06 dicembre 2005

GHIACCIO

Rainar scostò la pelle che copriva l'entrata della sala del consiglio. L'aroma di resina proveniente dal camino scoppiettante lo investì, causandogli un attimo di sbandamento; la bruciante aria gelida respirata in settimane di viaggio sul ghiaccio l'aveva privato dell'abitudine a odori così forti.
L'uomo del nord posò il pesante mantello di pelliccia in un angolo e si diresse al posto che gli era stato riservato, insieme agli altri Signori delle Lande, i capi degli insediamenti di quella popolazione che i meridionali chiamavano barbari.
"Saljaran, Rainar." Il Padrone della steppa accompagnò il saluto con un cenno della mano.
"Saljaran, compagni. Perdonate il ritardo; la madre bianca ha deciso di farci piombare nella grande notte con due cicli di anticipo."
Il Padrone della steppa, capo dei capi del nord, annuì gravemente e fece cenno a Rainar di sedersi sullo scranno. Poi iniziò il suo discorso.



Nelle terre di Fhas, nel cuore del grande impero, il sole splendeva nel cielo inondando di luce il Palazzo d'Argento. Molte delle finestre del castello erano aperte per far entrare la leggera brezza ristoratrice nella speranza che alleviasse l'afa che incombeva in quei giorni.
Quasi invisibile, da una di queste finestre si sporgeva un uomo, le braccia poggiate al davanzale di marmo. I pratici indumenti che indossava erano in perfetta armonia con la sua persona semplice, il fisico asciutto, i capelli ben curati raccolti con un povero ma robusto laccetto di cuoio. I suoi occhi grigi scrutavano a nord, seguendo il volo di alcune aquile degli altopiani; la mano pareva invece intenta a tormentare la corta barba sul mento.
Una porta si aprì alle sue spalle. "che fate, padre?". L'uomo si volse ben sapendo che si sarebbe trovato davanti una splendida ragazza. Gli occhi, identici a quelli del genitore, erano come gemme incastonate nel suo splendido viso, incorniciato da una cascata di capelli castani come quelli della madre. Anche le vesti, sebbene comode e di stoffa robusta, lasciavano intravedere le delicate forme della fanciulla.
L'uomo sorrise, tendendo una mano verso sua figlia.
"Abigail! Che ci fai qui, bambina mia?" la cinse con un braccio, attirandola a sé e schioccandogli un bacio sulla fronte. Lei fece una smorfia: ormai era quasi una donna fatta, ma suo padre si ostinava a chiamarla in quel modo.
"Non dovevi essere con tua madre giù al porto?"
"Sono venuta a salutarti, padre. Non volevo perdere la tua partenza." Abigail posò lo sguardo sulle sagome delle aquile, ormai scomparse dietro l'orizzonte delle montagne. "Sono stupende, non è vero?"
L'uomo annuì.
"Siete turbato ultimamente. Questo viaggio vi preoccupa così tanto?"
L'uomo guardò la ragazza, per poi volgere nuovamente lo sguardo a settentrione.
"Non mi piace ciò che sto per fare. E' necessario, sì, ma mi angoscia terribilmente. Non ho scelta."
Un alto funzionario entrò nella sala, prostrandosi in un ampio inchino. "Se vostra maestà l'imperatore è pronto possiamo partire."
L'uomo si voltò annuendo, e si diresse verso l'armatura da battaglia posata in un angolo.
In silenzio iniziò ad armeggiare con piastre e cinghie; non si era mai voluto avvalere dell'aiuto di paggi o servi.
Una volta sistemata l'ultima fibbia, l'imperatore abbracciò sua figlia Abigail e si diresse verso la porta dopo un ultimo sguardo, ma la voce della ragazza lo fermò.
"Padre…?"
"Sì, bambina mia?"
"Cosa andate a fare al nord, di preciso? Questa on sembra una normale campagna."
L'uomo si voltò verso la figlia, fissandola negli occhi. "Meglio che tu non lo sappia Abigail. Né ora, né mai."
Ed uscì dalle sue stanze.



"Proclama un consiglio di guerra. Adesso."
Il soldato annuì, ma venne subito fermato. "Non solo uomini. Donne. Bambini. Voglio tutti, in quella piazza."
Il soldato non protestò e ripartì velocemente.
Rainar si lasciò cadere pesantemente sulla sedia, reclinando il capo e chiudendo gli occhi. Rimase fermo per un tempo che preferì non calcolare, finché non decise che era il momento giusto.
Erano passate tre ore da quando aveva dato l'ordine al soldato, e ad attenderlo trovo una piazza gremita; il diadema della conquista poggiato sul capo, segno della sua vittoria nella Sfida Reale, gli avrebbe permesso di farsi udire chiaramente da tutte le centinaia di persone presenti.
Quando apparve sul piccolo palco tutti si inginocchiarono puntando lo sguardo verso il basso in segno di rispetto. Rainar osservò attentamente la sua gente, il suo popolo. E pianse.
E mentre le lacrime gli rigavano il volto, scese dal palco e iniziò a camminare in mezzo agli altri.
"No, alzatevi.- Disse. -Ora non sono il vostro sovrano. Sono solo Rainar, figlio di cacciatori come voi. E sono qui oggi per darvi la peggiore delle notizie." Trasse un grande respiro, nella speranza che gli desse la forza per continuare e sostenesse la sua voce rotta.
"Narth'azak si avvicina. La Grande Battaglia delle leggende è ormai prossima: lì verrà deciso il fato del nostro popolo. Lì verrà decisa la nostra fine o la nostra vita.
Gli abitanti delle terre assolate giunsero molto tempo fa, bramosi del metallo del sole conservato dalla madre bianca. Hanno tentato di comprarci. Di separarci. Di renderci deboli. Ma non ci sono riusciti! Ed ora, hanno deciso di sterminarci."
Non un brusio si levò dalla folla. Soltanto la natura, con il suo vento era padrona di quel silenzio.
"Il loro esercito è grande e forte, i loro soldati coperti di metallo; in questo momento si stanno avvicinando al Grande muro.
Ed in questo momento anche gli altri re del nord stanno parlando al loro popolo come sto facendo io. Noi non capiamo perché stiano agendo così. Noi credevamo che il loro re fosse saggio e fiero, ma evidentemente ci siamo sbagliati."
Rainar tornò sul palco e si sedette sullo scranno approntato per lui.
"Ora andate. Le leggende vi hanno insegnato cosa dovete fare."



L'imperatore varcò la soglia del palazzo, gli occhi rossi e gonfi, ancora lucidi. A Passo di corsa si diresse verso le sue stanze, scaraventando pezzi dell'armatura ovunque lungo il suo cammino.
"Haegan! Vieni qui ! Subito!" ruggì. Una porta si spalancò, mostrando l'imponente figura di una guardia con vari gradi sulla corazza.
"Eccomi, sire. Dite." L'imperatore si sedette sul trono, premendosi le mani sulle tempie e stringendosi la testa. "Ascoltami attentamente."Due respiri per rallentare il cuore.
"Metti agli arresti tutta la Gilda Mercantile del Nord, i suoi quattro sommi mercanti, e il mio terzo consigliere. Sbattili nella cella più buia. Una volta fatto, raduna tutto il palazzo. Dagli sguatteri al primo ministro. Lascia i bambini in custodia alle balie e prenditi cura di mia figlia: non voglio che assista a questo spettacolo."
Haegan deglutì. "C'è altro, sire?"
L'imperatore alzò lo sguardo, gli occhi brucianti di rabbia fissavano un punto nel vuoto, unici spettatori di qualcosa che solo loro potevano vedere.
"Trova i quattro stalloni più forti dell'Impero e la corda più robusta."
"volete… volete giustiziarli tutti, signore?" La voce di Haegan ormai si era ridotta ad un sussurro. "Non avete mai fatto nulla del genere prima."
L'imperatore picchiò violentemente un pugno sul bracciolo di legno massiccio. "Fallo e basta!"
Il capitano delle guardie reali trasalì, poi scattò sull'attenti e fece per uscire.
Sulla soglia si fermò: udiva il sovrano singhiozzare sommessamente.
Haegan chiuse la porta, ordinando alle guardie di non far entrare nessuno; poi si girò e torno verso il trono, sfilandosi l'elmo.
"Gurdil… non posso disubbidire all'ordine dell'Imperatore, lo sai. Ma voglio conoscere i motivi che hanno spinto l'Uomo a fare questa… scelta."
L'imperatore fissò Haegan, le lacrime gli rigavano il viso. A volte, tutte le responsabilità e le rigide etichette gli facevano scordare che Haegan era il suo fratellastro, la persona con cui era cresciuto.
"Piangevano, come me adesso."
Il capitano si chinò sul suo re, preoccupato e perplesso.
"Chi… chi era che piangeva?"
"Loro. Tutti loro. Un'armata intera. Migliaia di guerrieri, erano armate persino le donne. Li abbiamo trovati nella piana ai piedi della montagna che loro chiamano Grande madre. Migliaia."
Gurdil aveva ancora davanti agli occhi quell'immagine. E da giorni sapeva che non se ne sarebbe mai andata.
"I loro re in testa, fieri come le loro genti. Erano meno della metà di noi, ero già stato raggiunto dalle armate dei Graf di confine. Erano meno della metà di noi, ed hanno caricato. Non un grido, un ordine, niente. Soltanto i passi di corsa. E quando la nostra prima linea ha alzato le lance ho visto i loro volti brillare sotto il sole.
Piangevano tutti quanti, Haegan."
Il re scoppiò in singhiozzi afferrando le braccia del parente, dell'amico.
Il capitano della guardia reale stava proteggendo l'imperatore come non aveva mai fatto.
No, non stava proteggendo l'imperatore. Stava proteggendo l'uomo. Soltanto un uomo schiacciato da quanto era successo, troppo per chiunque.
I singhiozzi riecheggiavano per la grande aula vuota.
"Io non potevo più fermare le armate, la battaglia ormai era scoppiata. E nessuno di loro è fuggito, nessuno si è arreso dannazione! Nessuno… piangevano e combattevano, piangevano e morivano come se non ci fosse altro da fare! E poi…
… poi uno dei loro Re mi ha guardato negli occhi. Aveva una grossa ascia, e un diadema sulla fronte, e sanguinava. E allora ho capito tutto."
Il capitano rimase in silenzio. Iniziava a comprendere l'orrore che si era compiuto.
"In quegli occhi ho visto il dolore di un popolo. Un popolo che veniva a morire." Mormorò d'un fiato.
"Un popolo che io sono andato a combattere, convinto di orrori inesistenti da quei… quattro avidi traditori. Un popolo che per difendere le proprie terre si è fatto sterminare. E' stato come combattere contro degli spettri, Haegan."
"Ho versato il sangue innocente di un intero popolo. Le lacrime innocenti di un intero popolo. E tutto per colpa di qualche stramaledetta oncia d'oro sepolta sotto il ghiaccio." Strinse le braccia del capitano in una morsa spasmodica, spalancando la bocca verso il suolo in un silenzioso grido di muto dolore.
"La corda più robusta. La troverò, Gurdil." Disse la guardia con voce sommessa. E strinse il fratellastro più forte che poteva.
Il pavimento di marmo della sala reale era gelido; il ghiaccio del nord sembrava essere entrato anche in quella sala, portato da ricordi laceranti.
Ancora lacrime sul ghiaccio.

AUTORE - VENTI

03 dicembre 2005

SCENDONO LE OMBRE DELLA SERA

IN FASE DI PUBBLICAZIONE CARTACEA
A PRESTO IL LINK DELL'ANTOLOGIA IN CUI POTRETE TROVARLO
AUTORE - MAX

IL PRINCIPIO NEUTRALE

IN FASE DI PUBBLICAZIONE CARTACEA
A PRESTO IL LINK DELL'ANTOLOGIA IN CUI POTRETE TROVARLO
AUTORE - MAX

MORTE PALLIDA

IN FASE DI PUBBLICAZIONE CARTACEA
A PRESTO IL LINK DELL'ANTOLOGIA IN CUI POTRETE TROVARLO
AUTORE - ELISELLE

29 novembre 2005

IL PUNTO FUGGITIVO

PRESENTATO A UN CONCORSO LETTERARIO

AUTORE - MAX

27 novembre 2005

LA BALLATA DEI METALLI

1
La Ragazza di Ferro aleggiava tra i frammenti rocciosi che costituivano gli anelli del gigante gassoso. L’autopilota faceva correre la nave alla sessa velocità di orbita del grosso masso dietro cui era celata, così da farle mantenere una posizione fissa nel campo di detriti.
Il cacciatore di taglie puntò accuratamente il disintegratore contro l’astronauta che stava disperatamente tentando di riparare il mercantile in panne.
Il Tizio con la taglia aveva nascosto la sua nave dietro un asteroide grosso come una villetta a due piani e ora stava tentando di ripararla.
Non avrebbe fatto in tempo.
Sotto di loro i venti che striavano l’atmosfera rossastra del gigante gassoso, correvano a oltre 1800 chilometri all’ora. Il gigante riempiva tutto il campo visivo, come un’enorme voragine pulsante nello spazio.
Chiuso nell’esoscheletro da battaglia, fissato magneticamente alla sua nave, Kail il Pazzo prese accuratamente la mira. Non poteva semplicemente disintegrare il Tizio e la sua nave, perché doveva portare al governatore il cadavere per incassare il compenso. Doveva lavorare di fino.
Del resto era un professionista.
Non aveva la minima idea di cosa avesse fatto il Tizio ma era Ricercato vivo o mortodalla Corporazione Esterna e, per sua sfortuna, era rimasto a piedi con la sua carretta mentre veniva inseguito dalla famigerata Ragazza di Ferro .
L’uomo – se così si poteva chiamare – diede un colpetto affettuoso alla carlinga di duracciaio della sua nave. Era un robusto incrociatore Asturiano che lui aveva profondamente modificato e potenziato, nel corso di quasi un decennio di caccia ai fuorilegge in tutti i Settori Esterni.
Modificare una nave era una pratica comune in quelle zone, come del resto era comune spendere milioni di crediti per acquistare costose migliorie meccaniche per il proprio corpo. Kail ad esempio stava mirando alla sua preda con un precisissimo disintegratore a variazione magnetica montato nel suo braccio sinistro, dove erano alloggiati anche un lancia granate a concussione e una lama atomica.
Gli occhi che scrutavano lo spazio, alla ricerca del punto debole nella tuta spaziale del Tizio con la taglia erano sofisticati organi visivi biotec, capaci di vedere in qualsiasi condizione di luce. Dell’uomo di Proxima, dopo anni di interventi chirurgici, era rimasto ben poco.
Kail ingoiò una pastiglia di kark, una mistura di anfetamine, nicotina e droghe sintetiche che lo aiutava a concentrarsi. Chiuse il contatto e sparò.
Non si vide nessun fascio di luce. Il disintegratore scannerizzava il campo magnetico della preda e lo distorceva. Poteva colpire a non più di tre chilometri: se il Tizio con la taglia fosse stato più accorto avrebbe certamente individuato il suo assassino nascosto tra gli anelli del gigante.
Invece il disgraziato continuò a lavorare alla sua nave finché il suo campo magnetico non fu distorto irreparabilmente. Il comando delle bombole di ossigeno collassò e il Tizio iniziò a contorcersi, mentre soffocava.
Durò tutto pochi minuti.
Kail lo vide tentare disperatamente di raggiungere il portellone della sua nave. Lo vide mettere goffamente le mani guantate sul comando di apertura. Lo vide armeggiare inutilmente sui comandi, colto dalla frenesia di chi sa che sta per morire.
Quando la tuta spaziale con dentro il Tizio smise di muoversi e iniziò a galleggiare come un pupazzo nel gelido spazio, Kail sganciò l’esoscheletro da battaglia e lo diresse verso la sua preda.

