29 marzo 2006

CERCIS SILIQUASTRUM

Il mio nome è Siliquastro.
In realtà avevo anche un nome e un titolo ben più altisonanti, ma ormai sono troppo vecchio per queste sciocchezze.
Vivo su questa arida collina da un’infinità di tempo, tanto da aver visto più albe e tramonti di qualsiasi altro essere vivente qui attorno.
Sono nato da un seme trasportato dal vento, per questo sono solo, su questa collina, lontano dalla mia famiglia e dal mio giardino d’origine.
Ma non crediate che mi dispiaccia di essere solo. Io sto molto bene qui, mi piace questo eremo tutto mio, da cui posso vedere il mondo che cresce e che cambia. E oltretutto non sono affatto solo, anche se non ci sono miei simili vicini a me.
Dalla mia collina infatti, ho il privilegio di poter osservare la città più importante del mondo. La città che tutti volevano conquistare.
L’ho vista crollare e risorgere più e più volte sulla sua collina, qui, di fronte alla mia.
Occupata per secoli da popoli sempre diversi, che l’hanno presa e trasformata di volta in volta a loro immagine e somiglianza.
I sovrani e gli stendardi issati su quelle torri cambiavano con la stessa velocità con cui i fiori mi germogliavano e appassivano sui rami.
Genti bianche e genti nere hanno raccolto frutti dai miei rami e hanno trovato ristoro all’ombra dei miei fiori rosa.
Genti che venivano dall’ovest con i loro eserciti e i loro dèi dai volti umani; popoli provenienti dall’oriente, con le loro ricchezze e i loro sterminati eserciti. E poi il fiero popolo dell’unico Dio e di nuovo le genti dell’Ovest con l’aquila e le loro brame di conquista.
Io continuavo ad osservarli, da quassù: vedevo gli eserciti e i pellegrini, sentivo i pianti e gli inni di lode.
E poi un giorno successe qualcosa. Qualcosa che cambiò la mia vita per sempre. Una di quelle cose fra il prodigio e il maleficio. A cui forse devo anche la mia così stranamente longeva esistenza.
Una notte arrivò quell’uomo.
Arrivò di corsa, con il fiato grosso per lo sforzo prolungato. Veniva dalla città, aveva corso, forse inseguito, dalle mura fino a qui.
La notte era vecchia ormai e le stelle stavano tramontando.
Si fermò ai miei piedi. Aveva abiti nuovi ma impolverati e stropicciati. Aveva la barba profumata d’oli ma il viso dietro ad essa era sconvolto.
Parlava da solo, o forse con me, dapprima un borbottio senza senso, poi le parole divennero più chiare, incatenate l’una all’altra.
- Cosa ho fatto… cosa ho fatto… - stringeva fra le mani un sacchetto apparentemente vuoto e lo torturava con movenze smaniose.
I suoi occhi erano febbrili, continuava a girare intorno a me osservando il cielo e l’orizzonte, come se temesse un agguato da parte di qualcuno, o di qualcosa, che potesse piombargli addosso da ogni dove.
Poi lentamente il silenzio dell’ora che precede l’alba sembrò portare un po’ di pace al suo animo tormentato. Lentamente si sedette a terra, con le ginocchia strette al petto, come un bambino impaurito e pentito. Il sacchetto sempre stretto fra le dita.
- Traditore… verrò chiamato traditore… - la sua voce era flebile, come se non gli appartenesse, come se non appartenesse a quell’omone barbuto.
- Mi hanno convinto, maledetti, con il loro argento. Ne avevo bisogno di questo argento. Mia moglie e i miei figli soffrono la fame, perchè visto che io ero dei suoi la gente li scansa -
- Io dovevo prendere quell’argento. Avrei potuto vestirli e proteggerli e dar loro da mangiare. E’ mio dovere di capo famiglia prendermi cura di loro, ad ogni costo -
- Sarei stato un folle a rifiutarlo per una cosa così semplice. Tanto se non fossi stato io l’avrebbe preso qualcun altro -
Sentii un brivido percorrere la sua schiena appoggiata a me. I suoi occhi si facevano sempre più tristi man mano che il cielo schiariva verso il giorno.
