Sono passate tre notti dall’ultima volta che ho dormito. Tutte le volte che mi sdraio il suo volto pervade la mia mente. Quegli occhi dorati; profondi e antichi. La bocca sottile che mai ha incontrato la maldicenza. La sua pelle bruciata dal sole. Colpa di quel dannato Caifa.
Lui e il suo maledetto territorialismo. Sotto l’impero questo non dovrebbe succedere.
Noi da buoni dominatori abbiamo concesso a tutti di poter praticare il proprio credo.
Ma sembra che questo non basti.
La luce del mattino si fa già strada nella stanza. Glauco entra trafelato. La polvere, alzata dai suoi calzari, unendosi a un raggio di sole crea nell’aria una piccola cascata.
“Pilato chiede di te Gaio. Penso che sia per il Nazzareno.”
Sospiro. Non riesco a trovare la forza per alzarmi. Perché devo andarci io. Non me la sento di riverede quell’uomo. Quel volto. Eppure devo. Come pretoriano ho degli obblighi verso il mio signore. Indosso la nera e lucida corazza di cuoio. E’ ancora come quando l’ho ricevuta. Tutti i giorni me ne prendo cura lucidandola e oliandola in modo da tenerne il cuoio morbido e pulito. Fisso il bianco mantello alle spalline. Il gladio pende dalla mia cintura. L’elmo stretto in mano.
So che non dovrei ma ho bisogno di sentire l’aria calda del deserto toccarmi i capelli.
Le strade sono già colme di vita. I mercanti stanno allestendo i loro banchi. I bambini giocano, mentre le madri lavano i panni. Alcuni mi corrono intorno. Allungo una mano per accarezzare i loro crespi capelli. Anche i malviventi sono già attivi. Due loschi figuri mi guardano di sottecchi . Stanno sicuramente tramando qualcosa. Ma ora non ho tempo di approfondire.
A pochi passi dalla casa di Pilato indosso il mio elmo dal folto cimiero dorato.
Faccio appena in tempo ad attraversare la soglia che un lungo bastone tenta di colpirmi allo sterno. Scarto di lato afferrando il legno. Facendo perno sulle gambe ruoto su me stesso trascinandomi dietro il mio aggressore che, preso alla sprovvista, rotola a terra. Una battito di mani.
“Sei sempre il migliore mio caro Longino” afferma Pilato mentre Glauco, completamente impolverato, mi osserva incredulo.
“Sali Longino. Ho degli affari da affidarti”
Mi incammino verso l’interno della casa non prima però di aver deriso il mio goffo assalitore.
Pilato, seduto sul suo seggio intento a sorseggiare una coppa di vino, mi fa cenno di accomodarmi. Rimango in piedi al suo cospetto.
“Longino ti voglio affidare un importante compito. Voglio che tu sia l’ombra del Nazzareno.”
Sento il sangue defluire via dal mio volto.
“Oggi si compirà il suo destino. Dobbiamo assolutamente impedire che qualcuno lo uccida prima del tempo. Conosci Caifa. Se si facesse prendere dal panico potrebbe ingaggiare un sicario e porre fine alla vita del falegname. Questo non deve accadere. Abbiamo bisogno di dare un esempio; un esempio religioso, politico e diplomatico.”
Le sue parole mi paralizzano. Come una malattia letale si insinuano nel mio io.
Vorrei rifiutare. Urlargli in faccia che non voglio stare vicino a quell’uomo. Che non mi interessa la religione, la politica, la diplomazia. Eppure non ci riesco. Annuisco dando la mia completa disponibilità. Pilato mi congeda. Esco dalla casa. L’aria non mi consola più. I bambini mi stanno alla larga. Lo farei anch’io se mi vedessi in faccia. Prima di dare inizio a questa assurda rappresentazione passo al campo per prendere la mia lancia. Mi servirà sicuramente.