Caricò il cadavere sulla Ragazza di ferro, in una capsula conservante, poi si occupò della nave del Tizio. L’avrebbe perquisita in cerca di informazioni e gingilli da prendere come parte della ricompensa. Spogliata di ogni cosa utile per lui e la sua nave, vuotata di carburante, l’avrebbe rimorchiata fino al primo mercato errante dove l’avrebbe venduta. Era una buona nave, sperava di farci su cinquanta o sessanta mila crediti.
Mentre lavorava, canticchiava la Ballata dei metalli. Era un’antica canzona popolare, nota da secoli agli uomini e tradotta un po’ in tutti i loro dialetti. Kail non sapeva perché si chiamasse così.
Era una canzone triste e solenne, che andava suonata con gli emulatori degli arcaici strumenti dell’era pre-spaziale. L’aveva imparata da sua madre su Proxima, uno dei mondi umani più antichi, e la cantava sempre alla fine di un lavoro: credeva che rappresentasse bene la sua natura di uomo solo.

Non mi sono mai aperto in questo modo,
la vita è nostra, la viviamo a nostro modo,
tutte queste parole che non mi limito semplicemente a dire
e nient'altro conta.

Fiducia, cerco e trovo in te
ogni giorno qualcosa di nuovo per noi,
apri la mente per una visione differente
e nient'altro conta.

Non mi sono mai preoccupato per ciò che dicono,
non mi sono mai preoccupato dei loro giochi,
non mi sono mai preoccupato per ciò che fanno,
non mi sono mai preoccupato per ciò che sanno…



Il cacciatore smise di cantare e osservò eccitato le informazioni che stava scaricando dal computer centrale della nave del Tizio. Dopo decine di informazioni inutili, il diario di bordo stava ora carpendo la sua attenzione: tre mesi prima, più o meno quando il Tizio era stato inserito nelle liste di proscrizione della Corporazione, quel disgraziato aveva fatto un viaggio nella Desolazione.
Kail conosceva bene la Desolazione. Era nato su Proxima, il pianeta abitato da uomini più vicino ad essa. Era una fascia di spazio, profonda un centinaio di anni luce, dove tutti i pianeti erano stati distrutti e resi inabitabili. Era accaduto dieci secoli prima, durante la Guerra Fratricida tra gli uomini.
Ora la Desolazione era una terra di nessuno tra i mondi esterni e l’Impero umano che, geloso della sua purezza etnica, non permetteva a nessun alieno e a nessun umano dell’esterno di entrare nei suoi confini.
Come mai il Tizio era stato nella Desolazione? Era forse quello il motivo per cui la Corporazione l’aveva proscritto? Kail lesse ancora più attentamente il diario di bordo.
A un tratto un nome lo fece fremere di curiosità.
Earth. Conosceva quel pianeta perché era ad appena quattro anni luce da Proxima. Come spesso accadeva ai mondi morti, aveva mantenuto un nome arcaico, legato ad un antico idioma.
Secondo gli studiosi era molto antico, tra i primi colonizzati dagli uomini. Secondo altri era addirittura la culla dell’umanità, ma questo era un primato che molti pianeti umani rivendicavano, a partire da Proxima stessa oltre, ovviamente, a Tellus capitale dell’Impero umano. Alcuni pensavano che il mondo d’origine degli uomini non esistesse più.
Le altre principali razze della galassia sapevano con chiarezza qual’era il loro mondo di origine. I Sentoriani avevano Sentor, i Denniz avevano Den-zi-ar, gli Hellani avevano Hella e così via.
Non esisteva un’Umania per gli umani.
Sarebbe andato su Earth per scoprire cosa il Tizio aveva combinato su quel pianeta. Non c’era un vero motivo, se non la curiosità morbosa che Kail provava nell’indagare le pieghe nascoste della vita delle sue vittime.
Avrebbe incassato la taglia, venduto la nave del Tizio e poi sarebbe andato nella Desolazione. Poteva ricavarne poco o nulla, non gli importava.

2
Su quel maledetto pianeta pioveva sempre.
La donna dell’Impero odiava stare in quel maleodorante inferno di venti e piogge. L’Impero era villette con giardini ordinati, città pulite, clima temperato, androidi servitori.
In una parola l’Impero era l’Ordine. Tutto ciò che era fuori di esso era il Caos.
Lei era sul quel mondo di merda, ai confini della Desolazione, proprio per difendere quell’ordine.
Era un’agente della Sagitta, il servizio segreto di Tellus. Non si poteva dire che amasse il suo lavoro, ma la fede cieca nell’ideale dell’Impero la rendeva un elemento di primordine nell’organizzazione.
Per questo c’era lei ad attendere l’esterno su Earth.
Il piano della Sagitta era contorno e rischioso, ma avrebbe assicurato altri secoli di pace e isolamento all’Impero.
Per questo stava andando ad incontrare l’uomo,
(se così si poteva chiamare)
che veniva dalla Corporazione Esterna.
Non sarebbe stato semplice.
Osservò la nave planare goffamente sull’acquitrino putrescente che era la superficie di Earth. Il piccolo incrociatore da guerra che l’aspettava sulla faccia nascosta della luna di quel mondo era aggraziato e letale. L’arnese che aveva portato sin lì l’Esterno, invece, sembra un porcospino metallico: era barbara ed evocava mondi selvaggi e pericolosi.

Kail aveva diretto la sua nave verso il centro di una grossa penisola, nei pressi dei tropici, che divideva in due parti un vasto mare interno che, ridotto ormai a un immenso lago, aveva allagato vaste aree che una volta erano state terre emerse.
Tutt’intorno a lui i sensori indicavano rovine. Mentre volava, però, si era reso conto erano rimasti in piedi solo pochi muri e che gli strumenti stavano indicando solo le fondamenta di quelle che dovevano essere state costruzioni imponenti.
Solo due edifici diroccati restavano in piedi in quella desolazione: una costruzione circolare simile a uno stadio per carstade un’enorme colonnato circolare che sembrava abbracciare quella che un tempo doveva essere tata una piazza e di cui rimanevano solo poche lastre di pietra semisommerse.
Kail guidò la Ragazza di ferro verso la piazza la lasciò fluttuare a pochi centimetri da terra: non voleva rischiare di impantanarsi. La piazza era una sorta di ellissi il cui centro era occupato da un grosso obelisco di pietra che emergeva inclinato dal fango come il dito di un cadavere. Sulla sua sommità una croce metallica tutta contorta sembra la mano di arrugginita di un automa mutilato. Spuntava di circa una ventina di metri ma i sensori indicavano che sprofondava nello strato melmoso per altrettanti metri. Sapeva cosa cercare ma non dove.
Ricordava perfettamente quello che aveva letto sul diario di bordo della nave del Tizio.

Data astrale: 69BFC
Sono atterrato su Earth alle ore 12.25. E’ un pianeta spettrale, con tutte quelle rovine. Alcuni sostengono che sia addirittura il luogo di origine dell’Umanità.
Non so se è vero, ma non vedo l’ora di lasciare questo cimitero.
Ho incontrato Cassandra alle coordinate omissis. Erano le ore 12.39, orario galattico standard.
Ho consegnato il carico. Mi ha pagato con la solita merce: reperti archeologici.
Alcuni sono veramente belli, risalgono forse addirittura all’era pre-iperspazio.


Kail commerciava in reperti antichi e ne era un collezionista accanito. Per questo doveva trovare Cassandra.
E farsi dare i suoi reperti più preziosi.
Le coordinate di incontro con Cassandra erano state criptate ma tra i vari gingilli che Kail aveva montato sulla Ragazza c’era anche un super processore neurale in grado di decrittare qualsiasi codice.
Il contrabbandiere hellano che glielo aveva venduto gli aveva assicurato che con quello era riuscito a leggere i database più segreti del governo del suo pianeta.
Il fatto che il contrabbandiere avesse una taglia da un milione di crediti sulla testa, offerta dal Ministero degli interni di Hella dimostrava che la sua tesi aveva qualche fondamento. Quando Kail aveva intascato la taglia per il contrabbandiere, però, non era riuscito a sapere dal funzionario che l’aveva pagato qual’era il reato per cui il malcapitato era diventato un vivo o morto.
Iniziò ad armeggiare col computer, tramite il cip neurale che era si era fatto impiantare proprio in quello che una volta era stato il suo cervelletto.
Mentre il suo cip dava ordini al programma decifratore, Kail scandagliava con i sensori i dintorni della nave.
C’erano rovine dappertutto. Rovine in pietra, in cemento, in metallo. Quel pianeta sembrava un museo di stili e tecniche architettoniche.
Non si stupì che qualcuno usasse quel mondo per contrabbandare reperti archeologici.

Il decifratore mandò un messaggio al suo cervello:

Errore: impossibile decifrare il codice

Kail ordinò di ripetere l’operazione.

Errore: PROGRAMMA TERMINATO. FORMATTAZIONE IN CORSO.
60 SECONDI AL TERMINE DEL PROCESSO…

Kail bestemmiò. Quel codice aveva mandato un comando di autodistruzione al suo costoso superprocessore.

SPEGNI TUTTO E BACKUPPA

Il computer di bordo iniziò a salvare i dati ed isolare le parti danneggiate.

Kail si rilassò. Chi poteva criptate così bene un codice? Un maledetto servizio segreto! Qualcosa di losco d’era sotto tutta la faccenda.
La cosa lo interessava molto.
Il segnale di allarme lo distolse dai suoi pensieri. Un veicolo di superficie si avvicinava.
Attivò tutte le armi e portò la nave a quattro metri da terra, puntando sul veicolo la torretta di prua, pronto a incenerirlo con una scarica di plasma.
Molto più a suo agio come guerriero che come pirata informatico, lanciò un messaggio su varie frequenze e in varie lingue.

“Sono Kail di Proxima, comandante della Ragazza di Ferro. Fatevi riconoscere. Non ho intenzioni ostili ma se mi attaccherete dovrò difendermi”.

Non ci fu risposta e il veicolo si fece più vicino. Era un grosso caccia di superficie di forma oblunga; ad una prima scansione risultò ben armato. La tecnologia poteva essere Denniz ma alcune caratteristiche non combaciavano.
La Desolazione era un rifugio per pirati e tagliagola e quel veicolo poteva essere stato costruito in qualsiasi posto e da qualsiasi razza.
Per un istante si scoprì a pensare che non aveva idea di chi diavolo fosse Cassandra e che lingua parlasse. Non sapeva nemmeno se quel pianeta era abitato e da chi.
Presto lo avrebbe scoperto.

Il veicolo si fermò a un centinaio di metri dalla Ragazza di ferro, aleggiando aggraziato sul mare di fanghiglia. Dopo una breve pausa si era rimesso a piovere. La composizione dell’aria era ricca di gas velenosi e la stessa pioggia era acida.
Kail notò un quadrupede, simile a un cane ma con canini lunghissimi e cieco che inseguiva una specie di leprotto anch’esso decisamente bizzarro. Era uomo dallo stomaco forte ma quando il cacciatore macinò la preda tra le sue smisurate fauci, vedendo l’orrendo contorcersi della vittima e il suo sangue verdastro colare tra le fauci dello pseudo-cane non poté fare a meno di porre fine alla scena incenerendoli entrambi.
Si pentì subito perché rammentò che il veicolo alieno lo stava osservando e probabilmente stava giudicando le sue capacità: perdere il controllo per una semplice scena di caccia non era sintomo di grande autocontrollo…
…Il segnale di comunicazione in arrivo lo distolse dal turbine dei suoi pensieri. Prese un Kark per allentare la tensione e attese.

“Qui è il veicolo da sbarco del Corallo e io sono il comandante. Siamo una nave Denniz in esplorazione nella Desolazione. Stiamo cercano materie prime. Non abbiamo intenzioni ostili. Qual è il motivo del vostro viaggio su questo pianeta”.

