Micol osservava la pioggia scendere fitta ed armoniosa dal cielo plumbeo. Le gocce gemelle cadevano copiose e con ritmo cadenzato, battendo il tempo, come in una danza e diffondendo nell’aria l’inconfondibile odore di muschio. Micol adorava il profumo della pioggia, così come il suo caratteristico suono, quasi una musica, mentre le gocce picchiettavano veloci sui tetti della città. Com’era bella Modena da quella prospettiva! Lo sguardo della giovane restauratrice spaziava sulle tegole di cotto, zigrinate e disuguali, mentre, sotto di lei, il centro storico della città brulicava di vita. Si sentiva una privilegiata a godere di quel magnifico spettacolo. Spesso, mentre la sua attenzione si soffermava sui comignoli fumosi, o sulle parabole piatte che rallegravano il suo orizzonte, si lasciava distrarre da un pensiero, da un’idea, da una riflessione. Allora, per un attimo, trascurava le antiche pietre, così bisognose delle sue cure, si toglieva il casco protettivo e si sedeva con le gambe a penzoloni nel vuoto. Micol aveva passato gli ultimi due anni sui ponteggi che, come una corazza protettiva, avvolgevano la cattedrale romanica della città geminiana, sottoposta ad un ciclo urgente di restauri, per rimediare alle offese del tempo. Da quando la sua ditta era risultata vincitrice dell’appalto, la sua vita era decisamente cambiata. Era la prima volta che le si prospettava un lavoro così lungo ed impegnativo. La sua passione e la buona riuscita delle commesse precedenti l’avevano premiata; così, Micol era stata scelta per contribuire alla rinascita del duomo, capolavoro dell’architetto Lanfranco e dello scultore Wiligelmo, sublime interprete dell’arte medievale. Da quel momento, aveva avuto inizio la fase di studio per conoscere quell’“illustre malato”. Aveva seguito, con scrupolo, le riunioni ed i corsi preparatori indetti dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali ed Architettonici ed aveva aggiornato le sue conoscenze presso l’Istituto Superiore di Conservazione e Restauro di Roma. Micol sapeva di essere una brava restauratrice, tuttavia, occorreva perfezionare le nozioni di architettura, geologia, storia, chimica. Un lavoro di quelle dimensioni necessitava di un approccio multidisciplinare. La cattedrale, infatti, era stata costruita con pietre di diversa fattura e provenienza; alcune di esse erano state recuperate da altri monumenti, addirittura risalenti all’epoca romana, altre, più giovani, erano state estratte appositamente dalle cave, per dare lustro e resistenza alle mura, destinate ad ospitare le reliquie del Santo Patrono, il vescovo Geminiano.
Nelle lunghe e silenziose ore, trascorse sui ponteggi, Micol non si separava mai dallo schema che si era preparata, con la mappatura della facciata e la costituzione delle pietre, come se quel foglio le trasmettesse sicurezza. Sarebbe bastata, infatti, una reazione chimica sbagliata, o un gesto troppo indelicato, per scalfire le pietre malate e rovinarle irrimediabilmente. Poi, c’erano le sculture, così perfette, così intense, capaci di riportare indietro nel tempo la fantasia di quanti erano incapaci di rimanere insensibili di fronte a quel capolavoro.
Circondata da grifoni, mostri marini, basilischi ed immagini sacre, Micol trascorreva le sue giornate adoperandosi per ripulire quelle antiche pietre dai segni dei secoli, dall’inquinamento, dalle infiltrazioni e dal guano dei piccioni. Durante i lavori, erano emerse problematicità non rilevate all’inizio: crepe, danneggiamenti dovuti a maldestri interventi di recupero degli anni precedenti, pezzi smontati e rimontati in maniera errata da ripristinare. Ogni centimetro di pietra tornata all’antico splendore, per lei, era una conquista. La buona riuscita del suo lavoro consisteva non nel fare risplendere la facciata, ma nel riuscire ad arginare le insidie del tempo, nel rispetto del lavoro degli antichi. I licheni e le “croste nere” formatisi per lo smog e le deiezioni dei piccioni, pertanto, non venivano eliminate con solventi chimici o strumenti acuminati, ma si tentava si restituire alla cattedrale il suo aspetto originario con impacchi di acqua distillata ed un’impalpabile pasta di cellulosa, dalla consistenza simile al cotone, in grado di assorbire le impurità. In questo modo, Micol aveva potuto regalare nuova vita ai volti delle sculture sacre.
