19 febbraio 2005

Racconti di Messara

“Messara è sempre stato un paesino come tanti. Si trova lontano da grandi arterie di traffico, e non è mai arrivato a cinquemila abitanti. E’ uno di quei luoghi di cui i giovani si stancano presto.
A Messara c’erano soltanto due cose un po’ fuori dall’ordinario.
Una era la vecchia casa disabitata che si trovava nel bosco sulla collina. Era stata la casa padronale dell’unica famiglia di sangue nobile che avesse mai vissuto da queste parti. La famiglia si era estinta quasi cento anni prima e la casa era stata ereditata un pezzo ciascuno da un numero imprecisato di parenti che non riuscendo a mettersi d’accordo su che farne l’avevano lasciata andare in rovina. E mentre lentamente andava in rovina aveva cominciato, ovviamente, ad avvolgerla un alone di mistero. Tra i bambini erano cominciate a girare storie su una strega, forse messe in giro da qualche nonno in vena di scherzi, forse inventata del tutto da uno di quegli stessi bambini… e una volta createsi, la superstizione e la leggenda avevano preso ad allignare. Ad essa molto contribuiva il muro di cinta che pur sgretolandosi progressivamente continuava a difendere la casa dai meno audaci. C’erano stati ragazzini che erano riusciti a scavalcarlo e, anche se tutti erano tornati sani e salvi, un paio di essi vi avevano inventato sopra qualche storia strana, accrescendo la leggenda.
D’altronde nessuna cittadina di provincia può esimersi dall’avere una casa stregata per spaventare i bambini.

“L’altra cosa che ad un paese per quanto piccolo non può mancare è il ‘matto’, che nei nostri tempi politicamente così corretti, si potrebbe ridefinire come l’originale o magari il ‘problematico’. E la seconda cosa ‘fuori dall’ordinario’ di Messara era, appunto, il suo ‘matto’.
Di persone problematiche in realtà nel paese, come in qualunque altro luogo del mondo, ce ne sono sempre state varie… ma quello che tutti conoscevano era un ragazzo che aveva attorno ai venticinque anni e si chiamava Greg.
Greg era stato un bambino molto introverso e intelligente, ma anche molto sfortunato. Il motivo per cui tutti in paese lo conoscevano era perché a tredici anni era stato il solo testimone dell’unico atto di violenza di una certa rilevanza che si ricordasse a Messara nei precedenti trent’anni. Un uomo aveva sequestrato un pomeriggio lui e sua sorella di due anni più grande, violentato la sorella e appiccato il fuoco alla sua casa. Lui si era salvato per miracolo, ma la casa era andata completamente distrutta e sua sorella era perita nel rogo. L’assassino era stato arrestato il giorno successivo in un paese vicino. Era un balordo alcolizzato con vari precedenti penali, anche se nessuno veramente serio.
In realtà qualcuno diceva che in tutta la vicenda c’erano alcune incongruenze, arrivando addirittura a formulare l’ipotesi che fosse stato lo stesso Greg ad appiccare il fuoco alla casa. Penso che nessuno ci credesse seriamente ma quella diceria insieme a tutti gli strani comportamenti che il trauma gli aveva fatto assumere, era bastata a creare introno a Greg una certa diffidenza.
Dopo quell’episodio infatti era diventato ancora più chiuso e problematico, non dormiva quasi mai e soffriva di incubi spaventosi, tanto che non era raro per i vicini sentirlo urlare nel cuore della notte. A scuola rifiutava di stare in una classe che non fosse al piano terra, e in un posto che non fosse vicino alla finestra. Era terrorizzato da qualsiasi fiamma, anche quella degli accendini. Poi cominiciò anche a rifiutarsi di stare seduto, la madre allora lo mandò in una clinica. Quattro anni dopo morì e Greg fu rispedito a casa. Aveva diociotto anni. Per fortuna era in fondo un ragazzo forte per cui quando l’assistente sociale gli aveva trovato un appartamento ed un lavoro e lui era riuscito a ritagliarsi un piccolo spazio. Era rimasto straordinariamente introverso, ma a quanto diceva Wanda, la donna da cui lavorava come commesso, anche straordinariamente intelligente e gentile. Però la diffidenza di tutta quella gente che rifiuta qualsiasi cosa fuori dalla norma, che in un piccolo paese non è poca, non lo aveva mai del tutto lasciato.
E questa è per sommi capi la storia di Greg, che non essendo più entrato in buona sintonia con i luoghi chiusi girava spesso per le vie quando non era al lavoro, cosa che lo rendeva ancor più il perfetto ‘matto’ del paese. Temuto da alcuni, guardato storto da altri, compatito dai più e venerato da Wanda che lo trattava, per quel tanto che lui glielo lasciava fare, come un figlio adottivo.

“Un giorno di inizio giugno arrivò a Messara un’altra cosa un po’ fuori dall’ordinario, la terza. Arrivò in corriera e per ironia della sorte si chiamava June, come il mese in cui arrivò. Era una ragazza stupenda, magra e un po’ diafana, con gli occhi scuri e capelli color grano, disse che aveva diciannove anni, ma ne dimostrava quindici.
Affittò una stanza dalla vecchia Becky e disse che si sarebbe fermata soltanto per l’estate. Al Grill trovò un lavoro da cameriera che le calzava a pennello, perché Alfred assumeva sempre una ragazza in più d’estate, quando aggiungeva i tavoli all’aperto.
June mise immediatamente in tumulto i cuori di tutti i ragazzi del paese, e anche quello un po’ malato di Alfred, che rischiava un coccolone (e un colpo di mattarello in testa dalla moglie) ogni volta che la ragazza si chinava per servire ai tavoli. June era gentile con tutti, ma molto schiva. Non aveva detto a nessuno da dove venisse, né che scuola aveva fatto o dove, anche se dopo molte pressioni si era lasciata sfuggire questo dato importante: che era diplomata. Torme di aspiranti glottologi avevano cercato di studiare il suo accento per cercare di carpirne la provenienza, ma senza risultato. Sul fatto che non fosse delle loro parti tutti sembravano concordare, ma sul luogo di provenienza, nessun reale indizio. E la vecchia Becky che era stata l’unica persona a vedere i suoi documenti, aveva mantenuto sulla cosa (con molto divertimento) il più assoluto riserbo. Il massimo che le si era riusciti a scucirle era che June aveva effettivamente 19 anni e che era nata nell’Oregon.