- Lui era davvero quello che diceva di essere. E io l’ho tradito. Io l’ho consegnato alla morte. La vendetta di suo padre ricadrà su di me. Sarò dannato per l’eternità…-
Per molti minuti rimase in silenzio, come se quel pensiero fosse troppo grande per essere contenuto nel suo corpo. Avvolto da un gelo che non c’entrava con l’alba e con il deserto. Continuava a fissare il vuoto, come se in esso vedesse il suo destino.
- Però… però… se lui è quello che diceva di essere… Lui sapeva, lui ha sempre detto che quello sarebbe stato il suo destino, che la sua morte era necessaria perché il suo nome venisse glorificato nella storia, perché tutti si ricordassero di lui e perché suo padre potesse placare la sua rabbia. Lui sapeva, doveva andare così… Quindi io… -
L’uomo di alzò in piedi, di scatto – io sono stato solo uno strumento; lui mi ha usato; lui aveva bisogno che io facessi quello che ho fatto -
Ora agitava i pugni verso il biancore dell’alba, il suo volto contorto dalla rabbia e non più dalla paura - Se io non lo avessi tradito il suo piano sarebbe fallito! –
- Io non potevo farci niente! Era già stato tutto deciso! Faceva tutto parte del piano! -
Questa nuova visione delle cose sembrava aver riacceso la fiamma della suo temperamento. Scagionatosi da solo dalla colpa che fino a pochi istanti fa lo schiacciava come un macigno, ora potevo vedere in controluce le sue spalle possenti, davanti a me, tornare dritte e salde.
Anche la sua voce aveva riacquistato forza e vigore e con essa prese a bestemmiare e a maledire colui che lo aveva condannato, solo per capriccio, ad essere l’agnello che doveva essere sacrificato per un fine più grande.
Il vento dell’alba aveva preso a spirare, lieve e silenzioso, portando via i fumi della notte e tutte le sue ombre.
L’uomo era ancora lì, con me. Dopo aver sfogato la rabbia aveva ripreso a camminare nervosamente avanti e indietro, come se dovesse prendere una decisione importante senza riuscire a venirne a capo.
Potevo vedere tutta la sua improvvisa rabbia e baldanza spegnersi come le stelle nel cielo. Spegnersi e lasciarlo di nuovo pallido e tremante, avvolto da un sudario di sgomento.
- Stupido… -
- Supido e presuntuoso. Come ho potuto? Io potevo scegliere -
Le mani che fino ad un momento prima agitava con rabbia contro al cielo ora gli ricaddero lungo i fianchi, il sacchetto martoriato finì a terra con un lieve fruscio.
- Io ho sempre potuto scegliere. E questa colpa avrebbe potuto ricadere su qualcun altro. Chiunque altro. E invece… le mie mani si sono sporcate del suo sangue. Le mie. Perché io ho scelto di farlo. Io ho scelto di tradirlo per quelle maledette monete d’argento -
- Io potevo scegliere di non farlo. E ora ci sarebbe qualcun altro al mio posto. Qualcun altro sarebbe qui a rodersi l’anima per l’orrore di ciò che ho fatto. Per aver consegnato l’agnello ai suoi carnefici -
Dopo queste parole cadde in ginocchio, le spalle rivolte al sole che aveva cominciato a sorgere, come se si vergognasse davanti al suo fulgore. La fronte china, gli occhi chiusi. Le labbra mosse impercettibilmente da una silenziosa preghiera.
Lo osservai a lungo, immobile nell’aria tersa. Provai pietà per quella creatura disgraziata che non avrebbe mai trovato pace per la sua anima lacerata, per cui sentivo che non ci sarebbe mai stato perdono.