In particolare, l’aveva colpita il viso altero e paterno di una statua di Cristo, benedicente e racchiuso in una mandorla, situato proprio sopra al rosone e circondata dai quattro Evangelisti. La scultura era sovrastata da una sorta di balconcino che, per uno strano scherzo del destino, nei secoli aveva preservato l’immagine sacra dall’aggressione dei fattori atmosferici. Ora, il volto di Gesù sembrava quasi fissarla con il suo sguardo penetrante, reso ancora più umano dall’utilizzo del piombo nella realizzazione delle pupille. E come non farsi affascinare dall’imponente rosone? Tutti coloro che avevano posato lo sguardo su di esso, standosene al livello del suolo, non potevano comprendere la maestosità delle sue dimensioni, oltre otto metri di diametro, e la perfezione delle sue vetrate, che narravano di storie sacre e di mirabili imprese di santi. Anche il rosone, aggiunto nel XIII secolo, sublime opera dei maestri Campionesi, ad una prima occhiata era parso subito molto danneggiato. La parte che maggiormente aveva risentito delle insidie dei secoli era il semicerchio inferiore, dove la pietra arenaria presentava fenditure così profonde, da poterci vedere attraverso. Era stato necessario, così, rimuovere le resine acriliche utilizzate nei restauri precedenti, materiali che erano risultati addirittura dannosi per la salute delle pietre, e procedere con il consolidamento delle colonnine che suddividevano il cerchio in spicchi, delle rose lapidee distribuite sulla circonferenza e del cordolo più esterno. In quella fase, il gruppo di lavoro si era accorto che le vetrate istoriate del rosone erano state montate in maniera errata dai predecessori. Il lavoro di risanamento, quindi, si era dimostrato ancora più complesso. Era stato necessario, infatti, smontare i vetri uno ad uno, spedirli ad una ditta di Verona, per la pulitura e la manutenzione, e ricostruire con estrema cura e perizia quel magnifico mosaico della storia dell’uomo.
Micol ripercorreva con la mente tutte le fasi più emozionanti di quei due anni di duro lavoro, ma di enormi soddisfazioni, ogni qual volta, grazie alla sua perizia, una pietra tornava a risplendere, una scultura a pulsare di vita, un fregio a trasmettere il suo ideale di bellezza.
Per ventiquattro mesi, la cattedrale era stata la sua casa. Al mattino, subito dopo colazione, indossava gli abiti da lavoro, le scarpe antinfortunistiche ed il casco giallo, poi raggiungeva il cantiere e, mese dopo mese, saliva sempre più in alto. Mentre l’orizzonte prospettico cambiava davanti ai suoi occhi e, sotto di lei, le pietre antiche tornavano al loro splendore, al di sopra, sotto un cielo ora plumbeo, ora terso, a seconda del trascorrere delle stagioni, Micol contemplava i tetti aguzzi, il dedalo di strade, la maestosità di Piazza Grande e l’imponenza della torre campanaria, la Ghirlandina, o la “Pìopa”, come la chiamavano affettuosamente i modenesi.
Ora, la torre era ammantata da un telo multicolore, un’opera d’arte di Mimmo Paladino, un artista famoso, esponente della Transavanguardia, che aveva la funzione di nascondere alla vista degli osservatori il reticolo di ponteggi necessario al recupero del monumento. Micol non aveva potuto fare a meno di notare come il telo, già oggetto di polemiche per la poca attinenza con il contesto storico ed architettonico della cattedrale, della piazza e della torre campanaria, dichiarati dall’Unesco Patrimonio Mondiale dell’Umanità, dopo pochi mesi dalla sua installazione, avesse perso il suo candore primigenio e fosse stato assalito dalle particelle inquinanti, che gli avevano conferito un colorito tra il grigio ed il giallastro.
Spesso, mentre, solitaria, era concentrata nel lavoro, la sua attenzione era distratta dal tubare dei piccioni, che avevano eletto a propria dimora le feritoie ed i sottotetti del duomo.
Abituata a quella che, ormai, considerava la sua quotidianità, Micol pensava con malinconia a quanto le sarebbe mancato tutto questo. Certo, ci sarebbero stati altri lavori, altre opere d’arte da risanare, ma il suo cuore era stato irrimediabilmente conquistato dall’imponente cattedrale romanica, dai suoi mostri di pietra, dalle sue pareti istoriate, come se i sentimenti, le speranze, la devozione e la fede di chi l’aveva costruita, o di chi, semplicemente, aveva vissuto, giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo, sotto la protezione della Domus Clari Geminiani ne avessero impregnato le mura, per giungere fino a lei, insediarsi nella sua mente e conquistare il suo cuore.