Kail capì subito che il nuovo venuto, chiunque fosse, stava mentendo. Faceva il cacciatore di taglie da vent’anni ed era ancora vivo grazie al suo istinto.
Una nave Denniz non sarebbe entrata impunemente nella Desolazione: sebbene teoricamente fosse terra di nessuno, l’Impero la pattugliava costantemente e non vi avrebbe mai fatto entrare una delle razze più bellicose della galassia. Inoltre, i Denniz sarebbero stati veramente dei folli a cercare materie prime in quella topaia.
Decise di muoversi con cautela. A lui non interessava perché il Corallo, o come diavolo si chiamava quella nave, fosse su Earth.
A lui interessavano Cassandra e i suoi oggetti antichi.
“Questo è un mercantile Asturiano, io lavoro per la Corporazione Esterna. Sto indagando su una nave che è stata qui oltre tre mesi fa. Cerco una persona che credevo vivesse qui. Ora però non ne sono più così sicuro”.
“Cassandra. Lei cerca Cassandra, vero?”
“Come fa a conoscerla?”.
“Da quando stiamo girando per la Desolazione ne abbiamo spesso sentito parlare. Cassandra è un mito. Dicono che predisse la fine della razza umana ma che non fu creduta…”
“La razza umana non è morta…”
“Lo crede davvero? Lei è un umano, vero?”
“Certo. Questo dimostra che non ci siamo estinti…”
“Siete sparsi per decine di mondi, senza una patria salvo un Impero che non riconosce come umani coloro che non sono nati entro i suoi confini e che non vuole contatti con gli altri popoli della galassia: questo secondo lei è esistere come razza?”

Kail non aveva mai pensato alla cosa in questi termini ma ora si accorgeva che il nuovo venuto non aveva tutti i torti.
Non sapeva cosa dire e insistette sull’argomento che gli premeva di più, per non dover dar ragione all’alieno.
“Da quanto siete nella Desolazione? Io vengo da Proxima, qui vicino, ma non ho mai sentito parlare di Cassandra. Non dev’essere così famosa…”
“E’ famosa tra coloro che non accettano come stanno andando le cose nella galassia”.
“Sai dove posso trovarla?” Kail credeva di sapere già la risposta.
“Io sono Cassandra”.
“Possiamo incontrarci?”.
“Se lei è d’accordo salirò sulla sua nave. Così potremo tenere conciliabolo”.

3
Il veicolo di Cassandra attraccò alla Ragazza di ferrosenza difficoltà. I due vascelli furono uniti da un tubo di plastica automodellante che rese il passaggio a tenuta stagna. Kail decise di accogliere la sua ospite senza indossare l’esoscheletro da battaglia ma limitandosi a estrarre la lama atomica dal suo braccio destro e a mettere in allarme tutti i sistemi.
Per mettere subito in chiaro chi comandava nel loro incontro, Kail accese i filodiffusori della nave e l’abitacolo si riempì di una soffusa versione della ballata dei metalli, in un melodioso accento di Sirio.
Cassandra salì disarmata sulla Ragazza di ferro.
La prima cosa che Kail notò era che non era una Denniz né tanto meno un’ umana dei mondi esterni.
Era una donna dell’Impero.
Anche se non aveva mai visto un imperiale era impossibile sbagliarsi: non aveva protesi né gingilli biotec che le adornassero il corpo.
La figura, stretta in una tuta attillata era perfetta e proporzionata, di un’età indefinibile e dall’aspetto molto forte sebbene sembrasse più naturale di quello di qualsiasi esterno. Su Proxima, già a cinque – sei anni si vedevano le prime protesi meccaniche e i primi interventi bionici; questa donna, invece, poteva avere una trentina d’anni standard e non mostrava segni di modifiche.
In realtà il suo fisico era troppo statuario e il suo volto troppo perfetto per essere naturali: qualcuno era intervenuto in maniera così sottile e radicale da far impallidire qualsiasi programma di miglioramento dell’individuo dei Mondi Esterni.
Si diceva addirittura che gli imperiali avessero scoperto il modo di vivere in eterno. Quella donna, quindi, poteva avere decine di decadi.
Kail non credeva a questa scemenze: dell’Impero si diceva tutto e io contrario di tutto. Era il paradiso e il covo di tutti i babau della galassia.
Sebbene fosse molto più minuta di lui, comunque, la donna trasudava una sensazione di pericolosità che mise Kail a disagio.

Senza che lui le dicesse nulla, la donna si abbandonò con grazia su una poltroncina a repulsione gravitazionale, che aleggiava ad una quindicina di centimetri dal pavimento in linoleum dell’abitacolo. I suoi capelli castani cadevano in boccoli sulle spalle minute. Si accoccolò come una gatta pronta a graffiare, fissandolo con occhi che lo attraversavano come vibroralme. .
Il cacciatore di taglie la imitò sedendole di fronte: le torreggiava sopra, superandola di almeno una spanna in altezza.
“Dunque lei sarebbe Cassandra…” disse nel suo tono più minaccioso, fingendo di squadrarla come per giudicarla.
“Diciamo che questo è il nome con qui mi conoscono su questa topaia”. Il tono era seccato e Kail si sentì a disagio per l’irritazione di lei, senza capire il perché. Si sentiva come il bambino sorpreso con le dita nel barattolo di marmellata asturiana, nonostante fosse sulla sua nave e non avesse ancora detto o fatto nulla.
“Perché mi cercavi?”. La donna gli si rivolgeva senza cerimonie, come la maestra con l’alunno. In condizioni normali parlare con quel tono a Kail sarebbe stato equivalente a firmare la propria condanna a morte…ma non in quel momento, su quel pianeta e al cospetto di quella creatura: il cacciatore aveva la mente ottenebrata da qualcosa.
Era diventato una preda e lo sapeva, ma non poteva farci nulla.
“Ho trovato il tuo nome nella banca dati della nave di un uomo che ho consegnato alla giustizia….”
“Lo hai ucciso?”. Nella voce di Cassandra c’era rimprovero.
“Era un criminale….”
“Sapevi quello che aveva fatto?”
“No: aveva una taglia, questo mi è bastato. Questo mi basta sempre….”
Cassandra rise, chinando la testa all’indietro. Era la risata enigmatica e un po’ finta della prostituta che finge di essere corteggiata, ben sapendo che poco dopo le darai 600 crediti.
“Mi piacete vuoi esterni – pronunciò l’aggettivo in senso dispregiativo – diete così lineari. Acceso o spento, per voi non c’è altro. Sembrate uno di quei vecchi processori che funzionavamo in codice binario…”
Per un attimo Kail ebbe l’istinto di piazzare la lama atomica nel petto statuario della donna dell’Impero, ma la sua mente si ottenebrò nuovamente. Non riuscì ad impedire a Cassandra di avvicinarsi a lui.
In un attimo la donna gli fu sopra, strusciandosi sul suo corpo pieno di protesi, iniziando a baciarlo.

Kail si riprese dopo un tempo indefinito. Cassandra era di nuovo seduta sulla poltroncina a repulsione, composta e rilassata come dopo una bella dormita e una doccia tonificante. Lui era stanco, sudato e completamente inadeguato.
Si era fatto dominare da una donna, per di più una fragile e aristocratica imperiale con la puzza sotto al naso.
“Perché l’hai fatto?”
“Perché, come ti ho detto, voi esterni mi piacete. Ora, però, parliamo di affari. L’uomo che hai ammazzato era un mio corriere di anticaglie. La sua morte mi ha reso molto triste. Sei disposto a fare qualcosa per farti perdonare?”
La donna lo fissò nuovamente con quegli occhi profondi e mortali ma che, come un buco nero, lo attiravano senza speranza.
“Tutto ciò che vorrai”. Si sorprese a dire il cacciatore di taglie.
“Bene. Ti darò un po’ di mercanzia che potrai smerciare in tutti i Settori Esterni. Non mi importa cosa venderai né come. Mi basta avere la metà dei profitti. Ogni sei mesi verrai qui portandomi tessere di credito di Proxima, non quelle schifezze che usate nei Mondi Esterni. Se c’è qualcosa che ti interessa molto potrai tenerla”.
“Mi sembra un buono scambio…”.
“Anche a me. Se ti sarai comportato bene ti darò anche un altro po’ di zucchero…”. Aggiunse lei ammiccante.

La ragazza di ferro era pronta a partire, carica di oggetti fantastici che Kail mai avrebbe potuto immaginare. Capitelli di pietra finemente intagliati, pezzi di statue, materiale elettronico basato su cip al silicio: quella roba valeva milioni.
“Un’ultima cosa”. Cassandra aveva una tuta attillata bianca che, bagnata dall’umidità impressionante di quel mondo, mostrava capezzoli turgidi e ammiccanti.
“Tutto ciò che desideri”.
“Ho sentito che sei un appassionato della ballata dei metalli”.
“Ho tutte le versioni conosciute…”
“Non hai la versione originale, nella lingua pre-spaziale di chi la compose…”.
Kail trasalì.
“Impossibile!”
“Ascolta”. Cassandra gli porse uno strano oggetto arcaico, composto da un contenitore a forma di disco collegato da fili sottili a due tappini di materiale morbido. Il cacciatore era un collezionista e sapeva che si trattava di un antico oggetto per ascoltare musica, prima che i cip cerebrali permettessero di immagazzinare i file musicali direttamente nell’encefalo.
Quello che Cassandra gli fece ascoltare era il suono di tutti i cori del paradiso, una melodia potente e solenne e triste insieme, l’apoteosi di tutti i suoni.
Nessuna versione moderna della ballata aveva quella forza evocativa.
“Puoi apprezzarlo solo se lo ascolti con questo oggetto e quegli strumenti”.
“Hai ragione - Kail era commosso fino alla lacrime – anche l’idioma, però, è fondamentale. Davvero me lo dai gratuitamente…?”. Chiese tremante.
“Dovrai farmi solo un piccolo favore, poi torna qui che ti do il diffusore di musica e il supporto digitale”.
“Tutto ciò che vuoi”.
Lei gli spiegò tutto parlandogli all’orecchio, mentre gli tastava i testicoli e, di tanto in tanto, canticchiava quella ballata paradisiaca.

La donna dell’Impero si rilassò nella vasca ricolma di acqua e di principi nutritivi. Piccoli organismi bionici, invisibili senza un microscopio a scansione, le massaggiavano il corpo nudo in ogni più piccola cavità, risvegliando ogni suo nervo e muscolo.
Riparavano i danni alla cute, entravano nell’organismo uccidendo germi, e bloccando il processo di invecchiamento delle cellule.
Il bagno rigenerante era l’elisir di lunga vita. Grazie a quel procedimento quel corpo le durava ormai da trenta decadi e le sarebbe durato ancora una cinquantina d’anni, se nessuno le avesse sparato o se non le fossero venute malattie fulminanti.
In quel caso, a malincuore, avrebbe dovuto trasferire la sua coscienza in un altro corpo.
Era questo il grande segreto dell’Impero umano, che umano nel senso originale del termine none era più da secoli.
Si chiamava “travaso di coscienza” ed era, in definitiva, l’immortalità e l’eterna giovinezza. L’uomo che diventava Dio.
Se qualcuno avesse scoperto che c’erano riusciti sarebbe stata la fine. Gli esterni sarebbero piombati su di loro come locuste per carpire il segreto.
Solo mantenendo la razza pura, frutto di secoli di studi genetici era possibile il “travaso di coscienza”, ogni modifica al progetto sarebbe stata fatale.
Così diceva l’Imperatore.
Così sapevano i suoi sudditi. Egli, del resto, era sempre esistito, da quando l’Impero era stato fondato.
Per questo la donna che aveva detto di chiamarsi Cassandra aveva sedotto l’esterno, usando i potenti feromoni che aveva fatto aggiungere, decenni prima al suo già notevole corpo.
Potevano essere un’arma potente e il suo capo, nel palazzo della sagitta a Tellus aveva gradito l’idea.
Con quello scimmione dei Mondi Esterni era stata decisiva.

4
Den-zi-ar era un brutto pianeta dal cielo sempre rossastro. Molto vicino alla sua stella era caldo e umido. I Denniz erano biologicamente simili agli insetti umani ed erano organizzati come una federazione di famiglie che, in definitiva, funzionavano come un formicaio.
L’arena per il carstadera un’enorme gola tra le torri di duracciao di Hambata la capitale del pianeta e della Federazione Denniz.
Gli spalti brulicavano di esseri di tutte le razze e di tutti i pianeti. Questa marea di creature riempiva gli spalti, spingendo e urlando. Centinaia di agenti della guardia cittadina pattugliavano la zona, armati fino ai denti, con le caratteristiche uniformi cremisi che ne mettevano in risalto la pelle striata di giallo.
Kail sapeva che non avrebbe mai dato nell’occhio in mezzo a tutta quella folla di umani esterni, Denniz, Sentoriani e altre creature impossibili.
Il combattimento era riservato solo agli adulti e agli uomini, perché nella cultura Denniz era considerato troppo violento.
Il carstad era lo sport nazionale di quegli insetti. Ricordava le ancestrali lotte tra famiglie prima della Federazione. Era uno stupido combattimento senza regole che si teneva in una gabbia di vetracciaio, senza gravità e aria. I sei contendenti se le davano di santa ragione finché cinque di loro non cedevano, morendo o arrendendosi.
Tutto intorno la gente, impazzita, scommetteva tramite un microfono sui vari contendenti che, nudi ed armati armati di tutto punto facevano bella mostra di sé al centro della gabbia. Le quote delle scommesse venivano proiettate su altro maxischermo: il favorito era “Tigre d'Oro”. Kail, però, aveva scommesso sul più scarso, “Nero Spazio”. Faceva parte del suo articolato piano.

Nei mesi che erano passati dal suo incontro con Cassandra aveva a lungo riflettuto sulle implicazioni di ciò che stava per fare e sul fatto che fosse o meno giusto.
Non era uno sprovveduto e sapeva che accettare senza riflettere un incarico affidatogli da una donna dell’Impero su un pianeta morto e ammuffito non era molto prudente… soprattutto se l’incarico era l’omicidio di un importante scienziato della Corporazione Esterna, in visita a Den-zi-ar .
La politica galattica era molto complessa ma certamente quella morte non sarebbe passata inosservata.
Ogni volta che gli sorgevano dubbi, però, Kail veniva tranquillizzati dal paradisiaco suono della ballata che gli emergeva dalla memoria per pochi istanti, fermandosi alla prima strofa. Tutto durava pochi secondi e lui restava col desiderio di tornare ad ascoltarla e di poterlo fare per sempre ma non ci riusciva, nemmeno usando come base le versioni moderne che possedeva. Allora una voce nella sua testa diceva: “Fammi questo favore e l’avrai per sempre”. Subito apparivano quegli occhi incredibili che quasi lo perforavano.
Mentre la folla rombava intorno a lui, Kail ingoiò tre pastiglie di kark e si mosse.