Dopo molto tempo l’uomo si alzò in piedi, lentamente si sciolse la cintura che gli fermava la tunica ai fianchi e poi cominciò ad avvicinarsi a me, osservandomi con occhi lucidi di lacrime ma colmi di un’espressione decisa.
Sentii le sue mani, lo sentii arrampicarsi; il suo peso mi faceva male e faceva scricchiolare le mie vecchie ossa. Poi d’improvviso lo vidi lanciarsi a terra, rimanendo appeso per il collo alla cintura che aveva legato a me.
I suoi occhi si spalancarono nel dolore, il suo volto coperto dalla barba di nuovo si contrasse, ma questa volta nell’ultimo spasmo della morte. La bocca aperta in un soffocato grido di dolore.
Fu penoso per me attendere che il suo corpo ormai senza vita smettesse di dondolare provocandomi continue fitte.
Doloroso pensare che quell’uomo avesse scelto proprio me come strumento per la sua morte.
Io, nato per dare conforto con la mia ombra, per dare gioia con la mia fioritura, per dare colore al deserto e nutrimento ai figli della terra. Io, eremita silenzioso, ospite gentile, generoso ascoltatore. Io, divenuto all’improvviso improbabile strumento di morte.
Avrei voluto spezzare il mio ramo per poterlo salvare, avrei voluto abbassare il mio tronco perché i suoi piedi potessero toccare terra, ma rimasi lì, sofferente e silenzioso e impotente finchè le bestie del deserto non fecero scempio dei suoi resti.
Scoprii mio malgrado la storia di quell’uomo, perché presto il suo nome e il racconto di ciò che aveva fatto passarono di bocca in bocca, di città in città. Fino ai confini del mondo.
E mio malgrado divenni protagonista insieme a lui della sua triste e maledetta vicenda. E la mia vita cambiò, perché da quel giorno il mio nome rimase per sempre legato a quello di quell’uomo.
Perché da quel giorno per tutti, io sono solo L’albero di Giuda.

AUTORE - SARA

14 marzo 2006

ANTOLOGIA XOMEGAP - RECENSIONI

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05 marzo 2006

LA CANTINA

Ho preso in affitto questo chalet per avere la tranquillità di scrivere un po’. Mi piace perché è in un luogo isolato e addossato al fianco della montagna: ho deciso di gettarmi nella stesura di un romanzo e per il prossimo mese non voglio distrazioni.
Il padrone di casa è stato straordinariamente gentile. Quando sono andato alla sua abitazione (indirizzato dal tabaccaio, sindaco e proprietario dell’unico albergo del paese) mi ha fatto sedere nel suo soggiorno, mi ha dato in mano un bicchiere di whiskey di gran classe e ascoltato a lungo parlare con trasporto del mio progetto. -Secondo me la casa è perfetta per lei - ha detto - in un quarto d’ora di auto si arriva in paese e su quella strada ci saranno si e no dieci case, per cui non rischia distrazioni neanche volendo. Anche troppo silenzio e troppa solitudine però può rendere inquieti. Specialmente, mi scuserà, la gente di città.-
-Non sono il tipo, le assicuro.- Ho risposto con un sorriso sornione.
-Meglio così. Le ho preparato una piantina. Comunque è molto facile arrivarci. C’è una famiglia là, le mostreranno loro la casa: se ne vanno tra una settimana. Può chiamarmi per qualsiasi problema, usi pure il telefono quando ne ha bisogno. E per quanto riguarda il prezzo…-. Il prezzo era ben più che onesto, molto meno caro del mio monolocale in città, non fosse per il lavoro (quello vero, perché io non sono uno scrittore in realtà o almeno non ancora) mi trasferirei qui al volo.