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Quel mattino di novembre, Micol si alzò con un’insolita tristezza. Non poteva fermare lo scorrere del tempo, né impedire che lo stato dei lavori avanzasse fino al completo raggiungimento degli obiettivi. Ormai, mancava solo una parte della cuspide della facciata, quella più in alto. Nelle settimane precedenti, insieme alla sua equipe, aveva provveduto alla pulitura ed alla messa in sicurezza delle due torrette laterali, la cui copertura, con le loggette, risaliva solo agli anni Trenta del secolo scorso, ma era già minata dall’azione del tempo. Così, si era proceduto al restauro ed al risanamento delle parti in pietra, al riposizionamento delle lamine in metallo ed alla realizzazione della cerchiatura delle colonnine.
Rimaneva solo la statua dell’angelo, una magnifica scultura in marmo bianco di Carrara, che svettava eterno sulla cuspide della cattedrale, come a proteggerla dalle insidie di qualsiasi natura. L’angelo era coperto di licheni e di croste scure, come la maggior parte delle zone più esposte.
La sua giornata di lavoro sarebbe stata tutta dedicata alla pulitura dell’angelo. Scrutando fuori dalla finestra, fu felice di scorgere i raggi del sole. Sebbene la pioggia l’affascinasse per una miriade di motivi, la maggior parte dei quali inspiegabili, lavorare sotto l’acqua scrosciante, o sentirsi le ossa impregnare di umidità, non era proprio il massimo. Inoltre, la parte più alta della cattedrale, la cuspide, era raggiunta dall’ultimo ponteggio, sprovvisto della parte superiore, quindi di quella tettoia che l’avrebbe protetta dai capricci del clima.
La ragazza raggiunse il cantiere, aprì il cancelletto ricavato dalla rete metallica, indossò l’abbigliamento da lavoro nel piccolo container riservato ai restauratori e cominciò a salire, sempre più in alto, di ponteggio in ponteggio. A mano a mano che l’altezza si faceva più evidente, il suo sguardo incontrava le pietre già restaurate, lo sguardo delle sculture, pulsanti di vita e l’eleganza dei fregi. Tra poco, la facciata sarebbe stata restituita, nella sua nuova veste, allo sguardo dei modenesi e dei molti turisti, che periodicamente visitavano il capolavoro romanico. Micol giunse all’apice della facciata e si trovò faccia a faccia con l’angelo di marmo. Le croste nere ed i licheni avevano invaso il suo corpo, il volto era quasi irriconoscibile. Era necessario agire con grande perizia, dosando accuratamente i reagenti e la pasta di cellulosa, affinché non risultasse troppo aggressiva. Mentre somministrava alla scultura gli impacchi preparatori, Micol si ricordò del suo stupore quando, durante gli incontri preliminari, le avevano detto della presenza dell’angelo. Dalla base della facciata, infatti, era quasi impossibile scorgerlo, forse perché situato troppo in alto, oppure perché lo sguardo veniva subito catturato dalle due torrette laterali.
Dopo gli impacchi, applicò la pasta di cellulosa. Ora, bisognava soltanto attendere. Sapeva che il composto non avrebbe fatto il miracolo. Il risultato, infatti, dipendeva da diversi fattori, dalla porosità della pietra, dal grado di sporcizia, dalla capacità di assorbimento. Tuttavia, c’era qualcosa in quella scultura che l’affascinava, più degli Evangelisti, più delle creature mitologiche e, forse, anche più del Cristo in Mandorlo. L’angelo sembrava emanare una forza propria, un’energia misteriosa, capace di trapassare il marmo e giungere fino alla sua coscienza.
Micol attribuiva quella strana sensazione ai lunghi giorni trascorsi soltanto in compagnia delle pietre. I rapporti umani, in quei due anni di lavoro, erano stati molto limitati. Gli altri quattro restauratori che facevano parte dell’equipe, infatti, lavoravano ognuno su un ponteggio diverso, anch’essi rinchiusi nel loro mondo e concentrati sul proprio lavoro. Gli unici momenti, in cui ci si trovava in compagnia, erano quelli del pranzo. Tuttavia, anche lì, si finiva sempre per parlare di lavoro. Così, Micol aveva sviluppato le sue fantasie sui personaggi scolpiti nella pietra, ne aveva fatto i suoi silenti compagni di avventura, finendo per conferire loro uno status quasi umano. Doveva essere questa la motivazione. In fondo, la figura dell’angelo l’aveva affascinata fin dall’inizio. Era normale che lo avesse eletto ai primi posti nelle sue preferenze.