“Ho sentito dire che le cose strane hanno la tendenza a trovarsi a vicenda. Non sò se sia vero in generale ma in questo caso lo fu, perché June e Greg divennero amici.
Tutti in paese avevano amato June sin da quando era scesa quel bus l’aveva portata da noi. Greg non faceva eccezione e il suo amore era tra tutti quello che appariva più puro. June somigliava a sua sorella, in un certo qual modo. Non tanto nella maniera più banalmente esteriore. Piuttosto era qualcosa che riguardava il modo di sorridere, di camminare e di parlare.
Greg cominciò a uscire la sera, addirittura ad andare al Grill, qualche volta. Sedeva ai tavoli all’esterno bevendo aranciata, e guardava il tramonto e le auto passare. June dal canto suo parve restare colpita dalla sua tranquillità e dalla sua fragilità; dai suoi sguardi timidi, così diversi da quelli degli altri ragazzi. Non ci misero molto a diventare amici, anche se non avevano molta occasione di vedersi.
Lui usciva dal lavoro alle sei e lei attaccava alle sette. In quell’ora per lo più camminavano per le vie del paese e Greg per la prima volta nella sua vita suscitava l’invidia degli altri.
Wanda era agitatissima per quella loro amicizia, molto felice ma anche un po’ gelosa. Vedeva l’amore stampato negli occhi di Greg e temeva che quando lei se ne fosse andata, se lo sarebbe portato via. Certamente lui sarebbe andato, se lei glielo avesse chiesto.
Sembravano veramente felici insieme, ma non durò molto. In un giorno di fine luglio Ada li vide avviarsi assieme verso la casa sulla collina e nessuno li vide mai più.

“Le ricerche cominciarono dai boschi attorno alla casa. Li batterono a cerchi concentrici, per tre giorni e tre notti, vi trovarono qualche cerchio di pietre, ma nessuna traccia dei due. Andarono anche nella casa, ma non trovarono nulla che facesse pensare che Greg e June vi fossero nemmeno entrati, la polvere sembrava non essere stata mossa da molti anni, si riconoscevano ancora delle impronte di piedi piccoli, ma erano vecchissime.

“Ancora non so se le cose strane abbiano davvero la tendenza a concentrarsi, ma due delle cose fuori dall’ordinario di Messara erano andate verso la terza, e quello che è accaduto non è stata una cosa buona.
Dopo la scomparsa di Greg e June la polizia sprangò comunque porte e finestre della casa, e rinforzò tutte le recinzioni, in modo che nessuno vi potesse più entrare. Su Greg ricominciarono le voci malevole. Dicevano che era stato lui a uccidere June, come aveva fatto con la sorella molti anni addietro, e che poi era fuggito. Ma anche altre voci si misero a girare, voci che dicevano che la scomparsa dei due ragazzi era stata opera della strega.”

Il giornalista spense il registratore e si alzò dalla sedia. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Il sole stava per tramontare, non c’era ancora molto più di un’ora di luce.
“E’ una bella storia.” Disse.
“Oh no. Nient’affatto. Forse lei la trova tale perchè è venuto qui ad ascoltare vecchie storie raccontate da una vecchia suonata per poi scrivere un articolo sperando di venderlo a qualche rivista di ciarlatani. Io che qui ci vivo, non la trovo affatto una gran bella storia.” rispose la vecchia.
Il giornalista picchettò col dito sul vetro.
“Lei non crede in quello che racconta nei suoi articoli, vero?” gli chiese lei.
“Lei ci crede in quello che mi ha raccontato?”
“Io le ho raccontato soltanto quello che chi ha buona memoria sa essere successo ormai molto tempo fa. Questo non ha necessariamente molto a che vedere con quello che io credo né, ad essere pignoli, con la verità.”
“Ah no? E che cosa pensa lei di tutto questo?”
La vecchia trasse un respiro profondo: “Penso che ho quasi cent’anni e non avevo mai visto così tanti ratti correre fuori dalle fogne come se ne fossero stati cacciati. Penso al fatto che per le strade spesso si sente uno strano odore fetido… al fatto che sono spariti tre bambini negli ultimi due anni e che la poca gente che viene a vivere qua non resta a lungo.”
“E non pensa che Greg e June potrebbero essere fuggiti insieme?”
“Lasciando a casa tutte le loro cose? Difficile.”
Il giornalista si schiarì la voce. “Signora Kallum, se la sente di accompagnarmi alla casa?”
“A patto che lei abbia un’automobile. Non credo di essere più in grado di arrivare fin lassù a piedi.- rispose lei compostamente - In ogni caso non si vede granchè dalla strada.”
“Se non altro farò qualche foto.”
“Come vuole.”

La strada che si inerpicava su per la collina era dissestata, ma non tanto da impedire all’auto di giungere senza difficoltà nei pressi del cancello. La casa destava una certa soggezione, occhieggiando dal fondo del vialetto da un bosco inselvatichito, ma era più austera che spaventosa, e non poi così diversa da tante altre che si trovavano il quella zona. Il giornalista camminò un poco avanti e indietro nel piazzale cercando con la macchina fotografica qualche inquadratura ad effetto, ma non parve molto soddisfatto.
La vecchia rimase seduta tutto il tempo dal lato del passeggero.
“Signora Kallum… non c’è un punto da cui si veda un po’ meglio?”
Ella sospirò. “Se intende un luogo fuori dal cancello, temo di no.” rispose attraverso il finestrino.
Il giornalista si fermò di colpo: “Saprebbe farmi entrare?”
“Ho quasi cent’anni, conosco Messara metro per metro… e questo luogo, ahimè, non fa eccezione. Torni in macchina, dobbiamo andare un po’ più avanti.”