Il sole è alto e l’esecuzione è solo all’inizio. Quel gran bastardo di Caio se la sta proprio godendo. Prima la frusta, poi il nerbo. Ora tiene in mano il flagello. Ogni colpo strappa un po’ di vita al Nazzareno. Il volto di Caio è segnato dall’odio e dal piacere. Stanotte godrà molto meno.
Ho intenzione di spaccarmi le mani contro il suo brutto muso. Sempre che le sue ossa siano così forti da rompere i cestus con cui me le ricoprirò. Ecco la croce. Sono sicuro che l’ha offerta Caifa. Mentre gliela caricano sulle spalle il sangue forma una piccola pozza ai suoi piedi. Guardo le persone intorno. Non uno sguardo di disprezzo. Non una voce si leva. Non un insulto scuote la pace di quel momento. Nessuno si azzarda a muoversi. Sembra che il tempo si sia fermato. Per la strada che porta al Golgota tutto procede tranquillamente. Solo un uomo e una donna si avvicinano cercando di alleviare le sofferenze del falegname. Io non mi oppongo al loro intervento. Lancio solo uno sguardo truce ai pochi che provano a protestare.
Sul Golgota ci si sente più vicino al cielo. Spesso quando sono quassù mi sento più sereno.
Infondo è un buon posto in cui morire. A me non dispiacerebbe.
Le croci sono già alte quando il sole inizia la sua discesa. Lo hanno messo fra quei due maledetti. Disma e Gesta. Li ho sorpresi io stesso, durante una ronda, che se ne approfittavano di una donna dopo avergli rubato fino all’ultimo denaro. Era da tempo che li cercavamo. Fisso i loro volti.
L’ira mi sale dentro. Sarei dovuto arrivare prima. Migliaia di volte prima. Ora sarà la croce a togliermi il piacere di prendere le loro vite. Mi soffermo sul Nazzareno. Perché; mi domando. Lui non è come queste bestie. Eppure fra i tre è quello che ha maggiormente sofferto. Mi siedo su una pietra poco lontano. Non perdo mai di vista la scena. Ascolto e non ascolto quello che accade.
Devo solo vigilare sui malintenzionati. Non voglio rimanere coinvolto. Non voglio che quegli occhi si posino nuovamente su di me. Non voglio più sentire la sua voce.
La terra trema.
Cado.
Disma grida.
“Lui Vive! Lui vive! Dio è con Lui! Vive! Vive!”
Le sue grida mi scombussolano. Devo farlo smettere. Deve smettere di urlare. Il Nazzareno è morto. Niente lo riporterà. E’ morto e basta. Corro sotto le croci. Il ladrone grida ancora. Con l’asta della lancia lo colpisco così forte da spezzargli il fiato.
“Ti ho detto che è morto!” ruoto l’arma e affondo la punta nel costato del falegname.
Acqua.
Sangue.
Cola sulla lama. Mi colpisce il viso. Mi tocca le labbra. Vedo creare la vita. Comprendo per un attimo ciò che le stelle celano. Divento una cosa sola col creato. Dio mi sfiora.
Non piangere figlio mio. Nessuno ti condannerà per ciò che hai fatto. Va ora. Credi e vivi.
Un mondo nuovo mi si apre davanti agli occhi. Ora lo vedo il Cristo. Non è morto. Vive. Si Vive.
Disma grida. Gli esecutori gli hanno fracassato le ginocchia. Ora vogliono quelle di Cristo.
Mi frappongo fra loro e la croce. Ne afferro uno per la veste.
Andatevene! Gli grido, con l’anima, in volto.
Lo spingo via facendolo cadere. Se ne vanno.
Pianto di donna. Pianto di madre. Il mio pianto. Tutte le lacrime del mondo sono per lui.
Lascio il mio elmo sul Golgota insieme al mantello.
Mi incammino verso la mia terra. So che fra cinque anni Glauco verrà a prendere la mia testa.
Per allora io avrò già creato qualcosa capace di ricordare il mio Messia.
Lui e il suo maledetto territorialismo. Sotto l’impero questo non dovrebbe succedere.
