di lacrime, suggella quella splendida giornata di morte. Ora inizia il crepuscolo.
Marika penetra nel minuscolo camposanto. Non è sola. Le sepolture sono murate lungo grandi pareti nere che suddividono l'interno in settori. Due vecchietti sghignazzano passandole accanto. Con occhietti maliziosi la scrutano attentamente. Marika percorre il corridoio principale, una tomba vuota la attira. Si piega e con la mano ne segue lentamente i contorni. Infila la testa dentro. Al suo orecchio giunge un suono impercettibile che cresce sempre più d'intensità. Il vagito di un neonato dato alla luce le perfora l'orecchio. Si allontana turbata. Una foto ritraente un ragazzo biondo di bell'aspetto le provoca una visione ad istantanee: UN AUTO / IL RAGAZZO E' ALLA GUIDA / E' UBRIACO SI DISTRAE / L'AUTO SBANDA / OSCURITA' / LE LAMIERE CONTORTE SONO IMBRATTATE DI ROSSO / IL PNEUMATICO SGONFIO GIRA A VUOTO / LA TESTA DORATA E' SEMISEPOLTA DAL TERRICCIO / IL FUMO SALE FINO A SFIORARE LE FRONDE SPOGLIE DI UN ALBERO / IL PNEUMATICO CONTINUA A GIRARE. Vicino un'altra foto. Una bambina con i capelli raccolti da una coda. L'ennesima visione di Marika: LA BAMBINA E' SEDUTA SU UN BALCONE / E' SOLA / GIOCHERELLA CON UN TRENINO / GLI DA SLANCIO / IL TRENINO DELINEA UNA CURVA E PASSA SOTTO LA VETRATA / PRECIPITA GIU' / LA BAMBINA SI ALZA E SI SPORGE / VUOLE RIACCHIAPPARE IL SUO GIOCATTOLO / L'UNICO CHE HA / LO RAGGIUNGE. I rimproveri di una madre al figlio down destano Marika. La madre riallaccia la cerniera dei pantaloni del bambino. Questo per pudore cerca di allontanarla. Innervosito la spintona facendola cadere all'indietro. Il bambino scappa. Dal ginocchio violaceo della madre cola un rivolo di sangue. Marika supera due fila di lapidi. Nota una persona voltata di spalle dinanzi all'angolo di un settore, vicino ad una tomba di marmo. E' un uomo vestito di nero, quasi pelato. Ha la testa ovale. La pelle di color olivastro reca delle disturbanti pieghe sul dorso del collo. Si gira adagio verso la ragazza. Un lieve scricchiolio accompagna questo suo movimento. Si arresta rimanendo di profilo. Con l'occhio sinistro la osserva. Sorride. Marika rimane a fissarlo. L'uomo si rigira verso il suo angolo abbassando il capo. Gli occhi spalancati della ragazza lacrimano. Se li riasciuga rapidamente e riprende il suo cammino. Passa in rassegna gli sguardi pregni di mistero e di rimpianti di tutte le anime presenti. Un mazzo di fiori liquefatti e gocciolanti troneggia su una lapide dimenticata. Al passaggio di Marika l'intero liquame ricade a terra. Due ometti non molto rispettosi conversano ad alta voce sulla soglia dell'entrata. Marika non se ne cura, supera una donna con un velo nero sul volto. La ragazza si ferma e senza farsi vedere inizia a spiarla. La donna è al cospetto di un caro estinto. Legge un libro a bassissima voce, alcune parole vengono pronunciate con decisione. In mano ha la Bibbia. Sfoglia una pagina. Serra il pugno accartocciandola. La strappa e la infila in bocca. Marika si allontana prudentemente verso il penultimo settore dove la attende il bambino down. Lui è seduto a terra e tiene la mano dentro la crepa formatasi in una lapide. Da questa sgattaiola fuori un grosso topo nero seguito da una torma di scarafaggi. Estrae la mano. Tiene stretto un topolino che si dimena. Il bambino gli molla un morso che gli stacca di netto la testolina. La ragazza indietreggia spaventata. Tutti i personaggi del camposanto si sporgono sul corridoio principale dai loro rispettivi settori. La guardano in silenzio. Le si avvicinano piano piano. Il bambino down si alza e le porge quel che resta del topolino. Marika cerca la fuga nell'ultimo settore. Sa che non ci sono altre uscite. Alza gli occhi. Dal soffito spuntano facce urlanti pietrificate ammassate tra loro. Sono finalmente arrivati. Sono davanti a lei. Tutti insieme puntano il dito su una tomba che le è accanto.Marika volge lo sguardo verso la foto incorniciata che la ritrae. / TUTTO SI FA BUIO /. Marika apre gli occhi. E' distesa dentro una cassa. Sopra di lei uno specchietto da cui scorge il cielo. Lo specchietto inizia ad oscurarsi lentamente. Della terra viene gettata sulla cassa. Marika spalanca la bocca mentre calano le tenebre. Ora tutto tace. Niente più si sente, tranne il grido del tuo silenzio Marika.