Mezzo chilometro oltre si fermarono nuovamente. Il muro di recinzione era particolarmente ben conservato in quel punto e quasi scompariva sotto una selva di edera.
“Qui?” chiese il giornalista.
“Lì in mezzo.” La vecchia alzò un dito ossuto ad indicare l’intrico.
Il giornalista scese, si appese febbrilmente la macchina fotografica a tracolla ed andò verso il muro cominciando a scostare i rampicanti.
“Più a destra.” Disse la vecchia.
“Qui?” si spostò il giornalista.
“Di più.”
“Non vedo nulla.”
“Metta le mani dentro.”
Con una leggera esitazione il giornalista infilò le mani all’interno della vegetazione.
“Dovrebbe trovare una grata.” aggiunse lei.
Il giornalista cercò per un paio di minuti, sempre esitante.
“Bisogna che ci si metta un po’ più deciso, o si farà notte.” lo sollecitò la vecchia.
“E’ una parola… ma quanto è spessa quest’edera?”
“Parecchio, è più vecchia di me.”
Passarono ancora un minuto o due senza che il giornalista compisse progressi.
“Ma come fa a conoscere questo passaggio? Cos’è una specie di passaggio segreto?” chiese.
“Non dica stupidaggini, maledetto scribacchino… questo cancello non era affatto nascosto quando i giardinieri tenevano a bada l’edera.”
“E lei come fa a conoscerlo?”
“Le ho detto che qualche bambino è stato nella casa, no?”
“Si, me lo ha detto.”
“E che ho quasi cento anni, gliel’ho detto?”
“Più di una volta.”
“Ha altre domande o ci arriva da solo?”
Il giornalista continuò a cercare con le mani, ma senza successo.
La vecchia scese lentamente dalla macchina ed andò da lui: “Lasci fare a me.” disse.
Fece un ulteriore passo verso destra, scostò l’edera ed allungò una mano, sicura. Si sentì un leggero rumore sferragliante, poi un “clack”.
“Dopo di lei.” disse la signora Kallum.
“Ha deciso di venire con me?”
“Si, tutto sommato penso che sia meglio. La casa da qui non è lontana.”

Vista da presso la casa appariva alquanto più spettrale. Imbruniva, e il giornalista aveva la sensazione di stare diventando leggermente paranoico. Cominciava ad avere l’impressione che la casa non fosse del tutto disabitata, così come aveva l’impressione che la vecchia si muovesse un po’ troppo in fretta per la sua età anagrafica.
“Si sbrighi, dunque con quelle foto.” gli disse lei vedendolo esitare “Tra mezz’ora non ci sarà più nessuna luce.”
Il giornalista si mosse verso il lato anteriore della casa, tutte le finestre erano sprangate, ma la porta, che si trovava alla sommità di una piccola rampa di scale molto larghe, sembrava quasi pronta a cedere ad una piccola spinta.
Mosse alcuni passi verso di essa e poi si fermò con un piede sul primo gradino, incerto. Non avrebbe voluto ammetterlo, ma cominciava davvero ad avvertire un leggero senso di paura. La vecchia che arrancava dietro di lui giunse in quel momento.
“Signora Kallum…- le chiese indicando la porta, più che altro per smorzare la tensione. - non mi aveva detto che la polizia aveva sprangato porte e finestre?”
“La smetta di chiamarmi signora Kallum, mi chiami Rebecca.” rispose lei con fare noncurante.
“Ok... Rebecca.” disse il giornalista e mentre pronunciava il nome della vecchia signora ebbe di colpo un’illuminazione. “Rebecca… lei è la vecchia Becky?”
“Sono io.”
“Ma perché non me l’ha detto prima? Quindi lei conosceva June…di persona?”
“Certo, affittava una camera da me.”
Il giornalista seguiva ormai febbrilmente il corso dei suoi pensieri: “E conosceva anche Greg?”
“A Messara tutti conoscevano Greg.”
“Andiamo… ma allora lei mi ha raccontato soltanto una parte della storia!”
“Come le ho detto prima, le ho raccontato soltanto la parte nota a tutti.”
“E non ha voglia di raccontarmi anche l’altra parte?”
“Si sta facendo notte, è sicuro di voler rischiare che il buio la sorprenda qui?”
“C’è un posto migliore di questo per raccontare questa storia?.”
“Quanto a questo, certamente no.”

“June era veramente bella come un fiore. E quanto a Greg invece… se si può paragonare un paese ad un cesto, Greg era la mela marcia del cesto. Non all’esterno… il suo marciume non ha mai intaccato nessuno che gli stesse vicino. Greg era marcio all’interno. Era malvagio. Si fingeva timido e gentile. Fingeva con tutti, e finse anche con June.
Fu lui a portarla qui. Lui veniva qui spesso, di nascosto. Si potrebbe dire che ne era stato contaminato? No, non direi. Piuttosto veniva qui perché il suo animo corrotto, trovava con questo luogo una naturale assonanza. June si fidava di lui… o almeno questa era l’apparenza… e lo seguì docilmente. Greg conosceva il passaggio da cui siamo entrati e la portò qui e poi dentro casa.
Sin dall’inizio aveva giocato a farle paura e lei rideva. Al principio.
Ma una volta dentro, lui la condusse in cantina, e poi tornò di sopra e ve la chiuse dentro. Lei gridò a perdifiato per molti minuti, e lui la lasciò gridare finchè non ebbe più voce e cominciò a piangere. Come una bestia che si nutrisse di fiele, lui si nutriva della sua paura… allo stesso modo in cui molti anni prima si era nutrito della paura della sorella.
Cominciò a descrive a June attraverso la porta che cosa le avrebbe fatto quando l’avrebbe aperta. In casa aveva nascosto delle corde e anche… altre cose.
La tormentò per ore con quelle immagini. Poi, alla fine, entrò.”