Dunque eccomi qui. Ho ricevuto le chiavi della casa direttamente dai precedenti inquilini. Lui è un tipo corpulento, alquanto silenzioso e dallo sguardo truce. Al primo incontro mi aveva accolto tetramente e alla consegna delle chiavi non mi ha detto nemmeno una parola. -Scusate se sono un po’ in ritardo.- ho abbozzato io, anche se erano solo dieci minuti. In risposta ho ricevuto soltanto un tintinnio di chiavi e il suo silenzio tombale a stento mitigato da un sorriso incerto e nervoso della moglie. Li ho guardati allontanarsi in auto giù per il vialetto: marito, moglie e figlio di dieci anni. C’era anche una ragazza quando sono venuto a vedere la casa la settimana scorsa. Avrà avuto quattordici anni e avevo pensato che fosse la figlia, ma forse mi sbagliavo.
In ogni caso, dopo aver congedato i precedenti affittuari ho portato dentro i miei modesti effetti personali e mi sono dedicato ad un’esplorazione più approfondita della casa. Il pian terreno è praticamente tutto occupato da un ampio salone con un bel camino in stile classico, un divano e un tavolo abbastanza ordinari e un tappeto orrendo. In fondo separato dal salone grazie ad una porta a soffietto (tremenda) c’è un cucinotto con un fornello a gas (-La bombola è quasi piena, per un po’ non si dovrà preoccupare.- era stata una delle poche frasi che mi aveva rivolto il precedente inquilino al primo incontro) e un frigo spazioso e in buone condizioni. Sul fondo del cucinotto un’altra porta dà sulle scale della cantina. La cantina è ampia quasi quanto il salone, anche se non molto ben illuminata. C’è la legna per il camino ed un sacco di attrezzi per il fai da te (persino cazzuola e vasca per fare la malta, pesino una piccola betoniera all’esterno della casa), con i quali potrò dilettarmi per disimpegnare la mente. Al primo piano invece ci sono due camere e il bagno. La camera matrimoniale è arredata con un letto e un armadio decisamente da poco prezzo ma in ottime condizioni, mentre la singola, ha uno di quei letti a castello color arancio tipici degli ostelli della gioventù, un terzo letto pieghevole nell’angolo e una vecchia cassettiera a cui basterebbe una sistemata per diventare abbastanza bello. Il bagno porta i segni di una ristrutturazione recente, le etichette sui sanitari e la necessità di tinteggiare la parte sovrastante le mattonelle dicono chiaramente che è stato affittato prima del completamento dell’opera. Complessivamente, visto la mia solitudine e le mie poche pretese è molto più di quanto non mi serva.
Dopo la visita alla casa mi sono seduto sul divano e ho preso a sorseggiare un bicchierino di porto. Non era mia intenzione mettermi immediatamente al lavoro, in linea di massima pensavo di trascorrere quella prima sera in ozio, davanti al camino con un buon libro. La mancanza della televisione favoriva decisamente le mie riflessioni. Una radio portatile con lettore cd era l’unico elettrodomestico tecnologico fornito dall’abitazione. Ben poche stazioni radio in ogni caso giungevano fino a quel luogo, e non mi ero portato musica da casa. Per cui alla fine sintonizzai lo strumento su una stazione dove un dj alquanto compassato metteva pezzi jazz intervallati da lunghe disquisizioni su personaggi a me sconosciuti, e prometteva entro un paio d’ore l’avvento di un collega che mi avrebbe deliziato con un altro programma di musica anni ‘60.