Il suo obiettivo era seduto nella tribuna vip. Quando Kail era entrato gli avevano messo appositi sigilli magnetici alle armi che erano contenute nella sua protesi. Era una procedura standard nei Mondi Esterni, dove chiunque aveva addosso armi di ogni foggia e tipologia.
Non si erano, però, accorti che una delle sue protesi, la mano destra, era essa stessa un’arma. A una bioscansione sembrava una normale protesi biotec. In realtà nascondeva un modificatore sub-atomico piccolo ma micidiale, schermato da una serie di gingilli costosissimi.
Il cacciatore si fece strada senza difficoltà tra la folla che scommetteva e sottolineava con ululati e applausi i momenti topici dell’incontro. Si portò sino al bordo della gabbia, sporca di sangue.
Tigre d’oro stava vincendo. Aveva già sgozzato il “Guerriero senza volto” e si accingeva a fare lo stesso col “Ciclone umanoide”, che arrancava cercando di raggiungere il punto di resa, ferito in varie parti del corpo.
Kail attese che Tigre avesse sconfitto tutti gli avversari e che gli mancasse solo Nero Spazio, il più debole, quello che gli allibratori davano alle quote peggiori: come aveva supposto il campione aveva tenuto l’esordiente per ultimo, sottovalutandolo.

Era proprio quello che voleva il cacciatore di taglie. Accese il modificatore che agiva sulle particelle subatomiche di cui era composta la materia. La variazione era impercettibile ma poteva mandare in tilt apparecchiature e processori. Stranamente non funzionava con gli esseri viventi, salvo gli hellani.
Dopo pochi secondi esposizione, i controlli della gabbia saltarono, la gravità tornò e i due sfortunati gladiatori si sfracellarono al suolo in un turbinare di sangue. Non fu una fine eccessivamente dolorosa: la caduta aveva loro risparmiato il soffocamento.

La folla esplose di rabbia. Qualcosa non aveva funzionato e ora chi aveva scommesso sui due contendenti rimasti, non sapeva se avrebbe gioito o pianto: il pareggio non era contemplato dagli allibratori.
Tramite amici nel mondo dell’opposizione al governo denniz e della criminalità organizzata, Kail aveva poi messo in giro ad arte la voce che qualcuno avesse scommesso grosso su Nero Spazio e che tramasse qualcosa per farlo vincere.
Trecentomila tifosi urlanti, resi ciechi dall’alcol e dalle pesanti libagioni, impiegarono poco a credere che il guasto fosse pilotato.
TRUFFA! TRUFFA! si alzò dall'arena.
La marea umana iniziò ad ondeggiare, quasi danzando, poi il caos scoppiò come una bomba atomica: la gente attaccò il palco d'onore, la passerella crollò sotto i colpi della folla inferocita
I poliziotti, spaventati, spararono sulla gente e caos si sommò a caos. Uno degli schermi cadde sulla folla esplodendo. Il fuoco si propagò, attaccando tutte le strutture che circondavano l'arena, la folla iniziò a fuggire calpestando tutto e tutti.

Kail non aspettava altro. Approfittando della confusione si avvicinò alla tribuna vip e raggiunse lo scienziato della Corporazione.
Usò l’altra arma che era riuscito a far passare oltre i controlli dell’arena. Si trattata di uno dei reperti archeologici di Cassandra: un coltello a serramanico che lui aveva personalmente affiliato ma che le guardie non avevano riconosciuto come arma.
Tagliò la gola la gola del malcapitato meglio di una vibrolama.
Si dileguò tra la folla che sfasciava negozi, veicoli e cassonetti dei rifiuti.
La sommossa durò tredici ore e si allargò per tre quartieri della capitale Denniz. Opposizione politica, disobbedienti estremisti e criminalità organizzata cavalcarono i disordini. Alla fine ci furono trecento morti tra i rivoltosi e oltre quattrocento tra i poliziotti. Migliaia gli arrestati.
Solo quando fu sulla Ragazza di ferro, il cacciatore di taglie si accorse di aver perso il piccolo gingillo sentoriano con coi aveva occultato la lama atomica ai controlli.

5
Al sicuro sul suo potente incrociatore da guerra, la donna dell’Impero si rilassava nella vasca rigenerante.
Presto sarebbe stata a casa dai suoi figli e da suo marito. Le dispiaceva aver dovuto fare sesso con l’esterno ma ne era valsa la pena e, in fondo, era stato piacevole.
Avevano attirato Kail il pazzo su Earth, facendogli catturare un disgraziato che aveva inconsapevolmente fatto da esca. Lo avevano convinto a uccidere uno scienziato della Corporazione Esterna in visita nella capitale Denniz.
Kail era il miglior assassino prezzolato dei settori esterni ed aveva egregiamente portato a termine il compito: lo studioso, che un anno prima era riuscito a rubare una parte del segreto del “travaso di coscienza” in un laboratorio imperiale, era morto.
Stando alle informazioni della Sagitta, lo scienziato non era ancora riuscito a diffondere le informazioni e, quindi, si era portato il segreto nella tomba.
Il cacciatore di taglie, però, aveva fatto ancora meglio. Aveva lasciato una traccia sul luogo dell’omicidio.
La donna dell’Impero non sapeva se lo aveva fatto consapevolmente. Il risultato, però, è che Den-zi-ar aveva accusato i servizi segreti sentoriani di aver fomentato una rivolta e di aver ucciso lo scienziato che, per fortuna della Sagitta, era ricercato anche dai lucertoloni di Sentor per spionaggio.
La Corporazione Esterna, che pagava lo scienziato, aveva chiesto soddisfazione e, da due mesi, i tre contendenti erano in guerra.
Non solo il segreto dell’Impero era al sicuro nella tomba dello scienziato, quindi, ma tre dei suoi peggiori nemici si sarebbero scannati per un bel po’.
Tutto era andato a meraviglia. Era stata contenta di dare a Kail la sua canzone originale… e di avere con lui un altro bel rapporto sessuale, senza feromoni questa volta.
Era stato lavoro…ma molto piacevole e così l’esterno avrebbe fatto per lei tutto ciò che voleva anche in futuro.
Giusto o sbagliato è per l’Impero e quindi va fatto!

La Ragazza di ferro aleggiava in campo di steroidi. Chiuso nell’esosceletro da battaglia Kail il pazzo prese la mira.
Il Tizio con la taglia era un osso duro, ma se credeva di nascondersi dietro un asteroide aveva sbagliato di grosso. Il nuovo cannoncino antimateria che aveva acquistato vendendo i gingilli di Cassandra lo avrebbe incenerito anche dietro una luna di Proxima.
Ingoiò il kark.
Era riuscito dopo tanti tentativi a collegare l’antico diffusore di musica, tramite onde sub-luce, ai moderni emettitori di onde sonore del suo casco.
Mentre premeva il grilletto, incenerendo asteroidi in per tre Chilometri di diametro, Kail rideva, in estasi, mentre la versione originale della ballata dei metalli vibrava per tutto il suo essere:

So close, no matter how far,
couldn't be much more from the heart,
forever trusting who we are
and nothing else matters.

Never opened myself this way,
life is ours, we live it our way,
all these words I don't just say
and nothing else matters.

Trust, I seek and I find in you
every day for us something new,
open mind for a different view
and nothing else matters.

Never cared for what they do,
never cared for what they know,
but I know!

So close, no matter how far,
couldn't be much more from the heart,
forever trusting who we are
and nothing else matters.

Never cared for what they do,
never cared for what they know,
but I know!

I never opened myself this way,
life is ours, we live it our way,
all these words I don't just say
and nothing else matters.

Trust, I seek and I find in you
every day for us something new,
open mind for a different view
and nothing else matters.

Never cared for what the say,
never cared for games the play,
never cared for what they do,
never cared for what they know
and I know!

So close, no matter how far,
couldn't be much more from the heart,
forever trusting who we are
and nothing else matters.



Gli occhi di Cassandra erano dentro di lui e pulsavano nel suo essere come un cancro.

AUTORE - GABRIELE

17 novembre 2005

ChIaRiMenTo DoVuTo

Questo post è solo per chiarire che nessuno degli scrittori ha OFFESO il primo Anonimo giunto in questa terra nascosta che è XOMEGAP.

Pertanto invito L'anonimo a continuare tranquillamente a commentare con le sue SINOSSI i nostri racconti. Le critiche come le lusinghe, se costruttive son bene accette.

Rimane comunque inevitabile che anche altri possano esprimere i loro pensieri sia sui RACCONTI che sui COMMENTI.

Sta di fatto e ribadisco che gli Scrittori sono estranei a tutti i commenti fatti dagli Anonimi ;-)

Lancio un sorriso a chicchessia e porgo un inchino a vossignoria
Sempre vostro - Bookmaster :-)

30 ottobre 2005

EVASIONE

Quando aprì gli occhi, l’unico pensiero che prepotentemente si dilatò fino ad occupare tutta la sua mente intorpidita fu: “Ce l’ho fatta. Sono riuscito a fuggire”.
Stava piovendo. Un tiepido acquazzone primaverile. Era sdraiato per terra, sentiva l’erba fresca e bagnata sotto alle braccia e alle gambe nude, aperte e distese.
Era sdraiato e guardava il cielo pennellato di nubi grigie che riversava sul suo corpo quel dolce pianto.
Ed era finalmente libero. Sfuggito alla sua prigione.
Cominciò a ridere, muovendo gambe e braccia contro all’erba come fanno i bambini nella neve fresca.
La sua risata cristallina e colma di una felicità purissima e primitiva si mischiò per diversi minuti con lo scroscio del temporale.
Fuggito. Libero. Vivo.

Dopo aver trovato qualcosa con cui coprirsi, cominciò a gustarsi la sua nuova libertà.
Il vento si era alzato scacciando le nubi e ora un sole vigoroso faceva splendere ogni cosa nell’aria ripulita.
Mentre camminava, con passo lento, curioso, per non perdersi nulla di ciò che lo circondava, le sue mani sfioravano tutto quello che vedeva.
Passò le sue dita pallide sui petali roridi dei giovani fiori, gustandone l’impalpabile e serica morbidezza; sfiorò con la mano aperta i tronchi forti degli alberi, sentendo sotto alla pelle il flusso vitale che in essi scorreva.
Quanto lo aveva desiderato.
Troppo a lungo guardato da lontano. Troppo a lungo agognato. Fino a non averne quasi più memoria.
Ma ora era qui.
Il profumo dei fiori era talmente dolce da fargli girare la testa, quello della terra bagnata era l’odore familiare delle cose che amiamo.
I suoi passi lievi affondavano morbidamente nel terreno umido e colmo di potenziale vita. Anche le cose più semplici avevano un fascino meraviglioso. Perché non erano più lontane e irraggiungibili, ma vere e reali attorno a lui.

La strada lo portò fino al limitare di una città.
Cambiarono i colori e gli odori. Cambiarono i suoni e le sensazioni.
Le persone che gli scorrevano intorno erano così tante, e diverse, e così piene di vita e di sentimenti e di emozioni.
Rimase fermo per diversi minuti, lasciando che la corrente lo investisse, lasciandosi trasportare sull’onda delle voci e delle luci.
Qualcuno lo guardava incuriosito, doveva avere un’espressione strana, doveva apparire strano, con quei vestiti troppo grandi per lui, con i capelli spettinati, con lo sguardo sognante.
Quanto avrebbe voluto gridare a tutti che ce l’aveva fatta, che era riuscito a fuggire, che era finalmente qui, libero, rinato a nuova vita!
Ma doveva trattenersi e non dare troppo nell’occhio. Non era del tutto al sicuro; forse non lo sarebbe stato mai. E poi non era il caso di mettere in allarme quelle persone ignare.