Noi da buoni dominatori abbiamo concesso a tutti di poter praticare il proprio credo.
Ma sembra che questo non basti.
La luce del mattino si fa già strada nella stanza. Glauco entra trafelato. La polvere, alzata dai suoi calzari, unendosi a un raggio di sole crea nell’aria una piccola cascata.
“Pilato chiede di te Gaio. Penso che sia per il Nazzareno.”
Sospiro. Non riesco a trovare la forza per alzarmi. Perché devo andarci io. Non me la sento di riverede quell’uomo. Quel volto. Eppure devo. Come pretoriano ho degli obblighi verso il mio signore. Indosso la nera e lucida corazza di cuoio. E’ ancora come quando l’ho ricevuta. Tutti i giorni me ne prendo cura lucidandola e oliandola in modo da tenerne il cuoio morbido e pulito. Fisso il bianco mantello alle spalline. Il gladio pende dalla mia cintura. L’elmo stretto in mano.
So che non dovrei ma ho bisogno di sentire l’aria calda del deserto toccarmi i capelli.
Le strade sono già colme di vita. I mercanti stanno allestendo i loro banchi. I bambini giocano, mentre le madri lavano i panni. Alcuni mi corrono intorno. Allungo una mano per accarezzare i loro crespi capelli. Anche i malviventi sono già attivi. Due loschi figuri mi guardano di sottecchi . Stanno sicuramente tramando qualcosa. Ma ora non ho tempo di approfondire.
A pochi passi dalla casa di Pilato indosso il mio elmo dal folto cimiero dorato.
Faccio appena in tempo ad attraversare la soglia che un lungo bastone tenta di colpirmi allo sterno. Scarto di lato afferrando il legno. Facendo perno sulle gambe ruoto su me stesso trascinandomi dietro il mio aggressore che, preso alla sprovvista, rotola a terra. Una battito di mani.
“Sei sempre il migliore mio caro Longino” afferma Pilato mentre Glauco, completamente impolverato, mi osserva incredulo.
“Sali Longino. Ho degli affari da affidarti”
Mi incammino verso l’interno della casa non prima però di aver deriso il mio goffo assalitore.
Pilato, seduto sul suo seggio intento a sorseggiare una coppa di vino, mi fa cenno di accomodarmi. Rimango in piedi al suo cospetto.
“Longino ti voglio affidare un importante compito. Voglio che tu sia l’ombra del Nazzareno.”
Sento il sangue defluire via dal mio volto.
“Oggi si compirà il suo destino. Dobbiamo assolutamente impedire che qualcuno lo uccida prima del tempo. Conosci Caifa. Se si facesse prendere dal panico potrebbe ingaggiare un sicario e porre fine alla vita del falegname. Questo non deve accadere. Abbiamo bisogno di dare un esempio; un esempio religioso, politico e diplomatico.”
Le sue parole mi paralizzano. Come una malattia letale si insinuano nel mio io.
Vorrei rifiutare. Urlargli in faccia che non voglio stare vicino a quell’uomo. Che non mi interessa la religione, la politica, la diplomazia. Eppure non ci riesco. Annuisco dando la mia completa disponibilità. Pilato mi congeda. Esco dalla casa. L’aria non mi consola più. I bambini mi stanno alla larga. Lo farei anch’io se mi vedessi in faccia. Prima di dare inizio a questa assurda rappresentazione passo al campo per prendere la mia lancia. Mi servirà sicuramente.
Il sole è alto e l’esecuzione è solo all’inizio. Quel gran bastardo di Caio se la sta proprio godendo. Prima la frusta, poi il nerbo. Ora tiene in mano il flagello. Ogni colpo strappa un po’ di vita al Nazzareno. Il volto di Caio è segnato dall’odio e dal piacere. Stanotte godrà molto meno.