Tra Becky e il giornalista calò il silenzio.
“Quindi avevano ragione quelli che dicevano che Greg era un mostro.” Affermò il giornalista con aria meditabonda. “Però sinceramente non capisco. Mi ha detto che la polizia non ha trovato nulla di June e Greg all’interno della casa.”
“Infatti.” Confermò la vecchia.
“Nemmeno le loro tracce nella polvere. Solo piedi piccoli, ha detto.”
“Proprio così.”
“Tutto questo non ha molto senso.” Il giornalista sospirò muovendo qualche passo, avanti e indietro. Aveva la sua storia e le sue foto, e per quanto lo riguardava l’articolo poteva anche bastare, ma ormai era mosso da una curiosità più personale: “Se anche quel che mi sta dicendo è vero, e non so chi possa averglielo raccontato… se pure Greg ha ucciso June e poi è fuggito, ed è riuscito a fare tutto questo senza lasciare la minima traccia... ebbene, questo che cos’ha a che vedere con i ratti che fuggono dalle fogne e i bambini che scompiono?”
“Non mi pare di aver mai detto che Greg abbia ucciso June.” rispose Becky tranquilla “C’è ancora una parte della storia, ed è quella più oscura di tutte. Dopo che gliel’avrò raccontata vedrà che non ci troverà più contraddizioni.”

“Quando Greg entrò nella cantina legò June ad un vecchio letto e si abbandonò completamente alla sua follia. Alla fine andò a prendere un bidone di benzina che aveva nascosto in precedenza e cominciò a cospargere la cantina, voleva dar fuoco alla casa per cancellare ogni traccia. Ma quando si voltò di nuovo verso June, lei era in piedi di fianco a lui. Non fece in tempo a profferire verbo che lei lo aveva già colpito.”
“Dunque quel giorno June si salvò.” affermò il giornalista pensieroso “Continuo a non capire.”
“Si, June si salvò. Eccome. Ma in realtà la domanda giusta è piuttosto se Greg si salvò, ammesso che gliene possa importare qualcosa di un mostro come Greg.” la vecchia trasse un profondo respiro. “Che June fosse bellissima è vero. E gentile anche… almeno esteriormente. Ma oltre a questo, nulla era quello che sembrava. June non veniva dall’Oregon e non aveva 19 anni. Ma specialmente… June non era la vittima innocente di un giovane folle. Nient’affatto. June non solo sapeva che cosa covasse Greg dentro, ma anzi, era proprio per quello che aveva stretto, per così dire, amicizia con lui. June voleva che Greg la portasse qui, e VOLEVA che scatenasse su di lei i suoi desideri più bestiali. Si lasciò quasi uccidere, prima di liberarsi.”
“E tutto questo… perchè?”
“Perché voleva che Greg riversasse nel suo ventre l’apice di tutto il suo odio e della sua follia… in modo che lui la aiutasse a concepire una stirpe di esseri mostruosi. Sono quei mostri che ora cacciano i ratti dalle fogne e fanno sparire i bambini. June era una strega. Nata e cresciuta in questa casa.”
Il giornalista scrollò le spalle: “Mai sentita storia più asssurda.” disse.

La porta della casa cigolò sinistramente, il giornalista si volse e vide la ragazza con gli occhi scuri e i capelli del colore del grano ferma sulla soglia, vestita soltanto di lunghi drappi chiari.
“Oh mio Dio…” ebbe soltanto il tempo di dire prima che la mano della vecchia lo colpisse alla nuca con un sasso.
“Corri a chiamare quel malnato di Greg.” disse Becky “E che si sbrighi a venire a legare questo imbecille. Se si sveglia mi toccherà finirlo e i bambini, il cibo, lo preferiscono vivo.”
“Si, mamma.” rispose June.


AUTORE - MAX

10 febbraio 2005

Blu Notte

Blu notte, viola opalescente, bianco perlaceo. I miei colori, gli stessi che ami anche tu. Li indossavo anche quella volta. Una rosa a fermare il foulard di seta attorno al collo. Eri così orgoglioso di me che non ti rendevi conto che mi stavi perdendo. Così preso dal tuo egoismo, non capivi quello che realmente stava succedendo. Quanto può essere ironica, la vita.

Doveva essere la tua notte. Quella del trionfo del maschio che insegue una vita e finalmente corona il suo sogno proibito. Due donne solo per lui. Due donne a disposizione del suo piacere. Due donne che si accarezzano, si baciano, fanno l’amore per e con lui. Doveva essere tua, quella notte.

Titubante, io. Mi tranquillizzavi e mi dicevi “è un’amica, non preoccuparti, vedrai ti piacerà”. Mi rassicuravi e mi ripetevi “le parlo sempre di te, lei già ti adora”. E ancora “questo non toglierà nulla, a noi, aggiungerà soltanto, vedrai”. Mi raccontavi di quanto fosse naturale, per un uomo, una fantasia come quella. Mi dicevi che mi avresti amato anche di più, dopo. Avevi impiegato un mese di martellante, pressante opera di convincimento. Io ero così dubbiosa, avevo il timore che un’altra nel letto potesse portarti via da me. Rosicchiata dai morsi velenosi della gelosia, ero piena di pensieri cupi e traboccavo di paura. Ma non lo davo a vedere. Avevo deciso di compiacerti, perché sono fatta così. Quando amo sono pronta a qualsiasi prova, ed era il momento giusto per provare a me stessa il mio coraggio.

Avevo messo più cura del solito nel prepararmi, quella sera. L’abito corto viola per mettere in mostra il mio pezzo forte, le gambe lughe e abbronzate. Per sentirmi più sicura. La giacca corta e alla moda, di un blu che si intonava in modo perfetto, così particolare col bianco dei polsini e del collo che faceva capolino, regalando riflessi perlacei al mio viso. Un trucco leggero, ma curato, evidenziava i miei occhi di ambra e le mie labbra carnose. I capelli, lunghi e sciolti, una cascata di riccioli castani per sottolineare la mia femminilità. Nella mente, la mia voce interiore, impaurita e superba, si faceva sentire. Mi parlava e diceva “sei tu la regina, ricordalo, non puoi sfigurare”. Com’è semplice minare la sicurezza di una donna. A volte è anche troppo facile.