AUTORE - CHRISTIAN MARCHI

10 novembre 2006

PUNTI DI VISTA

Se vi racconto ciò che ho visto, sono sicuro che non mi crederete. Non certo perché io sia incapace di dire cose sensate, quanto perché so già che non mi riterrete un testimone attendibile. Mi è capitato altre volte, ormai ci sono abituato, ma non ci faccio più caso e nemmeno mi offendo. Qui ad avere dei problemi siete voi, mica io.
Io ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare, e non è affatto una presa in giro, la mia. È una cosa seria. Dal mio punto di vista la prospettiva è diversa, impari a guardare la gente dal basso verso l’alto e non il contrario, come fanno tutti quelli con la puzza sotto al naso. Un vizio che hanno preso parecchi, di questi tempi. Ma lasciamo stare. Dopotutto sono qui per dare informazioni sull’accaduto. Tutto quello che so. Una gran brutta faccenda davvero. Ma partiamo dall’inizio.
Dall’Italia qualche giorno fa era arrivata questa coppia di sposi novelli. Li ho visti entrare e prendere possesso della casa del proprietario del B&B in cui avevano trovato un alloggio di fortuna. Di questi tempi gira molta gente qui, anche se non si direbbe, e si fa fatica per trovare un tetto, ve lo assicuro. Erano innamorati l’uno dell’altra, si vedeva, e si sono ambientati subito. Erano pure entusiasti del posto: telefonavano a casa quasi ogni giorno per dire ai parenti che stavano bene e che tutto andava per il meglio, che si divertivano e che qui tutto era stupendo. In fondo, siamo pur sempre a Caracas, non in una località qualsiasi. Sole, mare, relax, sollazzi. Gli ingredienti ci sono tutti per andare alla grande.
Tutto è andato per il meglio, fino a ieri. Ieri notte è successo un casino. Inaspettato. Nemmeno io avrei potuto immaginare una cosa del genere. Io ero presente. Ho visto tutto.
Erano le due circa quando ho iniziato a sentire dei rumori strani. Di solito di notte c’è pace, qui, un silenzio totale interrotto solo dai richiami di qualche uccello notturno.
Erano in quattro. Sono entrati e hanno raggiunto la coppia di sposi che dormiva in camera da letto. Hanno tirato fuori dei fili di ferro e li hanno legati poi hanno iniziato a malmenarli, a picchiarli con violenza con degli oggetti contundenti. Uno li ha persino colpiti al viso con un remo. Un gesto unico di efferatezza gratuita. I quattro parlavano la lingua del posto, si capiva che c’era qualcosa sotto. Insomma, non erano lì per caso, non volevano soldi o gioielli, le solite cose di routine. Erano lì per un motivo ben preciso. C’è di mezzo un pezzo grosso, una vendetta trasversale, ci metterei la mano sul fuoco se solo ne avessi una.
Infine, se ne sono andati. Li hanno lasciati legati come due salami e li hanno creduti entrambi morti. Invece si sono sbagliati. Il tizio ha fatto solo finta, è stato lui a chiamare i soccorsi trascinandosi al telefono e chiamando la polizia. Per sua moglie non c’è stato niente da fare. Quando è arrivata l’ambulanza si sono accorti che era morta soffocata, strangolata dal filo di ferro. Non vi dico quanto sangue e schifezze c’erano in giro, e non vi dico quanti improperi ho tirato io, quando sono venuti quelli della scientifica a visionare il luogo del delitto. So già che nei prossimi giorni mi aspetterà la rogna della pulizia. Una cosa che non auguro a nessuno.
Lo so, lo so. Li conosco i tipi come voi. Quelli che fanno romanzi struggenti sopra ogni cosa. Non fate gli ipocriti, so anche che non vi importa niente, dopotutto siete pur sempre giornalisti. Siete qui per raccogliere testimonianze, no? E allora, eccomi qui. Adesso potrete scrivere nei vostri articoletti tutti lacrime e colpi di scena che avete incontrato un testimone insensibile e cinico che vi ha raccontato i fatti senza un filo di emozione, senza un moto di commozione, un testimone duro e freddo a cui non frega nulla di questi due poveretti che volevano solo farsi una vacanza in pace e sono capitati al momento sbagliato nel posto sbagliano nelle mani sbagliatissime di uomini senza scrupoli. Scrivete pure. Ah già, dimenticavo che non mi considerate una voce attendibile. In fondo avete ragione, la mia non è una voce che potete (o volete) capire.
Sarò cinico come dite, ma mettetevi un po’ nei miei panni: nella mia situazione non vedo in quale altro modo si possa sopravvivere se non così.
Maltrattato, calpestato ogni santo giorno, preso continuamente a secchiate e strofinato con acido e varechina. Voi non sapete quanto sia dura essere come me, ve lo assicuro. Non immaginate quanto sia frustrante stare qui. Non vorreste essere al mio posto, ci potete scommettere. Ma per essere un pavimento, vi assicuro, ne ho viste sin troppe. E dopo questa notte, direi che ne ho avuto abbastanza.