Ho intenzione di spaccarmi le mani contro il suo brutto muso. Sempre che le sue ossa siano così forti da rompere i cestus con cui me le ricoprirò. Ecco la croce. Sono sicuro che l’ha offerta Caifa. Mentre gliela caricano sulle spalle il sangue forma una piccola pozza ai suoi piedi. Guardo le persone intorno. Non uno sguardo di disprezzo. Non una voce si leva. Non un insulto scuote la pace di quel momento. Nessuno si azzarda a muoversi. Sembra che il tempo si sia fermato. Per la strada che porta al Golgota tutto procede tranquillamente. Solo un uomo e una donna si avvicinano cercando di alleviare le sofferenze del falegname. Io non mi oppongo al loro intervento. Lancio solo uno sguardo truce ai pochi che provano a protestare.
Sul Golgota ci si sente più vicino al cielo. Spesso quando sono quassù mi sento più sereno.
Infondo è un buon posto in cui morire. A me non dispiacerebbe.
Le croci sono già alte quando il sole inizia la sua discesa. Lo hanno messo fra quei due maledetti. Disma e Gesta. Li ho sorpresi io stesso, durante una ronda, che se ne approfittavano di una donna dopo avergli rubato fino all’ultimo denaro. Era da tempo che li cercavamo. Fisso i loro volti.
L’ira mi sale dentro. Sarei dovuto arrivare prima. Migliaia di volte prima. Ora sarà la croce a togliermi il piacere di prendere le loro vite. Mi soffermo sul Nazzareno. Perché; mi domando. Lui non è come queste bestie. Eppure fra i tre è quello che ha maggiormente sofferto. Mi siedo su una pietra poco lontano. Non perdo mai di vista la scena. Ascolto e non ascolto quello che accade.
Devo solo vigilare sui malintenzionati. Non voglio rimanere coinvolto. Non voglio che quegli occhi si posino nuovamente su di me. Non voglio più sentire la sua voce.
La terra trema.
Cado.
Disma grida.
“Lui Vive! Lui vive! Dio è con Lui! Vive! Vive!”
Le sue grida mi scombussolano. Devo farlo smettere. Deve smettere di urlare. Il Nazzareno è morto. Niente lo riporterà. E’ morto e basta. Corro sotto le croci. Il ladrone grida ancora. Con l’asta della lancia lo colpisco così forte da spezzargli il fiato.
“Ti ho detto che è morto!” ruoto l’arma e affondo la punta nel costato del falegname.
Acqua.
Sangue.
Cola sulla lama. Mi colpisce il viso. Mi tocca le labbra. Vedo creare la vita. Comprendo per un attimo ciò che le stelle celano. Divento una cosa sola col creato. Dio mi sfiora.
Non piangere figlio mio. Nessuno ti condannerà per ciò che hai fatto. Va ora. Credi e vivi.
Un mondo nuovo mi si apre davanti agli occhi. Ora lo vedo il Cristo. Non è morto. Vive. Si Vive.
Disma grida. Gli esecutori gli hanno fracassato le ginocchia. Ora vogliono quelle di Cristo.
Mi frappongo fra loro e la croce. Ne afferro uno per la veste.
Andatevene! Gli grido, con l’anima, in volto.
Lo spingo via facendolo cadere. Se ne vanno.
Pianto di donna. Pianto di madre. Il mio pianto. Tutte le lacrime del mondo sono per lui.
Lascio il mio elmo sul Golgota insieme al mantello.
Mi incammino verso la mia terra. So che fra cinque anni Glauco verrà a prendere la mia testa.
Per allora io avrò già creato qualcosa capace di ricordare il mio Messia.
AUTORE - SIMONE
4 commenti:
Molto bello.
p.s. hai scritto "polita" invece di, credo, "politica"
Bello e toccante. Il buon vecchio Longino e la sua lancia raccontati con delicatezza e garbo.
Bello.
Se 'trafelante' si può dire, io non l'avevo mai sentito...
Proprio bello.
Mi piacciono un sacco i racconti scritti da un punto di vista diverso, che non e' il solito del protagonista.
Scritti cosi' ricordano che c'erano anche altre persone, e che anch'esse hanno pensieri e sentimenti.
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