Doveva essere la tua occasione. Arrivati al ristorante, il direttore di sala ci ha accolto con un largo sorriso, quasi sapesse, avesse già intuito tutto. Ha indicato il luogo dove lei stava aspettando. Una donna puntuale, la tua amica, ti sono sempre piaciute le donne così. Non come me, che ci metto sempre secoli tra bagno e armadio. Mi sentivo scrutata da tutti, mi sentivo derisa. Mi sembrava che i camerieri smettessero di servire e i presenti si fermassero di mangiare, lasciando nel piatto avanzi di cibo, solo per guardare me e giudicare se ero o no all’altezza della situazione, per fare pronostici e scommettere sulla cavalla vincente. E mi inducevano a chiedermi se sarei riuscita a tenermi il mio uomo, o sarei stata sconfitta dall’altra, l’amica sconosciuta, a causa del mio stupido modo di amare e di accettare le sfide, inconsapevole del valore della mia avversaria. Volevo scappare. Ma la curiosità era più forte di tutto, anche dei miei demoni.

Il tavolo era un po’ discosto, in un angolo, attorno ad esso un separè per renderlo più intimo. Avevi fatto le cose davvero in grande. Celata agli sguardi, seduta di spalle, colei che con me avrebbe avuto l’onore di rendere realtà la tua fantasia più proibita e bramata. I miei passi si erano fatti più incerti mano a mano che ci avvicinavamo a lei, e sentivo il bisogno di bere dell’acqua: la mia gola era diventata secca, come un pozzo svuotato da secoli di siccità.

Ti ho visto sorriderle, compiacente, malizioso, pregustando il momento in cui l’avresti avuta a tua disposizione, per vederci nude e avvinghiate sulle lenzuola. E poi, ho guardato lei, incrociando il suo sguardo. Ed è stato come se non avessi visto mai nulla di più bello, fino a quel momento. Non l’ho realizzato subito. Come un fulmine a ciel sereno, che ti attraversa lasciandoti in vita per miracolo, e ti abbandona, stordito e senza fiato, ci ho messo qualche istante a capire. E più trascorrevano le ore, più intuivo che quella che doveva essere la tua serata, sarebbe stata la mia. Mia e di Nicole.

Nicole, mi era piaciuto subito anche il suo nome. Una cena magnifica. Inaspettata.

Dovevi vederti. Gongolavi come un bambino in un negozio di cioccolato quando io e lei ci sfioravamo le mani. E innocente come un bambino, credevi che io lo facessi per te, che finamente mi fossi rilassata e avessi capito il gioco, accettandone le regole con consapevolezza. Dovevi vederti com’eri compiaciuto, ogni volta che i nostri sguardi si incontravano e inviavano l’una all’altra messaggi inequivocabili di desiderio. Tutto di lei mi rapiva. Lo sguardo da gatta, le labbra mobili, e quelle fossette che sottolineavano il suo sorriso ogni volta che le fioriva sul viso. I capelli biondi, fini, talmente luminosi che sembravano fili d’oro puro. Quel fisico scolpito e tonico, femminile, che Venere avrebbe mortalmente invidiato. E la sua voce, sensuale, calda, che modulava parole e frasi mai banali.

L’hai avuta, la tua serata. Ti sei sentito maschio fino alla fine. Ci siamo spogliate dei nostri orpelli, ci siamo accarezzate e baciate, regalandoci piacere vicendevolmente e appagando i tuoi desideri voyeuristici. Hai potuto prendermi mentre la leccavo, beandoti della mia capacità di adattamento e godendo del fatto che un mese di convincimento valeva bene una notte come quella. E hai potuto prenderla mentre spingeva le sue dita dentro di me, amplificando il tuo orgasmo con quella visione così oscenamente celestiale. Ti sei svegliato tra le braccia di due donne, il mattino seguente, e hai preparato loro la colazione come un moderno sultano nel suo harem.

Non hai capito che ogni sua carezza, ogni suo soffio sulla mia pelle, ogni tocco delle sue mani sul mio corpo, quella volta, mi portavano sempre più lontano da te, dai tuoi desideri, dalle tue esigenze. Non hai capito che quelle carezze e quei baci mi stringevano sempre di più a lei, costringendomi ad amarla. Non l’hai capito ma, dopotutto, non importa: la tua serata, in fondo, l’hai avuta. E, ora che mi hai perso, puoi sempre serbarne il ricordo. Non è ironica, la vita?