AUTORE - ELISELLE

06 novembre 2006

SENTIRE

Perché qualche volta non c’è più strada davanti.
<> di Robbie Williams.
Non mi sentivo così nostalgico da quando,
erano anni che non succedeva.
Questa canzone mi ha spezzato il cuore. È arrivata dentro.
Esco a farmi un paio di Sambuca. Alcool per alimentare i pensieri.
Nel bene e nel male. Che sennò s’intorpidiscono.
Poi ho voglia di sfinirmi. Poi non riesco a fermarmi.
La solitudine. Questa tremenda cosa. Siamo tutti soli.
Uscire a vedere il mondo da soli. Senza di te.
Questo mi fa stare male.
La sera andare al bar da solo. Ho paura di questo.
Perché qualche volta non c’è più strada davanti.
Poi mi intontisco mi alleggerisco, almeno un po’
e riesco anche a dormire.
Tutto sembrava bello all’inizio. Poi la vita ci ha spezzato.
Frantumato. Strangolato. Ci ha spezzato il cuore.
Mi manchi. Dio cristo quanto mi manchi.
Tutto muore. Non quel ricordo della gioia cui ti attacchi
e anche se lo sai che è falso. Quando tutto questo cominciò,
tutto sembrava più bello.
Poi m’hanno spezzato il cuore.
Poi sono passati anni.
Sono già passati anni col cuore spezzato.
Sono passati anni nel buio.
E qualche volta. Davvero non c’è più strada davanti.
Alcool soltanto per rilassarmi.
La vita che precipita.
Sembrava tutto bello all’inizio.
Questa è vita sofferta.
Quel bambino che io ero una volta che poi è morto.
Gli hanno spezzato il cuore e non è mai riuscito a reagire.
La vita sembra bella all’inizio.
La prima morte è col parto.
Fanculo la scuola. E ripetere e ripetere.
E ancora e ancora.
Mai stato uno studente brillante.
Sono una persona agitata.
Brame e voglie mi sconquassano.
La sera devo sfiancarmi o non riesco a dormire.

Lei giocava alla bambina cattiva. Viziosa vissuta e lussureggiante.
Non aveva mai vissuto niente e cercava di immaginarselo.
Con quell’aria da precoce.
La mia passione per lei diventò sconfinata.
Lei non se la sentì mai. Solo quando si perse, si avvicinò un po’.
Ma senza trovare forza e coraggio,
per spingere quel tasto,
che c’avrebbe devastato.
Così ci siamo devastati distanti, con altre cose e altre persone.
Sono passati dieci anni, forse ci pensiamo così tanto ancora intensamente.
Sono passati dieci anni, e non è cambiato niente.
Perché lei c’aveva quegli occhi cattivi,
che io desideravo così tanto,
così tanto fino al punto che un giorno capii bene,
io non mi sarebbe mai bastato scoparla e devastarla
di quella purezza che conservava in fondo nascosta:
io volevo essere lei.
Io volevo essere lei. La bambina cattiva.
Che gioca alla vita. Con le false pose di chi ancora,
non lo sa com’è che stanno le cose,
e quando non lo sai,
quando il vuoto lo riesci a tenere ancora lontano,
la vita riesci a godertela.

AUTORE - Livio D'Addario