Riprese a camminare mischiandosi alla folla.
I rumori delle auto e della folla crescevano mano a mano che si avvicinava al centro e dopo un po’ si accorse che le sue orecchie, non abituate a tanto frastuono, cominciavano a provare fastidio.
Si guardò intorno alla ricerca di un luogo dove fermarsi.
Un luogo dove avrebbe potuto continuare a godersi la sua esplorazione.
Vide da lontano una macchia verde fra i palazzi. Alberi: un parco; il rifugio ideale.
Ripensò alla morbidezza dei fiori e al profumo della terra e sorrise all’aspettativa di poterli riassaporare.
Nel parco non c’era molta gente. Il recente acquazzone aveva spinto le persone a trovare rifugio in luoghi chiusi.
Prese a camminare lungo i vialetti di ghiaia bianca, ascoltando con piacere il rumore dei ciottoli che si spostavano sotto ai suoi piedi. Di tanto in tanto una goccia d’acqua fredda sfuggita dalle foglie degli alberi lo colpiva sul viso, provocandogli un sottile brivido di piacere.
Le bianche ninfee galleggiavano placide sulla superficie di un laghetto appena increspata dalle ultime gocce di pioggia, le anatre si lisciavano le penne stringendosi tutte in cerchio attorno agli ultimi nati.
Non resistette alla tentazione e si avvicinò ad essi, prese fra le mani uno di quei piccoli esserini e affondò le dita nelle sue giovani piume lanuginose, accarezzandole con delicatezza.
Le altre anatre intanto zampettavano attorno alle sue gambe, sfiorandolo con i loro piccoli corpi caldi, con le loro zampette fredde e palmate.
Rimase così, ad occhi chiusi, godendo solo di quel piccolo calore pulsante fra le sue mani, chiuso in un silenzio estatico, finché qualcosa non lo indusse ad aprire gli occhi.
La sensazione di essere guardato; la sensazione della presenza di qualcuno vicino a lui.
Aprì gli occhi e si trovò a riflettersi in un paio di occhi scuri. Poté così vedere come doveva essere apparso a tutta quella gente, in città.
Guardò il suo riflesso: esaminò l’immagine di quel giovane biondo, con i capelli lunghi e del colore chiaro della luce del sole.
Guardò quel volto liscio e senza imperfezioni, le labbra morbide e ben disegnate, i denti candidi e perfetti dietro ad esse, il naso piccolo come quello di un giovinetto. E poi gli occhi, occhi azzurri come il cielo d’estate, ammorbiditi da ciglia vellutate.
Guardò la fronte liscia e le sopracciglia arcuate in un’espressione di innocente stupore.
Gli specchi scuri ebbero un fremito, provocato da un lieve sospiro, e quel movimento bastò affinché la sua attenzione si posasse sulla persona a cui appartenevano quegli occhi.
Guardò la piccola bocca da cui era sfuggito il sospiro. Davanti a lui c’era una ragazza.
Il viso, tutt’altro che perfetto, era però ingentilito dagli occhi grandi e scuri e dalla bocca piccola ma carnosa.
Capelli anch’essi scuri e leggermente ondulati le ricadevano sulle spalle incorniciandole il volto.
Lo stava fissando con un’espressione indescrivibile.
Lo stava ammirando.
Il respiro era spezzato dall’emozione di trovarlo lì, comparso dal nulla, circondato da animali schivi che non lo temevano. Bellissimo.
- Tu…? -
Aveva una voce sottile, quasi da bambina. Lui le sorrise, fissando il suo sguardo su quella bocca che pareva così morbida e innocente. Senza dire una parola sollevò una mano, continuando a tenere il pulcino con l’altra, e le accarezzò le labbra. Le sue dita indugiarono su quei petali socchiusi e poi proseguirono ad accarezzare la pelle morbida della guancia e del collo.
Era liscia e tiepida. Sotto la pelle del collo poteva sentire il suo sangue vivo e forte pulsare con un ritmo regolare e leggermente accelerato.
Lei non disse nulla. Continuando a fissarlo, perdendosi nella sua bellezza perfetta.
Lui allora si chinò leggermente su di lei e le posò le labbra sulla bocca ancora dischiusa.
Le sue labbra erano fresche e asciutte, perfette come seta. Dopo un primo momento di resistenza, la ragazza cedette e si abbandonò all’abbraccio.
Il respiro della ragazza era caldo, la sua lingua, dapprima timida, si lasciava accarezzare dalla sua curiosità.
Una goccia, poi un’altra, in breve il cielo, tornato grigio, riprese a piangere le sue tiepide lacrime.
I due continuarono a baciarsi mentre la pioggia inzuppava i loro capelli e i loro vestiti, apparentemente distaccati dal mondo intero, soli in un tempo solo loro.
Il pulcino prese ad agitarsi nel palmo della sua mano e, come se questo piccolo movimento avesse infranto l’incantesimo, lei si sciolse dal suo abbraccio allontanandosi leggermente, sempre avvinta però dalla bellezza di lui e dallo strano potere che emanava dal suo essere.
Dopo che ebbe posato a terra il piccolo anatroccolo lei lo prese per mano e lo invitò a seguirla. La pioggia continuava a cadere, qualche lampo lontano solcava il cielo sopra alle loro teste.
Lei sorrideva, correndo fra le pozzanghere, lui la seguiva, amando il tepore di quella piccola mano stretta nella sua, amando il suo sorriso e le sue emozioni pure.
Arrivarono ad una piccola costruzione di legno, sembrava un grosso capanno per gli attrezzi, lei armeggiò con il lucchetto e poi lo trascinò dentro, all’asciutto – Sono la figlia del custode del parco –
- La figlia del custode – ripeté lui in un soffio, sorridendo.
Il capanno odorava di legno e di polvere. C’era un tavolo nella stanza e diversi attrezzi ammucchiati lungo le pareti.
Lui si perse un istante, attirato da tutti quegli oggetti, passando le mani ancora umide sul quel vecchio metallo che sapeva di ruggine e di corruzione, sfiorando rastrelli e badili.
Un piccolo starnuto lo fece tornare subito da lei. Aveva i vestiti bagnati incollati addosso, i capelli gocciolanti. Stava tremando.
Sembrava ancora più giovane, così indifesa, con gli occhi scuri che sembravano ancora più grandi.
Le si avvicinò e la strinse a sé, era bello sentire il suo fiducioso abbandono, bellissimo provare la sensazione di proteggerla, anche se solo dal freddo.
Le passò le mani sui capelli, accarezzandola lentamente, assaporando il battito del suo cuore lento e regolare contro al petto. Lei tremava ancora, la sentì infilare le mani sotto alla sua giacca, alla ricerca del suo calore.
Lui la scostò leggermente e cominciarono a spogliarsi a vicenda. Lui la fissava, incuriosito dall’espressione con cui guardava il suo corpo perfetto, dalla delicatezza con cui accarezzava il suo petto glabro sotto alla camicia.
Lei era minuta e bella. La pelle abbronzata così in contrasto con la sua, quasi diafana.
Le mani di lei erano arrivate a slacciare i suoi pantaloni. Lui era troppo preso dalla sua osservazione e dalle sensazioni tattili che gli riempivano il cuore per accorgersene e quando i larghi calzoni scesero fino alle sue caviglie lui vide il respiro di lei mozzarsi e i suoi occhi dilatarsi.
Si guardò e subito capì.
- Tu… -
Capì che era finita nello stesso istante in cui lei arretrò. Un movimento piccolo, solo pochi centimetri lontana da lui. Ma quella era la distanza che separa la terra dal cielo.
- Non devi aver paura di me -
Lei scosse la testa in segno di diniego; no, non aveva paura, era solo… stupefatta.
Lui si tolse la giacca e la camicia e dietro alle sue spalle si allargarono due grandi ali bianche, le piume candide come gigli che arrivavano ad accarezzargli le cosce muscolose e lisce.
- Ma come…? – lei continuava a fissarlo, quel corpo asessuato e perfetto, quelle ali bianchissime di luce, quel volto dolcissimo e umano.
- Perché sei qui? -
Gli occhi azzurri si velarono di tristezza, le parve quasi di intravedere una piccola lacrima in quelle schegge di cielo.
- Perché volevo… sentire… -
- Sentire? -
L’angelo si sedette a terra, sui vestiti sparsi, le ali richiuse attorno alle spalle in una sorta di abbraccio, le belle mani in grembo, lo sguardo quasi supplichevole rivolto alla ragazza.
Lei si strinse addosso i vestiti ancora bagnati e si sedette di fronte a lui.
Quel viso così bello era così triste e tutto in lui trasmetteva una tristezza così grande che si sentì stringere il cuore e allungò le mani fino a posarle sulle sue.
- Sei… fuggito…? -
Lui annuì, continuando a fissarla.
- Fuggito dal… paradiso…? -
Di nuovo un cenno affermativo.
Alla fine l’angelo sospirò – Fummo noi ad aiutarLo quando creò questo vostro mondo. Fu meraviglioso modellare tutte le diversità e i colori, i materiali, gli odori –
- Poi veniste voi, ma alla vostra creazione non potemmo partecipare. Potevamo solo rimanere lontani ed osservarvi. Nient’altro ci fu concesso -
- L’amore che riversò su di voi ci spinse ad amarvi a nostra volta. E a seguirvi, a guardarvi. Ma sempre da lontano. Nessuna interferenza fra il vostro mondo e il nostro-
- Il nostro è un mondo di spirito, anima e intelletto. A voi soli è stato concesso il dono della corporeità, delle sensazioni tattili, del calore trasmesso fra un corpo e l’altro, il dono dei sensi… e io… volevo solo, per una volta… provare tutto questo -
Lei gli strinse le mani, in un moto di affetto verso quella creatura così dolce che per un’innocente curiosità si era forse guadagnato un posto da reietto in un mondo non suo.
- Cosa succederà ora? -
- Non lo so. Non so se potrò tornare. Però ne è valsa la pena. Non essere triste per me-
In silenzio rimasero a sedere così, uno di fronte all’altra, mentre la pioggia continuava a tamburellare sulle assi del capanno, semplicemente guardandosi, riempiendosi l’anima uno dell’immagine e del calore dell’altra.
Poi la pioggia cessò. Udirono dei passi fermarsi fuori dal capanno.
L’angelo si alzò in piedi e lei lo seguì, un po’ timorosa, entrambi fissavano la porta chiusa.
Due piccoli tocchi sul legno bagnato. Un lieve cigolio dei vecchi cardini.
Quando la porta si aprì, la ragazza si trovò davanti ad una copia quasi esatta dell’angelo che le stava accanto ancora stringendole la mano. Come in una sorta di strano gioco di specchi che non riflettesse la sua immagine.
- Gabriel – l’angelo accanto a lei salutò il nuovo venuto.
- Nathaniel – rispose questi, radioso di una luce che sembrava emanare dai suoi occhi, dai suoi capelli dorati, dalla sua stessa pelle.
La ragazza faceva scorrere lo sguardo dall’uno all’altro, mentre i due continuavano a fissarsi in silenzio. Sapeva che stavano comunicando fra loro in un modo a lei precluso, ma era comunque ipnotizzata dalla loro sola presenza e non riusciva a staccarsi da quella scena irreale.
Alla fine Nathaniel si voltò di nuovo verso di lei, prendendole entrambe le mani fra le sue – Devo tornare ora –
- Ti hanno perdonato? -
Lui annuì sorridendo e quel sorriso le scaldò talmente tanto il cuore che d’istinto gli gettò le braccia al collo stringendolo a sé.
- Addio piccola figlia del custode, grazie di tutto -
Nathaniel si avvicinò a Gabriel ed entrambi sparirono in un alone di luce, lasciandola sola, nel capanno, con il temporale che si allontanava nel cielo.

AUTORE - SARA

DIECI GIORNI AL BARBACANE

Il giorno in cui mi mandarono al barbacane non ero mai uscito dalla Città del Crepuscolo. Fu un ufficiale di complemento a condurmi alla costruzione che si trovava pochi passi fuori dalle mura. Mi disse: -Domani le porte della città verranno aperte. Comincerà ad arrivare gente, il suo compito è contarli.-
-Perché?- chiesi.
-Per sapere quando saranno arrivati tutti.- rispose.
Guardai verso la pianura che si stendeva deserta e a perdita d’occhio, mi sembrava impossibile che da lì potesse mai giungere qualcuno.
Il secondo giorno cominciarono ad arrivare. Erano mendicanti e straccioni di molte razze diverse. Camminarono attraverso le fauci spalancate della città col loro passo lento e cadenzato, senza mai fermarsi o voltarsi. Alla sera l’ufficiale apparve ad una feritoia e mi chiese quanti ne fossero giunti.
Io aprii il grande libro in cui avevo annotato ogni arrivo. Ne erano giunti 87.
–Domani riprenda il conteggio da dove l’ha lasciato.- mi ingiunse.
Il terzo giorno erano molti di più. Qualcuno ben vestito, altri selvaggi. Ognuno sembrava viaggiare solo, nessuno curarsi degli altri. Ne contai 1110. Attesi il millecentoundicesimo fino a notte inoltrata, ma non venne. Arrivavano solo di giorno.
La notte vegliai nel barbacane chiedendomi quale fosse il significato di tutto ciò, senza essere in grado di darmi una risposta. Osservai a lungo le mura della città alla luce della luna. Erano così alte che sembravano sparire nelle nuvole.
Il quarto giorno giunsero come una marea. Uomini di ogni rango, razza ed epoca. Ittiti ed astronauti. A fine giornata si era creata una specie di strada a causa dello strascichio dei loro piedi. Mi chiedevo da dove venissero, non sembrava esserci un luogo abbastanza vicino da essere ragguingibile a piedi. Vedevo apparire i primi all’alba lontano. Gli ultimi varcavano la soglia della città quando il sole scompariva all’orizzonte tra la bruma.
Il quinto e il sesto giorno la marea continuò ininterrotta. Dalla mattina alla sera, ad ogni istante intravano in città a tre dozzine alla volta. Ogni minimo granello della mia concentrazione era assorbito dal conteggio. All’inizio, non sapendo cosa mi aspettasse, segnavo sul libro mastro ogni singolo arrivo, ora li appuntavo a centinaia per volta. Ogni sera, dopo l’ultimo raggio di sole, l’ufficiale mi chiedeva rapporto. Io snoccilavo le mie cifre da perfetto contabile.
Il settimo giorno mi fu chiaro che la marea aveva smesso di montare ed era cominciata la risacca. L’ottavo giorno non ne giunsero nemmeno duemila.
Eravamo a 10 miliardi 452 milioni 798 mila 114.
-Ci siamo quasi.- disse l’ufficiale controllando su un registro.
Il nono giorno giunsero 129 anime. Quasi tutte al mattino, nessuna nelle utilme tre ore prima del tramonto.
-10 miliardi 452 milioni 798 mila 243.- lessi la sera all’ufficiale.
-Ne manca uno.- disse lui.
Il decimo giorno che passai al barbacane il sole non sorse. Già per questo mi parve ovvio che non sarebbe venuto nessuno. Molte ore dopo, un tempo che in quella notte perenne mi parve infinitamente lungo, mi fu chiesto di dar conto per l’ultima volta.
Io ripetei il medesimo numero del giorno precedente.
-Ne manca ancora uno.- commentò l’ufficiale con arguzia –Ci deve essere stato un errore nel suo calcolo.-
-Ne dubito.- risposi con voce gutturale.
-E’ per forza così. Devo dare ordine di chiudere il portone.-
Così fece. Dentro la Città del Crepuscolo si accesero le fiamme infernali. Ora mi era tutto chiaro. Il mondo era finito e l’eterno supplizio del’umanità cominciato. A nulla valeva, per gli inflessibili burocrati dell’inferno, che al conteggio delle anime una ne mancasse all’appello. Un errore. Doveva esserci stato un errore nel conteggio. Come se un’anima potesse evaporare perdendosi nel nulla o ancora più assurdamente passare sotto i miei occhi inosservata.
No, non c’era alcun errore. Banalmente, e all’apice della loro stupidità, avevano lasciato fuori me.
Uscii dal barbacane e mi soffermai a guardare il cielo privo di astri.
Poi dispiegai le mie ali membranose e balzai nel cielo ad ammirare il silenzio supremo del mondo ormai vuoto.