Ho sentito raspare per la prima volta quando sono sceso in cantina a prendere la legna per il camino, si avvicinava la sera e cominciava a farsi freddo. Lì per lì non ci ho fatto molto caso. Sono tornato di sopra e dopo avere armeggiato per un po’ con il camino mi sono versato altre due dita di porto riprendendo le mie meditazioni con libro in mano. In altre parole leggevo due pagine, ascoltavo qualche nota o uno sproloquio del dj, osservavo la brace e complessivamente svuotavo la mente da tutti i miei pensieri cittadini. Per cena avevo già programmato pasta con le zucchine e un po’ di formaggio. L’idea era di andare l’indomani a fare spesa in paese, comprare pane, frutta e verdura fresche e qualche cosa di tipico. Alle nove, dopo due ore di Elvis Presley e consimili la radio ha interrotto le trasmissioni. “Evidentemente” ho pensato “qui la gente va a letto presto, o forse i dj di questa radio decisamente amatoriale ad una cert’ora preferiscono tornare dalle loro famiglie.” Il gracchiare della banda vuota mi ha lasciato un po’ solo però. Un po’ solo e forse leggermente inquieto. Che avesse dopotutto ragione il padrone di casa a dire che noi cittadini siamo tendenzialmente impressionabili? Ho cercato un'altra stazione, ma a parte una che trasmetteva musica da discoteca (e si sentiva malissimo) non ho trovato nulla, per cui rifiutando di piegarmi al bisogno di sentire qualcuno che blaterava ho spento.
Il crepitio del fuoco non era granché per riempire il silenzio.

Sento quel raspare di nuovo dopo cena, quando scendo di nuovo in cantina per prendere altra legna. “Topi” penso, ed infatti gettando l’occhio su uno scaffale localizzo un imballo pieno di trappole. “Vediamo se sono davvero così ghiotti di formaggio”, mi dico e torno di sopra per spezzettarne un po’ dalla mia riserva personale.
E’ mentre le distribuisco le trappole sotto le scaffalature che le noto. Due protuberanze cilindriche leggermente ricurve che escono dal muro per quattro o cinque centimetri. Torno al piano superiore e prendo la torcia. Mi sdraio a terra per dirigere meglio il fascio di luce sotto lo scaffale. Sembrano… dita. Lattee alla luce della torcia, troppo spesse, senza unghie, sporche. Eppure sembrano proprio dita. Dita deformi e martoriate.
Mi rimetto in piedi ed inspiro profondamente per dominare un fiotto di paura.
“La figlia.” è il primo pensiero che, sfuggito al controllo della razionalità, comincia a rimbalzare tra le mie meningi. “La figlia del precedente affittuario, quella che avevo visto la prima volta ma non oggi in macchina con gli altri.”
Di nuovo inspiro profondamente, “Due ore di solitudine e già te la fai sotto.” mi dico. “Che cosa dovrebbe essere successo secondo te? Il padre ha ucciso la figlia, (chi lo dice poi che quella ragazza che hai visto l’altra volta doveva essere la figlia?) l’ha murata in una casa in affitto e si è dimenticato fuori le dita?”
E’ mentre mi ripeto che queste cose da pazzoidi succedono soltanto una volta su un milione (o anche meno) che noto la sagoma della porta murata dietro la scaffalatura.
“La polizia! Ora chiamo la polizia!” Il pensiero come una palla impazzita si fa largo dentro di me, prima che possa razionalizzare.
E poi ecco di nuovo quel rumore raspante e anche… qualcos’altro. Una specie di mugolio forse, ma più acuto. O forse uno sfiato d’aria che prima non avevo notato. I miei sensi si sono acuiti al massimo, ogni minimo rumore mi pare gigantesco. “Calma.” Mi dico. Meccanicamente mi chino di nuovo a guardare sotto lo scaffale, devo essere certo di qualche avevo visto se volevo chiamare… un rumore alle mie spalle mi costringe a girarmi di scatto.
Topi. Sono due e dal tavolo di lavoro mi guardano con curiosità. Parliamoci chiaro, il rumore alle mie spalle era stato un piccolo rumore. Il rumore che potrebbe fare un topo, o magari, due topi. Il problema è che il mio discernimento è già leggermente offuscato.
Inspiro, espiro. Inspiro, espiro. E’ l’unico modo che conosca per cercare fermare l’attacco di panico i cui tamburi sento annunciarsi da lontano.
