29 novembre 2006

FABLE

Nuvole gonfie minacciano pioggia. Il sole scompare dietro la collinettà. I suo ultimi raggi vividi come il fuoco, bruciano i contorni scuri dell’albero, ormai secco per il sopraggiungere dell’inverno, che si staglia come un uomo in preghiera sullo sfondo.
Vedendo la scena mi sembra di essere dentro a una cartolina. Io la bimba che guarda dalla finestra un tramonto lontano sotto lo sguardo attento di un uomo che stringe la bianca cornice del cartoncino che a breve invierà a qualche amico.
Questa atmosfera presagiva l’arrivo di una di quelle notti piene di spiriti e fate. Notti di vento quando i bambini si addormentano piangendo. In quelle serate buie il papa mi raccontava la favola che mi piace tanto. Quella del piccolo servo di Oberon che scappa da Arcadia e che per anni si rifugia nel mondo degli uomini. Non vi nasconderò di averlo visto quel Puk. Era un bambino seduto su un muretto che osservava gli uomini dall’alto. Aveva un ghigno malefico nascosto da un rincuorante sorriso. Mi avvicinai a lui. Gli parlai e lui rispose. Il suo profumo di fiori nascondeva l’olezzo del sangue. Piccole gocce di pioggia rossa cadevano dall’orlo del suo cappotto. Pioveva sempra quando si mostrava ai miei occhi. Giocavamo insieme per ore. Mi raccontava storie di scherzi che aveva fatto durante la sua vita. Non si credeva quanti ne avesse fatti e dire che avrà avuto si e no dieci anni. Eppure quell’olezzo non lo abbandonava mai così come il profumo. Non capivo. In quei giorni però capire non era importante. Ero ammaliata dai suoi occhi dalle sue parole. Ma tutto in lui nascondeva qualcosa. Lo sapevo ma non me ne curavo.
Gli raccontai anche la storia che mi piaceva tanto. Lui ascoltò prima pensieroso poi sorridente. Un baleno attraversò i suoi occhi stretti. Ma è vero tutto questo? Si mia dolce bambina è vero. Oberon ci ha provato a riportarmi a casa ma Puk è più astuto.
Un giorno dalla mia camera lo vidi seduto fra le falangi dell’arbero distese verso il cielo. Muoveva la sua mano come a chiamarmi. Voleva che andassi da lui. La nonna era in casa. La salutai dicendole che andavo a giocare nei pressi dell’albero. Mi baciò e si raccomandò come sempre. La baciai forte; allora non sapevo bene il perché di quel gesto così intenso.
Puk mi guardava come faceva sempre con tutti gli uomini; dall’alto verso il basso.
Scese agile dall’albero. Quel giorno era bello e raggiante. Nessun olezzo, nessuna oscurità, nessun liquido scarlatto. Anche la pioggia era sparita. Mi tese la mano.
Insieme ci incamminammo lungo il sentiero. Lui mi parlava. Mi raccontava altre storie. Io ero felice. Le preoccupazioni mi avevano abbandonato insieme alle domande. Persino l’entrare nel fitto bosco non mi inquietava. Le verdi chiome si chiudevano su di noi.
I rami ci salutavano. Il verde lasciò il posto al marrone poi arancione giallo e infine l’oro. I colori si susseguirono in un calidoscopio di mutazioni. Poi li vidi erano li. Piccoli come topi, volteggiavano sulle noste teste. Grossi come tori, si inchinavano al nostro passaggio. Aure arcobaleno li avvolgevano. La radura si aprì. Cinque erano le fate che si fecero avanti. Cinque fate con cinque bambini. Puk non era più un pargolo di dieci anni. O almeno non più il rubicondo essere che mi era apparso fino ad allora. Ora era proprio come papà me lo discriveva e tutto era tornato. Olezzo, oscurità, sangue. Il grosso uomo cervo era seduto all’interno di un’antica quercia incavata. Le gambe incrociate; fece cenno di avvicinarsi. Li vidi tutti cambiare quei bambini. Ognuno prese l’aspetto della fata che lo aveva accompagnato. Ognuno di essi prese il posto del suo reciproco.
La fata tra i mortali e il mortale fra le fate.
Equo cambio perché non vi sia disequilibrio. Questa era la legge, sosteneva Oberon.
Eppure Puk non cambiò. Rimanemmo li fermi in quel luogo sacro dell’ARCADIA, intrappolati tra il mondo delle fate e quello degli uomini. Del mio mondo mi rimane un unico dolce ricordo. In quel ricordo mi avvolgo trasformandolo in barriera. Non sono ancora cambiata come gli altri compagni giunti fin qui. Mantengo tutti i miei tratti umani. Niente occhi di foglia, niente voce sottile e capelli di selva. Ma eccoli che ritentano le loro magie. Mi concentro. Sono nel mio salotto. Ecco ONE. Guardo BIM BUM BAM, è pomeriggio e mia nonna mi prepara la nutella. Mi prende in braccio per vedere insieme a me lovey sara, anna dai capelli rossi e tutti i cartoni che davano alla televisione e loro, così, non hanno alcun potere su di me.

AUTORE - SIMONE

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Altro esercizio di scrittura.
Con tre frasi apparentemente senza connessione creare una storia che le contenga.

Ho usato il solito Puk e Oberon per questioni di tempo. Spero mi scusiate ;-)

Anonimo ha detto...

L'idea mi piace e anche alcuni momenti della narrazione sono molto buoni, però è un po' confuso, specialmente il piano temporale non mi è chiaro.

memole ha detto...

Dalla mia ignoranza letteraria non ho ben capito fino a dove l'Arcadia permea la realtà oltre all'immaginazione della protagonista; ma forse così dev'essere, il dubbio non deve poter trovare una risposta precisa e definitiva, nemmeno al finale di un racconto, altrimenti la mente si accomoderebbe invece di arrovellarsi e quindi mantenersi viva!