AUTORE - MAX

02 ottobre 2005

LA LUNGA NOTTE

PRESENTATO A UN CONCORSO LETTERARIO

AUTORE - GABRIELE

29 settembre 2005

WHISKY CON GHIACCIO

- Cos’hai sognato la notte scorsa?-
Ecco. Dopo il segno zodiacale e il colore preferito, la bionda se n’era finalmente uscita con una domanda minimamente non scontata.
Peccato per la risposta che doveva dare.
- Non so. Io non sogno –
I suoi già grandi occhi azzurri divennero d’un tratto ancora più grandi. Le ciglia all’insù sembravano quelle di Minnie.
Ancora tre secondi di fiato sospeso… meno due… meno uno…
- Ma è impossibile!! Tutti sognano!!! –
Jack fissò con sguardo sconsolato il bicchiere posato sul tavolo davanti a lui.
Il suo omonimo “on the rocks” rifletteva i suoi pensieri sulla tristezza del mondo. Il ghiaccio si stava sciogliendo.
Non aveva più voglia di sentire quella storia raccontata dalla sua voce piatta.
Non aveva più voglia di sentire consigli su medici, santoni e rimedi miracolosi.
Non era malato. Era così e basta.
E stava bene così.
- Ho sognato di abbattere l’Empire State Building con una sega elettrica. Buonanotte bella –
Senza aspettare che la bionda riprendesse fiato Jack si alzò dal tavolino e si diresse verso il bancone del bar alla ricerca della consolante compagnia del barman.
Sicuramente si sarebbe stizzita.
Le bionde non posso concepire di essere mollate.
Ma lui perdeva in fretta la pazienza con le belle vaporose con grandi tette e minuscoli pensieri.
Con una lunga sorsata vuotò il bicchiere. Gli piaceva sgranocchiare i ghiaccioli mezzi sciolti. Molta gente rabbrividiva al vederglielo fare. Per via dei denti sensibili, sapete.
Ma lui aveva denti sani. Era tutto sano, sano come un pesce. E non sognava.
- Un altro, Bob –
Era bello andare sempre nello stesso pub.
Perché bastava alzare il bicchiere vuoto perché il barista sapesse già cosa volevi. Sai la figata di poter dire “Il solito, Bob” come nei film?
Un sorriso ghignante si allungò sul lato della sua bocca.
Ed ecco qui un altro Jack, come lui. Un Jack che un’altra donna aveva appena maledetto dall’alto dei sui tacchi.

-Ehi, Jack, sveglia. Stiamo chiudendo –
Una voce che non aveva mai sentito. Però chiamava lui. Lentamente, molto lentamente, la consapevolezza di dov’era tornò in lui, come se la sua anima se ne fosse andata a fare un giro e ora si stesse lentamente infilando di nuovo nei suoi vecchi panni mortali.
La sentì prendere possesso di nuovo delle mani, una delle quali era ancora stretta attorno al bicchiere; dei piedi, formicolanti a causa del prolungato ciondolare dallo sgabello; della faccia, il freddo bancone gli si era appiccicato ad una guancia.
Miodio, come s’era ridotto.
Con un enorme sforzo di volontà, dopo aver contato fino a tre e fatto un altro veloce check-up di tutti gli arti, Jack aprì un occhio e raccolse le forze nel braccio sinistro per sollevarsi.
Riconquistata la posizione eretta, la sua testa lo ringraziò con un’ondata di nausea. Ma era pronto, ormai sapeva come gestirle. Occhi chiusi e pochi, piccoli, respiri, veloci.
Passata.
Tornò ad aprire gli occhi e si trovò a specchiarsi in un paio di bellissimi - unico aggettivo possibile, davvero - bellissimi, occhi verdi. Truccati con cura, matita e mascara, con un taglio leggermente a mandorla, accentuato dall’eye-liner.
- Bellissimi –
- I tuoi sogni? Non ne dubito Jack, però io devo chiudere e Bob mi ammazza se domani mattina ti trova qui, quindi adesso alzati e vai a casa –
Capelli neri, tagliati corti, dritti e lucidi, spettinati, alla moda delle nuove guerriere metropolitane.
Mani sottili, senza gioielli, veloci e precise, a riordinare il bancone, a chiudere la cassa.
Voce un po’ roca, da fumatrice.
- Io non ti conosco –
- Sono qui da poco, tutti mi chiamano Kay, adesso vattene –
- Ma tu sai il mio nome… -
Lei si fermò un attimo, di nuovo quei gioielli verdi puntati su di lui – Ti ho chiamato Jack solo perché stasera te ne sei fumato quasi una bottiglia intera. Davvero ti chiami Jack? –
Lui annuì.
- Benissimo, adesso che ci conosciamo te ne puoi anche andare –
Inutile insistere.
Ripreso ormai completamente il controllo dell’intero corpo Jack si alzò e si diresse con passo pesante verso l’uscita.
Un’ultima occhiata a lei prima di andarsene. Troppo indaffarata a riordinare per preoccuparsi di lui.
Fuori l’aria era elettrica, asciutta e tiepida, il cielo di uno strano color arancio, come prima di un uragano.
Taxi.

La radio si accese diffondendo nell’aria della piccola stanza la voce del giornalista che snocciolava le notizie del mattino. Dalla guerra in oriente alle previsioni del tempo. Solo brutte notizie. Dalla guerra al tempo.
Jack aprì gli occhi e si tirò a sedere sul letto. La testa faceva male. Quel tipo di male che avvolgeva la fronte e le tempie con un anello di purissimo dolore nauseante.
Ma perché diavolo si era ubriacato la sera prima? Che bisogno c’era?
Camicia scarpe caffè. Pronto per l’ufficio.
Occhiali scuri. La luce diffusa nel cielo bianco platino gli feriva gli occhi e peggiorava la sua emicrania.
Stessa strada come ogni mattina: giornale; saluto a Chuck che chiedeva l’elemosina all’angolo; strizzata d’occhio a Linda che si affacciava per salutarlo dalla porta del bar. In pochi minuti di solito riusciva ad arrivare in ufficio.
- Jack Green! –
Davanti a lui si parò una donna anziana, capelli raccolti e occhiali a mezzaluna. La riconobbe subito.
- Professoressa Stone! –
Margareth Meredith Stone. Esimia professoressa di latino e lettere antiche al suo college. Terrore di tutti gli studenti che avevano la sventura di capitare sui banchi del suo terribile corso.
- Non creda di farla franca Sig. Green! Domani l’aspetta l’esame finale! –
L’esame finale? – Ma… ma professoressa, io mi sono già laureato –
La donna gli rivolse uno sguardo minacciosamente brillante da sopra le lenti – No, Sig. Green, lei ha abbandonato il mio corso in quanto incapace di portarlo a termine e io, dopo anni di ricorso, sono finalmente riuscita ad ottenere l’annullamento del suo titolo. Solo superando l’esame di domani potrà renderlo di nuovo valido –
La donna continuò a guardarlo, dal basso, con quello sguardo malignamente trionfante da sopra quelle piccole lenti.
Rimase a fissarlo mentre lui la guardava inebetito.
- Domani mattina alle nove, Sig. Green. Si degni di essere puntuale –
Detto questo la donna se ne andò per la sua strada, lasciandolo lì, solo, ancora senza parole.
La sua laurea… non valida? Ma come, ma perché, ma soprattutto, com’era possibile una cosa del genere?
Si voltò di scatto per chiedere spiegazioni alla vecchia professoressa ma quella era già sparita fra la gente. Doveva sapere dove, cosa, come, doveva chiedere, sapere perché non era mai stato informato di quel ricorso, dell’esame che doveva ancora sostenere, dannazione, il giorno dopo, come diavolo faceva a preparare un esame come quello, dopo cinque anni che non leggeva una parola di latino?
In ufficio. Appena arrivato in ufficio avrebbe chiamato l’università e chiarito quello spiacevole malinteso. Sicuramente la professoressa con gli anni aveva perso un po’ la ragione e questo era di certo il risultato della sua malattia, non potevano permetterle, insomma, i suoi risultati erano stati sempre eccellenti.
Riprese la strada verso l’ufficio, ormai vicino, il suo respiro era affannoso, l’ansia che tornava; maledizione, dopo tutti quegli anni trascorsi a curarla, l’ansia prima degli esami, l’ansia che lo attanagliava quando qualcosa non andava per il verso giusto, era tornata ad affondare gli artigli nel suo stomaco.
Non poteva farsi venire un attacco di panico. Adesso sarebbe andato in ufficio e avrebbe telefonato e tutto si sarebbe chiarito.
Tirò un lungo respiro ed entrò attraverso le grandi porte automatiche del grattacielo.
Non lavorava qui da molto, sapeva che in questa enorme struttura avevano sede diverse imprese, studi legali, uffici, ma fin’ora lui aveva esplorato solo il ventiquattresimo piano. Il suo.
Si affrettò all’ascensore, lo stomaco ancora contratto al pensiero di quel dannato incontro che gli aveva rovinato la giornata.
L’ascensore era vuoto, si infilò fra le porte ricoperte di pannelli di radica e premette il pulsante 24.
I numeri rossi del display che si susseguivano in modo così preciso avevano sempre esercitato uno strano fascino ipnotico su di lui, fin da bambino. Adesso che era adulto non scandiva più a voce alta i numeri alla loro comparsa, ma, mentre saliva, si rese conto che comunque la sua mente continuava a seguirli.
Cinque, sei, sette, otto.
La tensione cominciava piano piano a scemare, ora, lì, dentro quel piccolo spazio accogliente di numeri e specchi e luce ovattata, sentiva crescere dentro di sé la certezza che il problema si sarebbe risolto presto e nel migliore dei modi.
Un sospiro gli sfuggì dalle labbra mentre si appoggiava più comodamente con la schiena al pannello di legno.
Undici. Dodici. Tredici.
I numeri del display stavano per cambiare di nuovo quando un rumore sordo riempì il piccolo abitacolo. Il contraccolpo lo fece finire per terra. Le luci si spensero e rimase accesa solo quella del piccolo neon di sicurezza.
Ma che diavolo?
Un black-out. Ci mancava solo quello.
Fortunatamente non soffriva di claustrofobia, con calma si rialzò in piedi, attese qualche minuto il ritorno della luce e poi, visto che non succedeva nulla, appoggiò l’orecchio alle porte dell’ascensore per sentire se dall’altra parte c’era qualcuno che potesse spiegargli cos’era successo.
Nulla. O la cabina era completamente insonorizzata o là fuori non c’era nessuno.
Insofferente dell’oziosa attesa si mise a trafficare con le porte per tentare di aprirle e, dopo aver rischiato almeno un’ernia e un infarto, finalmente le maledette cedettero.
Era a metà di un piano, ma fortunatamente c’era sufficiente spazio per uscire.
Finalmente di nuovo libero, in piedi, Jack si ritrovò solo, su un piano all’apparenza deserto. La luce pallida del giorno rischiarava il lungo corridoio e le innumerevoli stanze che si aprivano su di esso.
Ma possibile che non ci fosse nessuno?
Che avessero fatto evacuare l’edificio?
Guardò fuori da una finestra: no, davanti all’ingresso del palazzo il traffico di auto e pedoni scorreva normalmente, come lo aveva lasciato solo pochi minuti fa.
Forse era solo questo piano ad essere deserto, magari in attesa di essere ristrutturato, o affittato.
Cominciò a salire le scale, ma ben presto si rese conto che c’era qualcosa che non tornava. Il quattordicesimo piano e il quindicesimo erano deserti e continuando a salire nessun rumore giungeva alle sue orecchie.
Jack si fermò persino a pensare che non fosse per caso domenica. No, era sicuro che fosse lunedì.
Cominciò a salire le scale più in fretta, saltando i gradini due a due, con un peso sempre più ingombrante che piano piano saliva ad invadergli il petto e lo stomaco.
Tranquillo Jack, tranquillo.
Ma era inutile cercare di rilassarsi. Tutti i piani erano deserti.
Arrivato al ventiquattresimo non poteva più continuare a mentire a se stesso. C’era decisamente qualcosa che non andava.
Anche gli uffici della sua redazione erano deserti.
D’istinto cercò la sua scrivania e prese il telefono in mano, ma la linea era assente e la cornetta tornò tristemente al suo posto.
Basta. Me ne torno a casa. Questo stupido scherzo mi ha già stancato.
Domani i capi mi dovranno delle belle spiegazioni.
Jack stava per riavviarsi verso le scale quando colse un movimento. Fugace, solo con la coda dell’occhio, alla svolta del corridoio – C’è qualcuno? –
Corse fino alla svolta e di là lo vide di nuovo, appena prima che svoltasse in un altro corridoio, un’ombra – Ehi! –
La sua voce aveva un suono strano in quegli ambienti vuoti e insonorizzati, come se quelle sottili pareti di cartongesso fossero capaci di risucchiarla e di farla sparire.
Il silenzio arrivava troppo presto.
Jack si rimise a correre, vide l’ombra infilarsi giù dalle scale e poi correre attraverso corridoi, svoltare in uffici, risalire le scale.
Ma per quanto si sforzasse non riusciva a raggiungerla. A vederla, a farsi sentire da lei.
Alla fine, con i polmoni che gli bruciavano, pieni di quell’aria finta dal sapore di plastica e dall’odore dei mobili di formica, decise di arrendersi.
Al diavolo.
Cercò di nuovo le scale e prese a scendere. Lentamente, poggiandosi al corrimano. Stanco e sudato per la corsa.
Dopo due rampe di scale lo sentì. Sentì un fruscio alle sue spalle e sentì uno sguardo puntato alla base della nuca.
Al diavolo.
Continuò a scendere lentamente le scale, regolarizzando il respiro, scalino dopo scalino.
Ma l’ombra era ancora lì. E ora non la sentiva solo dietro di sé. Sembrava che quella cosa si fosse moltiplicata. E che lo stesse accerchiando.
Jack non riuscì a trattenere un brivido freddo.
Maledetto.
Si voltò di scatto e un grido di frustrazione gli eruppe dalla gola – Vieni fuori! –
Nulla. Nessuno. Niente.
Jack riprese a scendere le scale, ma ora il suo passo era più veloce. Le ombre tornarono a muoversi e ad inseguirlo. Lui cominciò a correre, improvvisamente trasformato da cacciatore a preda, incapace di ragionare, incapace ormai di fermarsi a riflettere.
La sentiva, l’ombra di nuovo tornata unica, quella cosa senza nome dietro di lui, che lo inseguiva e gli dava la caccia.
Le scale sotto ai suoi piedi sembravano non finire mai, Jack ormai saltava da un gradino all’altro senza vedere più nulla, non sapeva a che piano era, non sapeva quanto mancava all’uscita, apriva porte e scendeva scale e basta, con il cervello pieno solo di orrore e vuoto.
All’improvviso si accorse che la luce era diminuita, un’occhiata fugace alle pareti per accorgersi che non c’erano più finestre, era finito nel seminterrato, ma non poteva voltarsi per tornare indietro, perché quella cosa era là, là dietro.
I garages! Nel seminterrato c’erano i parcheggi coperti e anche da lì poteva uscire. Ancora di corsa, ancora aggrappato al corrimano di ferro, un’ultima porta tagliafuoco, pesante e blindata, ma non sarebbe riuscita a fermare quella cosa, Jack lo sapeva.
Nel parcheggio la luce del giorno non arrivava, le luci di emergenza erano fiochi neon dall’inquietante sfumatura verde, ma Jack non poteva fermarsi.
Inciampò più volte, ma le sue gambe si rifiutavano di fermarsi. Il cuore batteva talmente forte da fargli male, il respiro talmente affannoso da essere strozzato, ma il demone panico aveva preso definitivamente possesso del suo essere e lo avrebbe fatto correre fino alla morte.
Finalmente, ormai con la vista annebbiata, Jack scorse una luce e prese a seguirla disperatamente per riuscire ad uscire da quell’incubo color pece.
Finalmente le sue orecchie riuscirono a cogliere il rumore proveniente dalla strada, e questo significava movimento, e quindi vita, salvezza.
Con un ultimo scatto Jack divorò gli ultimi metri che lo separavano dall’uscita e si lanciò gridando come un pazzo fuori dal parcheggio, sfinito, stravolto, in mezzo alle persone che camminavano sul largo marciapiede e che si scostavano da lui impaurite e disgustate.
Jack crollò a sedere per terra. Incapace di muovere un solo altro passo, in mezzo alla folla, finalmente al sicuro in mezzo a quella massa grigia e altera e indifferente ma viva e così maledettamente umana.
Nessuna ombra uscì dal parcheggio dietro di lui. L’aveva seminata. Il suo inconscio sapeva che non l’avrebbe seguito in mezzo alla gente. Era salvo.
Rimase così, seduto a terra, con un sorriso forzato da ebete stampato in faccia per moltissimo tempo. Ma lui non se ne poteva rendere conto. Il suo corpo stava cercando di riprendersi dallo sforzo, Jack sentiva le orecchie chiuse e ronzanti, la vista era ancora in parte annebbiata e il cervello si rifiutava di comporre anche un solo semplice pensiero.
Riusciva solo a rimanere lì. Fermo.
Poi lentamente la lucidità tornò, i suoi sensi tornarono ad inviare segnali comprensibili al cervello e Jack si alzò in piedi.
Lanciò uno sguardo all’ingresso impassibile e normale del grattacielo da cui era appena fuggito e decise che non vi avrebbe rimesso piede. Non quel giorno.
Si accorse di avere fame.
Da Bob avrebbe trovato il cibo e la tranquillità di cui aveva un disperato bisogno.
Taxi.