Ok, ce l’ho fatta, sono tutte stronzate e io sono soltanto il frutto marcio della civiltà tecnologica che se non si fa rimbambire a dovere dei suoi elettrodomestici diventa silenziofobico. Tutto qui. Qualcuno ha murato una porta? Affari suoi. Ci sono di certo centinaia di ottime motivazioni per farlo, anche se al momento non me ne viene in mente nemmeno una, ad ogni modo se hai qualcosa da nascondere non lasci in giro cazzuola, malta e betoniera.
Però la cosa mi rode. Per cui anche se è una cosa demenziale, adesso tolgo la scaffalatura che no è inchiodata al muro e do un’occhiata meglio. Non se ne accorgerà mai nessuno e basteranno cinque minuti.
Tolgo utensili, cassette degli attrezzi, un crick, due latte di olio, una piccola damigiana da aceto. Lo scaffale è vuoto, passo la mano sul muro e mi rimane bianca. Provo a bussare, è cartongesso. “Una parete posticcia, messa lì in fretta e furia, alla bell’e meglio” dice la solita vocetta paranoide dentro di me. Busso fuori dal riquadro della porta. Muro, c’era un altro vano qui, senza dubbio. Non che a me la cosa interessi, s’intende. Tiro verso di me lo scaffale, i piedi stridono lasciando solchi sul pavimento della cantina. Di nuovo avverto quella specie di mugolio, sembra cresciuto di intensità… o è soltanto una mia impressione e non c’è anche qualcos’altro in lontananza… un automobile forse? Un’automobile che si è fermata? (“E’ il padre” il pensiero mi si insinua di nuovo nella mente “Il padre che sta’ tornando. Sa di non avere finito il lavoro a dovere.”) Quanto è distante da qui? La valle rimanda strani echi.
E’ la mia fantasia, si, soltanto la mia fantasia.
Mi chino sulle… su quelle cose… sembrano davvero… mah, eppure sono così deformi… bianche come ali di pollo e annerite qua e là di murcia. Anche a vederle da vicino sembrano dita e allo stesso tempo hanno qualcosa di profondamente innaturale. La cosa certa è comunque che spuntano da dentro il muro. Non oso toccarle, prendo un martello da una cassetta degli attrezzi e provo a far muovere quelle cose. Si flettono in avanti come dita, ma anche indietro… troppo. Ma potrebbero esser i legamenti che si sono rilassati alla morte. O no?
No. Non a quanto i risulti almeno. Sembrano… ecco cosa! Sembrano di lattice. Le dita di una mano di un manichino in lattice. Non so che cosa ci facciano qui, ma è comunque meno assurdo che pensare che siano dita vere. Comunque sono troppo grosse e tozze per essere le dita di una ragazzina. A meno ché le sue mani non fossero deformi. Cerco di sforzarmi di ricordare di averle viste, ma più mi sforzo più mi autoconvinco che non solo non le ho viste, ma che addirittura lei cercava di nasconderle. Naturalmente sono tutte stronzate. Ho visto la ragazza soltanto un istante, è passata davanti a me nell’ingresso con le mani in tasca e poi una volta uscita si è messa a correre dietro al figlio dell’inquilino. Forse è una specie di scherzo. Non che abbia il minimo senso, ma in mancanza di cavalli (leggi: “soluzioni con un senso”) faremo correre gli asini.
“Troppa solitudine più rendere inquieti.” Di nuovo mi tornano in mente le parole del padrone di casa. Alla fin fine sono più cittadino di quanto non voglia ammettere, questa è la verità. Il mio impiego in banca la dice lunga. Non sono nemmeno più il ragazzino che dormiva in sacco a pelo nei boschi con i boy scout. “Per fortuna non ho chiamato la polizia, che figura di merda ci avrei fatto… adesso torno su e mi bevo in goccio di porto e tutto passa.” Mi dico.
Volto la schiena alla parete e muovo due passi. I due topi sono ancora sul tavolo a fissarmi, ignorando bellamente il formaggio sulle trappole. Cerco di scacciarli con un noncurante gesto della mano, loro si scostano di qualche centimetro ma non sembrano affatto impressionati, a quanto pare sono ben più coraggiosi di me.