Autore-Eliselle

06 febbraio 2005

Il Volto

Impietrito aprii gli occhi in cerca di ciò che aveva causato quel tremendo tonfo.
Non scorgendo niente nelle immediate vicinanze, presi coraggio, mi sollevai dalla sedia e cominciai a muovermi verso le sale della biblioteca. Nell’avvicinarmi alla sala Z non potei fare a meno di vedermi, barbuto e un po’ trasandato, negli specchi che affiancavano l’accesso al salone. Mi soffermai un attimo a contemplare la mia immagine e fui contento di notare che con il trascorrere del tempo il mio sguardo attento, che lasciava trasparire la mia voglia di conoscenza, non era cambiato. Contrariamente il mio aspetto era ormai molto diverso da due anni fa. Già, due anni fa, quando finalmente ero riuscito a prendere l’agoniata laurea in storia medievale, e avevo iniziato a lavorare come bibliotecario qui a Xxxxx.
Mentre riflettevo sul mio passato mi accorsi che nello specchio oltre la mia immagine ve ne era un’altra, inquietante, che sovrastava la mia di un buon palmo.
Fui colto dal terrore. Fulmineamente mi girai, pronto a rispondere a qualsiasi gesto “dell’essere”. Ma dietro di me non vi era nessuno. Istintivamente mossi lo sguardo in cerca di qualche movimento; ma non ne scorsi alcuno.
Turbato da quegli strani eventi, decisi di finire alla svelta la perlustrazione e di tornarmene a casa.
Quindi aprii la porta della sala Z ed entrai. A prima vista tutto era in ordine. Nella sala, vi era un unico enorme tavolo in legno finemente lavorato e coperto da un innumerevole numero di tomi. Questo però non era tutto, e la mia anima in preda al terrore ciò lo sapeva; infatti dietro al tavolo, seduto su di un seggio, vi era LUI, la figura dello specchio.
Impietrito non potei fare altro che ascoltare ciò che quell’uomo, dal volto nascosto dietro un enorme cappuccio e avvolto in una specie di saio di pelle nera, aveva da dirmi.
“Non temere, non ti farò alcun male. Tu sei molto importante per me. Vieni avvicinati devo raccontarti una storia, devo dirti chi sono, e devo mostrati delle cose che ti aiuteranno a forgiare il tuo spirito in vista dei futuri eventi.”
Cercai di prendere in mano la situazione dominando la paura e farfugliai :
“Non capisco di cosa stia parlando e quindi se non vuole che chiam...” mi interruppe con un gesto della mano destra.
“ E’ chiaro che tu non capisca. Se già sapessi io non sarei qui ora ma mi avresti già incontrato” disse, mentre si alzava dal suo seggio.
“Vieni con me”
Lo seguii. Tentai di non farlo ma ero troppo affascinato, troppo preso.
Mi sembrava di essere legato a LUI da un filo invisibile.
Ripercorremmo i corridoi della biblioteca fino a raggiungere l’uscita.
Ciò che mi si parò davanti agli occhi mi lasciò senza fiato; spiritualmente annientato. Ancora non sapevo che ciò che vidi in quell’istante era niente a confronto di ciò che avrei veduto nei minuti successivi. Le strade della città erano deserte. L’aria era piena di uno strano pulviscolo che creava una specie di coltrina di nebbia, dando l’impressione che tutto fosse irreale, sfuocato. Vi era una completa assenza di colori in quello scenario. Sentii LUI respirare profondamente, come se assaporasse quel mondo che a me parve da subito poco piacevole.
“E’ giunta l’ora per te di osservare. Seguimi”
LUI mi precedette, e iniziammo a incamminarci.
Sembrava di essere in una città fantasma. Le auto erano abbandonate, i palazzi vuoti; non si sentivano i rumori della vita. Tutto taceva.
Ad un tratto però qualcosa di impercettibile si iniziò a insinuare nella mie orecchie. Sembrava un canto. Una flebile litania eseguita da milioni di bassissime voci.
“Da dove proviene questo canto?” chiesi molto incuriosito dal fatto che, in un luogo ormai spento come quello, vi potessero essere persone ancora in grado di aggrapparsi ad una preghiera di speranza.
“Non chiedere ciò che presto non vorrai sapere. Io sono qui per guidarti e darti la possibilità di osservare. Altro non so.” Riprendemmo il cammino mentre il suono si faceva sempre più alto e
ciò che prima era lievemente percettibile ora era udibile e comprensibile. Non di litania di speranza si trattava ma di una maledizione ininterrotta. Sembrava il grido straziato di milioni di anime. Fui colto dal terrore. Cosa poteva causare un dolore simile ad un essere umano?
Iniziai a correre. Superai l’essere e le due case che mi dividevano dalla piazza. Non credetti a ciò che vidi. Era impossibile che una cosa del genere potesse verificarsi lì davanti a me. Dalla pavimentazione della piazza fuoriuscivano, come grossi alberi, dei lunghissimi pali e per ognuno di essi, a guisa di chioma, vi era infilzato per le viscere una persona. Il canto che io avevo scambiato come una litania di speranza non erano altro che le imprecazioni di questi esseri agonizzanti che con le loro ultime forze imprecavano contro Dio e contro il loro aguzzino. A quella vista il mio stomaco non resse e senza controllo iniziai a rigettare. Avevo le narici piene dell’odore del sangue e della morte. Mi sentii toccare le spalle. LUI era dietro di me.
Mi aveva raggiunto, il suo viso era ancora coperto, ma pur non vedendo la sua espressione capii che quella visione non lo aveva minimamente scosso. Ne ira ne odio avvertii in lui solo un’estrema apatia.
“Chi ha mai potuto fare una cosa del genere? Chi può disprezzare così tanto la vita altrui a tal punto da annientare lo spirito di questi poveretti?
Chi? Dimmi chi è?” gridai mentre i miei occhi si riempivano di lacrime.
“Lo vuoi veramente sapere? Se si, procedi con me, altrimenti non fare un altro passo oltre questo punto o finirai tra le braccia della disperazione”.
Ero ancora chino a terra quando LUI riprese il cammino.
Mi asciugai gli occhi con la camicia e lo seguii attraverso quello scempio verso un palazzo piuttosto antico che dominava l’intera piazza.
Tutto rimaneva estremamente etereo, il mio cervello faceva fatica a capire se era un sogno o realtà o cosa c’era di reale in quel sogno.
Mentre passammo attraverso quel folto di cadaveri ne sentii alcuni che dicevano “ Il Re. Maledetto sia il Re. Presto anche LUI, non solo passeggerà per il suo giardino, ma rimarrà anch’egli qui con noi.
Il Re. È qui che passeggia il nostro aguzzino”.