Al bancone non c’era Bob, ma di nuovo lei, Kay, la ragazza dai bellissimi occhi verdi.
- Come mai qui a quest’ora? Non ce l’hai un lavoro? –
Era brusca come la sera prima, evidentemente non gli stava proprio simpatico.
- Ho avuto una brutta mattinata, mi porteresti un hamburger e una coca? –
In pochi minuti Kay lo servì. Mentre gli appoggiava il piatto e il bicchiere davanti al naso gli rivolse un’occhiata e commentò con voce leggermente addolcita – Dev’essere stata brutta sul serio… hai una faccia… -
Jack cominciò a mangiare e contemporaneamente prese a raccontarle tutto, da quando si era alzato quella mattina fino alla fuga dal grattacielo.
Lei lo ascoltava fissandolo negli occhi.
Jack le parlò dell’incontro con la professoressa, dell’ansia, dell’ascensore, dell’ombra e mentre parlava vedeva tutte quelle immagini e quelle sensazioni scorrergli di nuovo davanti, mentre la sua memoria si sforzava di non perdere neppure un particolare e di inseguire ogni sfumatura.
Alla fine del racconto e del pranzo si sentiva stranamente e incredibilmente bene.
Gli sfuggì un lungo sospiro di sollievo.
- Allora? –
Kay lo fissava ancora, appoggiata al lavandino del bar, a braccia conserte.
- Allora cosa? –
- Com’è stato? –
Jack era confuso – Com’è stato? Terribile, angosciante, assurdo… -
- E ora? –
- Ora? Dopo che te l’ho raccontato intendi? Beh… è stato, liberatorio… -
- Tu lo sai che se continuerai ad ignorarli loro torneranno vero? –
Jack rimase interdetto, di nuovo quel brivido freddo gli attraversò la schiena – Loro…? –
Kay si fece avanti, verso di lui, appoggiando le mani al bancone, fissandolo negli occhi – Si, loro. Noi. Non puoi continuare ad ignorarci. Meritiamo un posto nella tua memoria, meritiamo di essere raccontati, espressi in parole. Ce lo devi –
- Ma di che diavolo…? –
- I tuoi sogni Jack! Non è vero che tu non sogni! Tu semplicemente non vuoi sognare, non ti interessa, ci cancelli nell’esatto istante in cui ti svegli e lo fai per pigrizia! –
- Ma… -
- Niente ma Jack, questo è un ultimatum, se continuerai ad ignorarci noi invaderemo la tua realtà. A te la scelta –

Una voce.
Una voce che chiamava il suo nome.
Gli occhi verdi di Kay.
- Jack! Sveglia! Devo chiudere! –
La voce di Bob. La sua mano ancora chiusa attorno al bicchiere, i piedi ciondolanti e formicolanti, la guancia appiccicata al bancone.
Aprire gli occhi, ricacciare la nausea.
- Dov’è? –
- Chi? La bionda? Quella se n’è andata lasciandoti il conto da pagare. Che le hai detto per farla arrabbiare così? –
- No… no, dov’è la barista, Kay… -
Bob gli si avvicinò scuotendo la testa – Non c’è nessuna barista qui oltre a me, lo sai che non posso permettermi un aiuto. Te la sarai sognata, vattene a casa Jack, è tardi –
A casa. Si. A dormire.
A casa.
A sognare.

AUTORE - SARA

20 settembre 2005

REGALO DI COMPLEANNO

IN FASE DI PUBBLICAZIONE CARTACEA

A PRESTO IL LINK DELL'ANTOLOGIA IN CUI POTRETE TROVARLO




AUTORE - MAX

19 agosto 2005

GILGAMESH

Ogni parte del suo essere era colma di terrore.
Il cuore palpitava impazzito. I suoi occhi indagatori si muovevano in modo frenetico cercando, nel buio opprimente che lo avvolgeva, qualcosa di famigliare su cui poter far convergere la propria insicurezza ed esorcizzare quella tremenda visione.
Luce; aveva bisogno di luce.
La desiderava e questo bastò a far si che nel centro della stanza si concentrasse un piccolo globo luminoso che, sprigionando una pura ma intensa luce, eliminò ogni traccia di oscurità.
Gilgamesh non comprendeva. Tutto appariva alla sua mente molto confuso.
L’incubo della sua infanzia era tornato a tormentare le sue notti.
Perché proprio ora?
Che fosse connesso agli strani avvenimenti su cui era stato chiamato a indagare?
Far supposizioni era inutile. La soluzione si sarebbe presentata solo riesaminando, in modo analitico, le informazioni ricavate fino a quel momento.

Al suo arrivo in compagnia di Eladrin, una giovane menestrello, tutto sembrava svolgersi nella più assoluta normalità. Alcuni abitanti del feudo, caricati dei loro attrezzi da lavoro e di qualche provvista, si recavano nei campi per rimanervi fino a poco prima del tramonto. Le botteghe, che si ergevano intorno alla Chiesa, erano nel pieno delle loro attività produttive. Le donne, intente a parlottare fra di loro, procedevano serene verso la zona dei laboratori, nella quale agli uomini era vietato l’accesso.
Nei volti della gente però si intravedeva qualcosa di anomalo; una paura che incombeva sulle loro piccole menti e alla quale non riuscivano a dare una spiegazione plausibile. Anomalia questa rafforzata dal fatto che, per il feudo, si aggiravano parecchi monaci, tutti indaffarati nella cerca di chissà quale nemico.
Giunti dal borgomastro, un uomo ormai non più nel fiore degli anni ma dallo spirito ancora molto forte, i due vennero accolti con tutti gli onori dovuti a degli ospiti del loro retaggio. L’uomo assegnò loro due piccole stanze all’interno della sua abitazione e li invitò alla sua mensa per il pasto serale. Fu proprio in quell’occasione che Gilgamesh e la sua compagna vennero a conoscenza del motivo per cui erano stati mandati a indagare in quel villaggio sperduto fra i monti.
Ma procediamo per gradi.
Visto che i due avevano a disposizione tutto il pomeriggio decisero di mettersi subito al lavoro raccogliendo alcune indiscrezione dagli abitanti. Gilgamesh parlò con gli artigiani mentre Eladrin interrogò le donne nella zona dei laboratori. Quando, prima della cena, si scambiarono le informazioni ottenute si accorsero che molte di esse erano simili. Nel complesso si potevano riassumere tutti gli eventi, avvenuti fino a quel momento, attraverso un paio di fatti piuttosto macabri; il concepimento di esseri umanoidi deformi e una serie di morti inspiegabili e particolarmente violente.
Ma fu la cena, come avevo già anticipato, ad essere veramente rivelatoria.
Tutti i commensali erano seduti ad una grande tavola rettangolare di quercia.
Ai due capi della tavola sedevano Gilgamesh e il padrone di casa mentre ai lati invece, dove erano state predisposte due sedie per parte, stavano le tre giovani figlie del nostro ospite e la delicata Eladrin che, come d’abitudine, non si presentava mai ad un banchetto senza essere accompagnata dalla sua fedele e adorata lira.
La tavola, riccamente imbandita, era stata preparata con scrupolosa attenzione. Grandi vassoi di peltro mettevano in bella mostra svariati tipi di cacciagione cucinata nei modi più disparati. L’odore delle spezie e del pane caldo riempiva l’aria.
I bicchieri erano già stati riempiti con un forte vino dal dolce profumo e dall’intenso color carminio. Semplici candelabri di ferro battuto illuminavano la modesta sala.
Le danzanti fiamme delle candele davano a quel luogo un aspetto misterioso che si andò ad accentura durante la serata.
La cena procedette in piena serenità, tra un bicchiere di vino e un cosciotto di cinghiale alle erbe, fino a quando Gilgamesh non decise che era venuto il momento di chiarire ciò che aveva scoperto quel pomeriggio. Non appena il mago entrò in argomento, le facce degli ospiti, che fino a poco prima erano felici e sorridenti, si oscurarono improvvisamente. Subito non capì il perché di un tale e repentino cambiamento; poi tutto si chiarì nel momento in cui una delle tre figlie del borgomastro, con un pianto represso, si alzò da tavola e correndo si rifugiò nella sua stanze da letto.
A detta del padre, poche sere prima, la giovane era stata violentata da un essere che la ragazza aveva descritto come un eterea creatura di natura tutt’altro che umana.
Mentre raccontava queste cose l’uomo si segnava continuamente come se temesse che le sue parole potessero richiamare qualcosa di antico.
La ragazza fece ritorno a casa con le vesti lacere, e subito il padre pensò che fosse stata vittima di qualche contadino che, in preda ai vapori del vino, avesse perso la ragione. Invece la serva, che per prima si prese cura della ragazza, gli riferì che i seni e i fianchi della fanciulla portavano evidenti segni di graffi, molto simili a quelli lasciati dagli orsi sulla corteccia degli alberi per segnare il loro territorio. Perdipiù, sempre secondo la serva, nella parte interna delle gambe, in prossimità del pube, vi erano delle lesioni che potevano essere state fatte solo col fuoco.

Il ricordo di quelle parole strappò Gilgamesh alle sue riflessioni.
Il mago sentì l’ansia imposessarsi del suo animo.
Solo ora riusciva a intuire un qualche collegamento fra il suo sogno e gli eventi che avevano come protagonista la figlia del feudatario. L’essere di cui nessuno aveva mai visto l’aspetto era lo stesso che lo perseguitava fin da ragazzo.
Lo stesso che, secondo il suo mentore, lo aveva aggredito quella notte di vent’anni prima. Il ricordo era ancora vivido nella sua mente. Era riuscito a sottrarsi a quell’essere per pura fortuna rifugiandosi in un anfratto situato alle spalle di una piccola cascata.
In quell’occasione aveva riportato una lieve ferita alla spalla che, a causa della sua natura magica, era refrattaria a qualsiasi tipo di incantesimo curativo.
“La ferita! Ecco la prova!”
Con un rapido gesto della mano sinistra, in uno stato di agitazione crescente, Gilgamesh si sollevò la manica dalla maglia mettendo a nudo la spalla. Ciò che vide lo fece riflettere e nel contempo confermò le sue ipotesi. Dalla cicatrice, rimarginata perfettamente ormai da tempo, fuoriusciva un leggero rivolo di sangue che prese a strisciare, come un piccolo serpentello, lungo il braccio scoperto.
La sua mente si concentrò sulla ferita e questa smise immediatamente di sanguinare.
“Tu sei il più adatto a questo compito” gli avevano detto gli anziani della confraternita quando gli affidaro l’incarico.
Evidentemente erano già a conoscenza di ciò che stava avvenendo in quel luogo e di come lui vi fosse legato.
Gilgamesh però non si spiegava il perché lo avessero tenuto all’oscuro di tutto.
Che avessero voluto metterlo alla prova facendogli affrontare le sue paure?
Si arrovellò un po’ su questa cosa cercando di darsi una motivazione plausibile, ma poi accantonò il pensiero decidendo che al suo ritorno avrebbe chiesto chiarimenti.
Ora l’importante era riposare. Lo attendeva un’intensa giornata di ricerche e doveva essere nel pieno delle proprie facoltà mentali se voleva sbrogliare, al più presto, la matassa che legava assieme tutti quei delitti.