Eppure non mi sento tranquillo. Non credo che stanotte potrò dormire se non mi chiarisco questa cosa. Potrei telefonare al padrone di casa: “Scusi non è che per caso ha murato un manichino di lattice nella cantina?”. Domanda da ricovero coatto. Alla fin fine quelle non è nemmeno detto che quelle siano dita.
Di nuovo quel rumore, l’ho sentito meglio questa volta. Una specie di lamento acuto, uno sfiato, sembra il rumore di un kazoo. “O di una persona con a bocca piena di stracci.” si inserisce nella mia mente a tradimento. No assolutamente no, non si assomiglia nemmeno lontanamente ad un rumore del genere. “Dietro un muro, magari.” Stronzate. Come sarebbe potuta accadere una cosa del genere? Anche nella dinamica di un potenziale omicidio che qui non ha mai avuto luogo.
Devo saperne di più, non c’è verso. Almeno sapere se quella è veramente una mano.
Mi chino sulle “cose” appoggiandovi la torcia vicino, il fascio diretto su di esse. Con il martello incido la parete (domani intonaco tutto di nuovo e chi s’è visto s’è visto: sono capace l’ho fatto altre volte) introno alle “cose” laddove ci dovrebbero essere le altre dita e il palmo: se quella fosse veramente la mano che non è, nemmeno di lattice. Semplicemente non è una mano.
La parete è friabile come cartapesta, sono travolto da un senso di ribrezzo quando sfioro le “cose” con il dorso della mano. In un minuto il muro si buca come se fosse fatto di niente… e quello è… o santo cielo… continuo ad aprirmi un varco negando a me stesso la verità… un altro dito deforme quasi irriconoscibile, e un altro… il pollice. Ormai l’ho completamente liberata. E’ una mano, di lattice s’intende, ma è una mano.
Un altro rumore… questa volta dal piano superiore (“Il padre. Ha parcheggiato lontano” si insinua di nuovo nella mia mente a tradimento) Sembra l’anta dello scuro di una finestra che sbatte? Il vento, soltanto il vento.
Sento qualcosa che lambisce l’orlo dei miei pantaloni: “Un topo.” Penso. Guardo in basso… o mio dio! La mano è venuta avanti, ora parte del polso sporge fuori… “Appoggiato alla parete, il manichino è appoggiato alla parete, è venuto avanti perché l’ho liberato.” Penso. Ma come è possibile? Dinamicamente è impossibile. Per avere una mano in quale posizione deve essere sdraiato e se è sdraiato non può essere appoggiato e poi… e poi non ho mai visto un lattice così simile alla… alla… carne.
Ed ecco nuovamente il rumore del kazoo, è più distinto ora… proviene… o mio dio proviene davvero da oltre la parete! Inspiro profondamente, vorrei chiudere gli occhi, ma il terrore mi attanaglia.
Un cigolio dal piano superiore… sembra la porta a vetri (“E’ il padre. Sa di non aver finito per bene il lavoro.”). Con un piede provo a muovere la mano di lattice…
O mio dio! MIO DIO!
Mi ha preso la caviglia, è viva! La figlia è ancora viva!
Il volume del lamento si è triplicato di colpo, è lì oltre la parete ad un passo da me, lacerante acutissimo… come ha potuto ridurre le sue mani in quello stato! Che accidente le ha fatto, le ha messe nell’acido?
Cerco di arretrare di un passo, cado all’indietro perché la mano mi serra la caviglia in una morsa d’acciaio.
La porta a vetri sbatte! E’ qui.
-Lasciami… ti libero, ora ti libero, subito… lascia che mi rimetta in piedi!- ma lei non mi lascia quel suono strangolato e da bocca turata da un chilo di stracci (dal cemento) sale ancora. Per rimettermi in piedi devo puntellarmi con le mani.