Giungemmo al palazzo e ne varcammo l’entrata.
Percorremmo alcuni corridoi fino a giungere in una sala
riccamente addobbata e piena di persone. Nessuno ci notò, era come se fossimo invisibili, o meglio a me sembrava che ad essere invisibili fossero loro. Come al solito tutto era attenuato da un velo di opacità.
Nella sala le persone parlavano fra di loro, ma non appena udirono queste parole tutti si zittirono.
“Non vi sembra che gli alberi del mio nuovo mondo siano molto più rigogliosi e vivi?”
“ Certo sire!” risposero in coro
A quelle parole sentii l’ira salire. Potevo finalmente vedere il volto di quella spregevole persona. Mi feci largo tra la folla fino a portarmi sotto il palco dal quale il Re assisteva alla sua cerimonia. Finalmente lo vidi. Lasciai scorrere lo sguardo dal basso all’alto. Il Re era vestito completamente di pelle nera e nelle mani guantate reggeva una maschera, una bauta di cuoio anch’essa nera con alcuni fregi ornamentali dorati. Non appena fissai i miei occhi sul suo viso
fui nuovamente colpito dalla nausea e da una sensazione di vuoto che forse solo gli ignavi potevano provare. Infatti il volto che stavo fissando con odio altro non era che il mio volto. Il Re che avevo così profondamente disprezzato ero io. Colto dal panico iniziai a correre verso l’esterno, incurante della gente che non mi poteva vedere.
Solo la voce del mio accompagnatore riecheggiava ancora nei corridoi vuoti del palazzo seguendomi nella mia disperata fuga.
“ Fermati! E’ inutile scappare. IO sarò sempre con te”.
Continuai a correre incessantemente, finché non caddi riverso a terra e iniziai ad urlare.
Mi svegliai urlando, prono, accanto alla mia scrivania. Velocemente mi alzai e controllai se ero sporco di materiale gastrico o se la suola delle mie scarpe era sporca di sangue.
Nulla. L’unica spiegazione plausibile fu quella del sogno. Un sogno molto vivido intenso ma pur sempre un sogno.
Tirando un sospiro di sollievo decisi di andare a prendere la mia roba nello spogliatoio del personale. Entrai fischiettando mi diressi al mio armadietto e aprendolo mi cadde lo sguardo sullo specchio.
LUI era lì, il volto nascosto dietro un enorme cappuccio e avvolto in quella specie di saio di pelle nera.
“Ciò che ero ritornerò...la morte finalmente abbraccerò”.


I primi che l’indomani arrivarono in biblioteca videro il giovane bibliotecario riverso sul pavimento del bagno in un lago di sangue.
Ma la cosa più strana fu che al posto del volto del giovane vi era una bauta di cuoio nera dagli splendidi fregi ornamentali dorati.