*******

Il sole, caldo, risvegliava la terra ancora addormentata sotto una coltre di rugiada.
La leggera brezza mattutina che filtrava dalle imposte semi aperte, svegliò dolcemente Gilgamesh che, in poco tempo, si preparò ed uscì dalla stanza. Aprì la porta della camera e dietro vi trovò Eladrin, in procinto di bussare. La ragazza col il viso arrossato e le lacrime agli occhi gli fece segno di seguirlo invitandolo ad affrettarsi.
All’esterno molti degli abitanti del feudo si erano ammassati intorno alla casa del maniscalco, dalla quale provenivano grida di disperazione. L’abitazione, piuttosto grande rispetto alle altre, era formata da una parte di pietra dove viveva l’artigiano con la moglie e da un’altra, in legno, adibita a stalla e fucina.
All’interno di quest’ultima Gilgamesh intravide il borgomastro che, con una mano alla bocca, gesticolava nella sua direzione.
Facendosi largo tra la folla, senza dare il tempo ai suoi occhi di cogliere tutti i particolari della scena, il Mago si portò all’ingresso della stalla.
Non appena oltrepassò la soglia il suo olfatto fu colpito violentemente da un intenso odore di escrementi misto a sangue e poco ci mancò che il suo stomaco lo abbandonasse.
Appeso ad un trave della stalla, come un semplice quarto di bue, vi era la parte inferiore di un uomo. Il busto era stato posto sotto di essa. Come in una grottesca messa in scena teatrale la testa era orientata in modo tale da poter osservare il proprio bacino dilaniato e le interiora pendere ormai prive di vita.
Ripresosi dallo turbamento iniziale, Gilgamesh incominciò a osservare la scena.
Il suo occhio vigile notò subito che, mimetizzate con la paglia e la polvere presenti nella stanza, vi erano tracce di sangue che portavano in fondo alla stanza verso una porta di legno.
Con circospezione si avvicinò e l’aprì lentamente.
I segni all’interno della casa erano più nitidi e non sembravano casuali ma, ben delineate, quasi come se qualcuno avesse voluto indicare una strada da seguire ai soccorritori.
Avanzando Gilgamesh si ritrovò al cospetto di un altro efferato delitto.
Questa volta si trattava di una donna; la moglie del maniscalco.
La trovò stesa sul suo letto, completamente nuda.
Il suo corpo, al contrario del marito, non presentava segni di lacerazioni.
Ad un primo sguardo sembrava esser morta nel sonno.
Eppure, quella scena di apparente normalità, era resa grottesca da un particolare alquanto inquietante.
Sul corpo della vittima vi era una lunga ustione che partiva da sotto il mento e si snodava lungo tutto il corpo fino alla zona pubica.
Sembrava che una grossa lumaca, strisciandole sul ventre, l’avesse ustionata.
Solo dopo aver esaminato la donna, Gilgamesh, si accorse che sulla parete alla sua sinistra vi era una scritta.
La lingua usata era il latino, e l’iscrizione diceva :_ Una volta mi fuggisti. Per te ora non vi è più scampo. Tu pensi di essere il cacciatore ma non ti sei ancora reso conto di essere la preda.
La scritta riuscì solo ad irritarlo. Si sentiva ferito nell’orgoglio e questo riempiva il suo animo di rabbia.
“Il primo! Devo sapere chi è stato il primo a morire!” questo uscì dalla bocca di Gilgamesh non appena abbandonata la casa del maniscalco, in preda all'ira, vide il capovillaggio nell’aia che coordinava un gruppo di contadini intenti a deporre ciò che rimaneva delle spoglie dell’artigiano in un carretto.
L’imposizione cosi secca e decisa spiazzò per un attimo l’amministratore.
Il mago, nei suoi abiti di cuoio nero, non gli era mai apparso così imponente e rigoroso come in quel momento.
Quegli occhi scuri, inflessibili, che lo fissavano carichi di cieco odio spaventarono il pover uomo che frappose subito alcuni metri tra se e il suo interlocutore.
“Ebbene! Sto aspettando!”
“Subito mio Lord, glielo mostrerò immediatamente” così dicendo il borgomastro, ancora intimorito, accompagnò Gilgamesh ad una piccola casa in legno isolata da tutte le altre.
“Questa era la casa del vecchio Ibacus. L’ultimo prete della vecchia fede che ancora si poteva trovare nella zona circostante”.
Senza neanche ascoltare l’ultima affermazione dell’uomo, Gilgamesh si fece largo nella polverosa abitazione.
All’interno l’odore di muffa era piuttosto forte. Sul pavimento si potevano ancora notare le macchie di sangue lasciate dall’omicidio che vi si era perpetrato.
Portatosi nel centro della stanza il mago si concentrò iniziando a salmodiare una strana litania. Le energie magiche risposero prontamente andando a ripescare nel flusso temporale le immagini delle vicende accadute in quel luogo, per poi sovrapporle alla realtà del momento. In questo modo Gilgamesh poté osservare il vecchio prima che la creatura lo uccidesse e scoprire che in quella casa non tutto era come sembrava. Uscito dalla stato di concentrazione necessario per plasmare l’incantesimo si avviò verso una vecchia madia. Con l’aiuto del suo accompagnatore, rimasto per tutto il tempo immobile sulla soglia della casa, spostò il mobile dalla sua posizione originale. La credenza, con grande stupore del borgomastro, nascondeva un’apertura nel pavimento che, mediante una scala di legno, portava in un antro usato dal vecchio per compiere i rituali più complessi dell’antica religione. Gilgamesh scese la scaletta, dopo aver acceso alcune candele, esaminò quel luogo. Tutto era come doveva essere in un laboratorio magico. Vi erano libri, alambicchi, vasi di terracotta contenenti mandragora e belladonna.
Il suo interesse, però, fu subito calamitato dai due anelli disegnati sul ruvido pavimento di pietra. Il primo copriva quasi l’intera superficie della stanza e riportava nella sua corona i simboli, nei tipici linguaggi rituali, di Azazel, Aluquah, Utukku, Shedu e Se’irim. Nel secondo, più piccolo, interno e tangente il primo, erano riportate le parole Mamitu kashshapu Ibacus: sortilegio dello stregone Ibacus. Posizionate sul cerchio interno dell’anello più grande vi erano cinque candele rosse.
Osservando più attentamente, Gilgamesh si rese conto che, tracciando delle linee che univano fra loro le diverse candele si veniva a disegnare un pentacolo, al centro del quale si poteva notare una zona carbonizzata come se vi fosse stato acceso un falò in grado di sprigionare un calore così intenso da poter fondere l’acciaio.
La sua congrega e molte altre avevano proibito ai propri affiliati di erigere simili cerchi. Lo scopo di questi rituali era quello di evocare spiriti e demoni dalle dimensioni attigue alla nostra per poi vincolarli ai voleri del mistico. Come tutti sapevano, questi erano riti estremamente complessi e per compierli occorreva la presenza di un gran numero di maghi. Tutto doveva essere preparato alla perfezione. Il vecchio doveva aver commesso qualche errore nella procedura perdendo così il controllo sulla creatura. Mentre era intento a fare congetture, il suo sguardo vigile cadde all’interno del piccolo anello. Appoggiato su d’un leggio d’osso, vi era un libro rivestito da una robusta pelle marrone. I piatti erano rinforzati negli angoli, tramite inchiodatura, con quattro placche di metallo a forma di mezza luna.
A metà del lato lungo si poteva notare un delicato fermaglio mentre nella parte superiore, fissato ad un anello, partiva una grossa catena che assicurava il libro al leggio.
A quella vista Gilgamesh si sentì pervadere da una grande euforia.
Aveva riconosciuto subito la tipica rilegatura a catena adottata solo negli ultimi tempi dai monasteri e dalle congreghe. Quel tipo di rilegatura, progettata per evitare la sottrazione del volume dai “santuari”, stava ad indicare che l’opera era molto importante e di grande valore. Deciso a portare via con sé il manoscritto, supponendo che al suo interno potesse trovarsi il modo per arrestare quell’essere, il mago improvvisò un incanto che gli permise di staccare la catena dal leggio senza rovinare in alcun modo il lavoro dei maestri legatori.
I due uscirono dalla casa quando ormai il sole aveva oltrepassato lo zenit e si diressero alla magione del feudatario dove avrebbero riposato mente e membra.
Per tutto il pomeriggio Gilgamesh non fece altro che perlustrare il feudo, in cerca di qualche indizio o informazione che lo potesse condurre alla creatura.

Verso sera la sua mente era cosi piena di dubbi, pensieri, concetti frammentari che credette di impazzire. Pur tentando, non riuscì a smettere di pensare a quella macabra storia in cui si era trovato coinvolto.
Cenò, come la sera precedente, in compagnia dei suoi ospiti. Ma al contrario della sera passata nessuno parlava e quindi il pasto prosegui nel più totale silenzio e imbarazzo. Quando la cena finì, tutti gli abitanti del villaggio erano ormai nei loro lettti da parecchio tempo. Tutto era avvolto dal buio di una notte senza luna.
Immerso in un innaturale silenzio. Ricordando che la creatura era apparsa sempre nelle ore notturne, Gilgamesh decise di perlustrare la zona interna alle mura in compagnia di Eladrin, la cui paura era stata messa a tacere dalla voglia di conoscenza.
Quando i due, sconsolati dall’infruttuosità delle ricerche, tornarono alla casa il giorno era ormai vicino.
Lasciata Eladrin nel corridoio che portava nella zona in cui dormivano le figlie del padrone di casa, Gilgamesh, stanco per la pesante giornata, andò nella sua stanza. Non appena fu dentro accese alcune candele e, dopo essersi tolto il suo lungo manto nero dall’interno bianco e averlo sistemato su di una sedia al fianco del letto, si sdraiò.
Il silenzio permeava ogni angolo della stanza e neppure dall’esterno si percepiva alcun tipo di rumore.
D’improvviso però qualcosa mutò. Si poteva sentire una distorsione delle energie magiche insite nella realtà, come se qualcuno stesse distorcendo lo spazio creando una specie di passaggio dimensionale. Senza neanche dargli il tempo per focalizzare i propri pensieri, la creatura gli fu addosso.
Era enorme. Un’ombra, senza occhi ne naso con un’unica apertura, all’altezza della bocca dalla quale penzolava una lunga lingua bavosa.
“Ora il tuo guscio è mio giovane mago. Annienterò il tuo spirito e userò il tuo corpo per muovermi liberamente nel tuo mondo”.
Il demone impose le sue lunghe mani sulla testa di Gilgamesh che percepì immediatamente una enorme pressione mentale.
La pressione aumentava. Sentiva il suo spirito che piano piano scivolava via mentre quello della creatura prendeva il suo posto. La sua mente era in continua espansione nel vano tentativo di imporsi su quella dell’essere. I suoi pensieri vorticavano nella ricerca di un modo per liberarsi da quella presa mentale. Di colpo come se fosse stato illuminato da una suprema conoscenza capì ciò che doveva fare.
Eliminò ogni resistenza mentale e focalizzò tutto il suo io e tutte le sue energie in un unico, complesso, pensiero.
La creatura si trovò per un attimo spiazzata dalla mancanza di resistenza che fino ad allora l’aveva tenuta in scacco. Ormai era un tutt’uno col corpo del mago, riusciva già a percepire gli odori le sensazioni tattili e le emozioni. Quanto erano intense le emozioni di quel mago in quel momento. Odio, paura, angoscia. Tutto si mischiava in un caleidoscopio di percezioni completamente nuove per quell’essere. Era vivo. Mortale. Si sentiva euforico, anche se non ne comprendeva il significato.
Aveva vinto e nulla lo avrebbe più fermato dal raggiungere il suo scopo.
“Finalmente sei mio!” gridò.
Ma l’essere s’ingannava.
Appena prima che lo spirito della creatura entrasse nel corpo di Gilgamesh questi lasciò scorrere in un unico incanto le energie trattenute. L’essere si ritrovò avvolto da una potente magia che iniziò ad allontanarlo dall’incantatore. Solo allora comprese che ciò che aveva percepito non era altro che una semplice illusione, un inganno perpetrato alla sua mente dalla grande forza di volontà del mistico.
Ma ormai era troppo tardi. L’incantesimo stava disperdendo l’energia che manteneva unite fra loro le particelle di materia reale che formavano il suo corpo.
“Maledetto! Mi hai ingannato!”
“Ritornerò con un corpo di carne e allora vedremo chi di noi sarà il più forte!”
Uno scoppio di luce e poi il silenzio.
Nella stanza tutto era tornato alla normalità. L’unico segno visibile, a testimonianza di ciò che era avvenuto, era una bruciatura sul pavimento nel punto in cui il demone era sparito. Gilgamesh, ancora scosso dallo scontro, non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto resistere ad un essere così forte. Sapeva che lo avrebbe rincontrato un giorno, e che in quel giorno il libro ritrovato nel laboratorio di Ibacus sarebbe stato la sua unica salvezza.
Lui non era mai arretrato innanzi ad un nemico e anche questa volta avrebbe aspettato la sua comparsa, armato della più sottile conoscenza.

AUTORI - SIMONE