-Ti tiro fuori! Ti tiro fuori subito, fatti indietro.- Dico, ma lei non molla, forse non ci riesce… quella speranza rinata in lei dopo essere stata (quanto tempo un giorno? Due? Cinque?) murata viva è troppo forte per farle rinunciare a quel contatto fisico. C’è una piccozza il bella vista su uno scaffale poco lontano, ma non riesco a raggiungerla. Ho solo il martello a portata di mano, per cui comincio a tirare dei colpi forsennati. Il martello passa il muro come fosse carta. Colpisco, tiro, strappo, un pulviscolo leggero si alza nella stanza diminuendo ulteriormente la visibilità.
Due minuti e ho aperto il una fessura nel muro fino all’altezza del mio torso. Strappo, allargo, cerco di non pensare a quello che mi troverò davanti. Se quella è la sua mano, non riesco a immaginare in che condizioni sia il resto del suo corpo. L’urgenza il terrore dilaniano ogni più piccola particella del mio essere. Non vedo praticamente nulla a parte i margini del buco, riesco a mettere le mani dietro alla finta parete, ne strappo via i pezzi uno dopo l’altro il lamento ormai è assordante, disumano.
Passi!
C’è qualcuno al piano superiore!
-Lasciami! Ti prego lasciami la caviglia.- Sibilo. Devo prendere la piccozza per difendermi! Subito! Ma lei non lascia. Meccanicamente allargo ancora il buco mente mi guardo le spalle. Scenderà. Da un istante all’altro. Eppure è tornato il silenzio.
Ora la tiro fuori, poi prenderò la piccozza.
Mi volto, un fascio di luce la colpisce.

Di colpo il mio cuore smette di battere, la realtà si sfilaccia, un senso si estraniamento si impossessa di me. Non può essere. E’ impossibile.
Mentre il pulviscolo di posa quello che appare dinanzi ai miei occhi è un’informe montagna di carne senza la benché minima fattezza umana, alta quasi quanto me. Bianchiccia piena di cicatrici rosacee, una delle quali la taglia in due dalla cima fino alla base.
Nulla di ciò che un essere umano può fare è in grado di ridurre un altro essere umano in quello stato. Quello che ho davanti semplicemente non ha nulla di umano. Due delle cicatrici rosacee poste asimmetricamente ai lati di quella centrale si lacerano mostrando due occhi scuri grandi come un pugno. Hanno un’espressione intelligente, quasi dolce. Paralizzato, mi accorgo di avere lasciato cadere il martello. In un momento di follia di chiedo se debbo ancora cercare di salvare quella cosa oppure fuggire. Guardo in basso, la “mano” che ancora mi serra la caviglia fuoriesce come un’escrescenza piantata nella massa di carne. E’ l’unica protuberanza del suo corpo orrendo, se si eccettua una specie di grottesca trombetta con sordina piantata su quella che si potrebbe definire la sua nuca. Era da lì che veniva quel lamento strangolato, che ora risuona basso e lento come un respiro tranquillo.
Dei passi risuonano senza fretta sulla scalinata di legno. Una figura si delinea nell’oscurità, troppo magra per essere il precedente inquilino.
Quando entra nel cono di luce mi accorgo che è il proprietario, ha uno sguardo indecifrabile, impassibile quel che è certo è che non sembra stupito: -Il vero problema di voi gente di città è che oltre ad essere dei cagasotto, siete anche maledettamente curiosi.- Dice fissandomi intensamente negli occhi, non sembra avere intenzioni ostili.
-Che cosa…- inizio a dire mentre mi volto di nuovo verso l’ammasso di carne. Quella cicatrice rossastra che la taglia dalla cima alla base si sta lacerando, taglia il mostro in due come…
Una bocca.
Una bocca gigantesca.
Una dozzina di lingue tentacolari fuoriescono all’unisono attorcigliandosi attorno al mio corpo.
Ed iniziano a trascinarmi dentro.

AUTORE - MAX