Autore - SIMONE

MORTE SILENTE

IN FASE DI PUBBLICAZIONE CARTACEA
A PRESTO IL LINK DELL'ANTOLOGIA IN CUI POTRETE TROVARLO
AUTORE - ELISELLE

05 febbraio 2005

UNA NOTTE ALLE PORTE DELL'INVERNO

IN FASE DI PUBBLICAZIONE CARTACEA
A PRESTO IL LINK DELL'ANTOLOGIA IN CUI POTRETE TROVARLO
AUTORE - ELISELLE

Solstizio d’inverno

La porta della taverna si spalancò di colpo, sospinta dal vento della tremenda bufera che spesso spazzava quelle terre.
-Sbrigatevi ad entrare, voi!- tuonò la voce del locandiere, intento a pulire alcuni boccali col suo straccio. Quella sera nonostante la tempesta di neve molti avventori erano comunque venuti a bere un boccale della sua birra, che a suo dire veniva direttamente dalle Terre del Sud. Il viaggiatore entrò velocemente e chiuse la porta. Il pesante mantello mezzo congelato e coperto di nevischio fu velocemente buttato su un tavolo, vicino al fuoco. Il nuovo avventore si sedette al bancone, gli sguardi degli altri clienti puntati addosso. Il silenzio era calato sulla sala.
Il viandante portava una leggera armatura di piastre di vecchia fattura, la vernice nera era ormai stata graffiata via da tempo su maggior parte della superficie. I paramani di metallo erano invece più recenti, ma non portavano segni di vernici o simili. Erano di quelli che lasciavano le dita scoperte, per una miglior presa sulle armi, notò il locandiere.
Il fisico dell'uomo era asciutto e proporzionato, i muscoli ben sviluppati, ma non all'esagerazione come quei diavolo di barbari che ogni tanto venivano a prendersi una sbornia fra una scorreria e l'altra.
Il viso sottile e mortalmente pallido incorniciava gli occhi nerissimi, nei quali si riusciva a stento a riconoscere la pupilla grazie alle venature dorate dell'iride.
Lunghi e fini capelli neri gli ricadevano sulla schiena. Una spada gli pendeva dal fianco, l'elsa adornata di onorificenze in forma di lunghi e sottili nastri, come quelle che venivano assegnate nelle terre del Sud; decorazioni stupende sulla guardia e sul forte della spada, la lama protetta da un raffinato fodero di cuoio. Un libro di preghiere gli pendeva dalla cintura. Un altro, pensò il locandiere. Appoggiò l'ultimo boccale ancora da pulire e si diresse in silenzio verso di lui.
-Una di quelle.- disse l'uomo, indicando uno dei boccali degli altri avventori.
Il locandiere spillò la birra scura e schiumosa senza dire una parola.
L'uomo iniziò a sorseggiarla con molta calma, il suo unico commento fu: -Ottima. La migliore che abbia mai bevuto al di fuori delle Terre del Sud.-
-Sei anche tu qui per il solstizio d'inverno, vero?- Il tono di voce dell'oste era divenuto timoroso. L'uomo non staccò gli occhi dal boccale.
-Sì.-
-Sei il quarto di oggi, lo sai?-
Lo sguardo dell'uomo assunse un'aria interrogativa. Il locandiere si fermò ad ascoltare il suono della tempesta.
-Cacciatori di demoni. Ne sono arrivati a decine nell'ultimo mese. Non negarlo.-
L'uomo sorrise, lo sguardo fisso sul boccale, ma non rispose.
Uno degli avventori, il più giovane, sbotto' di colpo. -Ma insomma, e' da qualche giorno che siete tutti sempre più preoccupati: ho visto anche qualcuno fare le valigie e andarsene! Ma si può sapere che hanno tutti?-
Un altro cliente, molto più anziano, rispose semplicemente, con aria molto grave: -Tornerà. Domani.-
Il giovane parve ancora più confuso di prima, mentre il silenzio si faceva più greve. Quel silenzio pesante, che copre qualcosa di cui si farebbe volentieri a meno di parlare, e che ti lascia quel senso di disagio lungo la schiena. Il locandiere si sedette su uno sgabello. -Lascia che ti spieghi io.-
Ed inizio' a raccontare.
-Tempo addietro, durante il periodo della Guerra dei Cancelli, tutta questa zona era pericolosamente vicina al fronte, a non più di un paio di miglia. Si dice che un giorno apparve sulla collina la sagoma alata di un demone. La storia narra che rimase per due giorni fermo, immobile sulla collina a fissare la nostra città. Poi, il terzo giorno, scese sulle case ed atterrò in mezzo alla piazza del municipio. Un tempo nella nostra città abitava un mago, niente di eccezionale. A centinaia morirono, ma lui fu il primo ad andarsene. Gli annali dicono che il demone lo sventro' per primo perché l'aveva riconosciuto, pronunziandone il nome: Uriziel. Mio nonno mi ha spiegato che per un demone era pericoloso che qualcuno conoscesse il suo nome perché chi lo scopriva poteva piegare il demone al suo volere, pensate che roba.
Uriziel era fra i più forti della sua empia stirpe, cosi' dissero i Saggi mandati dalle autorità Imperiali una volta avvistato il mostro. Il sacro ordine dei templari venne mobilitato insieme all'Ordo Malleus, gli inquisitori. Per mesi i nostri concittadini non ricevettero più nessuna notizia, mentre il demone continuava a riscuotere il suo tributo di sangue, mietendo vittime come grano maturo.
Poi, un giorno, venne finalmente avvistato un reggimento di Templari. I cavalieri corazzati entrarono in città e si fecero dire dove il demone sarebbe apparso. Vi si diressero senza timore, forti della loro fede e della loro abilità.
Non uno fece ritorno. I corpi massacrati furono esposti sulla colline dove Uriziel era apparso la prima volta, impalati su tronchi senza punta. La loro pelle sventolava in cima ad ogni singolo palo. Il terreno rimase rosso per mesi, su quella dannata collina.
Il mostro venne nella nostra piazza la mattina seguente. Si era sentito indignato per il trattamento subito, disse, e quindi impose il suo volere: sarebbe venuto, ogni due giorni, al tramonto, per uccidere una famiglia per volta.
Quello stesso giorno chi poteva partì verso Sud, nella speranza di salvarsi da quel terribile destino.
Ma ogni giorno arrivavano notizie provenienti dai villaggi circostanti del ritrovamento dei corpi dei fuggitivi.
Per un mese i sopravvissuti vissero nel terrore più assoluto, ringraziando gli Dei di essere ancora vivi quando spuntava l'alba e le notizie dei ritrovamenti vennero presto prese con gioia dai cittadini, sollevati che l'attenzione del mostro fosse stata attirata dai profughi. Io poveretti li capisco, sapete, anche se mio nonno si vergognava quando lo raccontava perché diceva che era una cosa crudele.
Mancavano due giorni al solstizio d'inverno quando arrivarono dieci uomini dalle Città ai Bordi, le contrade più a Sud di tutto l'Impero.
Dissero di essere cacciatori di demoni, appartenenti ad un ordine parallelo a quello dei Templari.
La gente indicò loro il punto dove il demone sarebbe apparso. Loro si sedettero ed aspettarono.
Quando il demone comparve, i dieci uomini si alzarono da terra, sfoderarono le spade e lo sfidarono. Il Demone, pur comprendendo che lo scontro avrebbe potuto rivelarsi mortale, accettò.
Per due giorni e due notti combatterono come leoni, ed il Demone venne sopraffatto.
L'ultimo sopravvissuto dei Cacciatori prese il corpo di Uriziel, gli staccò le ali e lo inchiodò a testa in giù ad un'enorme croce, le braccia e le gambe divaricate. Utilizzò dei chiodi sacri, che venivano fabbricati dai maghi delle accademie imperiali; questo lo prese mio nonno quando tutto fu finito- e così dicendo estrasse da sotto il bancone un grosso chiodo di bronzo, con due lame incrociate al posto del consueto paletto di ferro, e lo mostrò a tutti.
- La carne del demone sfrigolava a contatto col metallo benedetto. Poi, dopo aver raccolto tutta la legna secca che poteva trovare ed averla ammucchiata sotto la croce, accese la pira.-
Il racconto venne interrotto dall'uomo dai capelli neri, che concluse al posto del locandiere.
-Il demone con le ultime forze rimastegli giurò che a distanza di un secolo sarebbe tornato per avere la sua vendetta, portandosi tutta la città al suo Inferno. Si dice che la pira sia bruciata per una settimana intera, ed il giorno in cui si spense il Cacciatore sopravvissuto morì per le tremende ferite subite. Domani è il giorno. Domani Uriziel tornerà per riscuotere il suo tributo.-
Un altro cliente disse con voce timorosa: - Ma il glorioso ordine dei templari non c'è più, e quello della Guerra dei Cancelli era forse il periodo di maggior sviluppo dell'Impero, un'età d'oro! Non possiamo contrastare un avversario così potente con i nostri attuali mezzi! Anche i Cacciatori di demoni non sono più come una volta, li hai visti anche tu! Quello di ieri sembrava un otre di birra nanica !-
Il Cacciatore si alzò e riprese il mantello dal tavolo. Si diresse verso la porta, poi si fermò e disse: - Oste, non ho abbastanza soldi per pagarti la birra. Spero che tu possa accettare i miei bracciali come pagamento temporaneo.-
E così dicendo si sfilò i paramani lucenti, dirigendosi nuovamente verso il bancone. Il locandiere fece spallucce ed accettò.
Il vecchio cliente, seduto al tavolo più lontano, chiese speranzoso: - Credi che riusciremo a ricacciare il demone? Possiamo noi oggi contrastare un così forte nemico?-
L'uomo appoggiò i paramani di fianco al chiodo magico, l'oste seguiva ogni movimento della sua mano. Poi, di colpo, rimase atterrito, quasi cadde sul pavimento nel tentativo di allontanarsi. I clienti si girarono a fissarlo sorpresi.
Una grande cicatrice a forma di croce solcava il pallido dorso della mano del viaggiatore, la carne bruciata come se fosse un'ustione.
- Vedremo, vecchio mio.-
Si diresse verso la porta; il cappuccio ne nascondeva nuovamente il pallido volto. Solo quando varco' la soglia per rituffarsi nella bufera l'urlo straziante di terrore dell'oste lacerò il silenzioso manto della notte.
-Vedremo.-



Autore - VENTI