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Trascorso il tempo necessario, affinché le particelle di sporco fossero assorbite dalla cellulosa, Micol si apprestò a togliere la pasta. Era un lavoro che doveva essere svolto con delicatezza. Sapeva che avrebbe dovuto limitare l’uso di strumenti di metallo, per non scalfire la pietra, e svolgere il lavoro a mano. Cominciò ad eliminare la pasta dalla parte inferiore della scultura, raccogliendola in un contenitore che aveva portato con sé. Il composto aveva svolto bene la sua funzione: già dalle prime mosse, si intravedeva il biancheggiare della pregiata pietra di Carrara. Micol ne fu felice: l’angelo sarebbe tornato presto al suo antico splendore. Di buona lena, eliminò anche la parte rimanente, finché non le rimase da scoprire che il volto. Non appena l’ultimo strato di pasta fu eliminato, Micol si trovò faccia a faccia con il messaggero divino. Provò una stretta al cuore, quasi una fitta che trapassò tutto il suo essere. La figura che le stava di fronte aveva le orbite vacue, la bocca spalancata in una morsa di dolore.
Perché quell’espressione di estrema sofferenza in un’opera che, secondo i canoni dell’arte romanica, doveva, invece, esprimere un’altera fissità e una saggezza trascendente?. Perché l’angelo, che presiedeva la cuspide della cattedrale, simbolico guardiano della casa di San Geminiano, era stato scolpito con quella straziante espressione nel volto?.
Non fece in tempo ad elaborare il pensiero; sentì che le ginocchia le si stavano piegando sotto il peso di una fortissima energia. Dovette appoggiarsi ad un paletto di sostegno per non cadere a terra. Voci confuse le si affollarono nella mente, finché, chiarissimo e potente, non emerse un’invocazione di aiuto: “Liberami! Te ne prego …”. Micol vacillò. Che cosa le stava succedendo?.
Possibile che si fosse immedesimata così tanto nella sofferenza dell’angelo?.
In quelle condizioni, non poteva garantire l’accuratezza e la precisione del suo lavoro. Discese lentamente i piani che la separavano dal livello del suolo. Si tolse il casco, poi si asciugò la fronte con una salvietta. Sentiva un grande calore, come se un’ondata di energia fosse entrata in lei.
“Probabilmente - disse tra sé – mi sta venendo una brutta influenza. Tutta colpa della stanchezza …”.
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Quella sera, per cena, Micol consumò solo un caffelatte. Il suo stomaco era ancora chiuso e la sua mente occupata dalle sensazioni di quel pomeriggio. Analizzò la situazione. Quella scultura era completamente diversa dalle altre, che aveva incontrato sui fregi della cattedrale in quei due anni di restauri. E’ vero, l’arte medievale si compiaceva di raffigurazioni spesso mostruose, creature mitologiche, in grado di incutere timore a chi li osservava Tuttavia, in comune, avevano tutte un’espressione statica. Al contrario, l’angelo sulla cuspide, sebbene semplice nelle fattezze del corpo, aveva quel viso sofferente …
Prima di addormentarsi, Micol riprese in mano gli appunti sulla cattedrale Geminiana, che aveva scrupolosamente radunato in un raccoglitore ad anelle. Sperava di trovare qualche notizia sulla statua del messaggero divino, sfuggito alla sua memoria. In una postilla, ritrovò solo la sua composizione: marmo bianco di Carrara. Nessun accenno alla provenienza. Esausta, ripose i suoi vecchi quaderni in una cartellina e spense la luce. Il sonno non le portò il sollievo sperato. Anzi, fu molto agitato.
Quella notte strani sogni le fecero visita. La sua mente fu invasa da un fascio di luce soprannaturale. In quell’istante, la giovane ebbe come l’impressione che le sue membra stessero vagando nel vuoto, senza peso e senza tempo. Poi, chiara e forte, irruppe quell’invocazione: “Aiutami! Ti prego … liberami ...”.
Micol si svegliò di soprassalto, con l’immagine del volto sofferente dell’angelo marchiato a fuoco nella mente. Era madida di sudore ed il cuore batteva all’impazzata.
“Perché l’angelo mi sta tormentando? - si domandò, stringendo le ginocchia al petto - Che cosa vuole da me?”. Allungò la mano sul comodino e si portò alla bocca il bicchiere pieno d’acqua, che era solita riempire la sera, prima di addormentarsi, per placare l’arsura notturna; un’ abitudine che aveva fin da bambina e che non aveva mai perso. Bevette un lungo sorso e si avvolse nella vestaglia. Fuori dalla finestra, la notte regnava sovrana, mentre una pioggia fitta ed insistente aveva cominciato a cadere sulla città.
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Il giorno seguente, per la prima volta in due anni, Micol non si recò al lavoro. Ai ragazzi dell’equipe disse che non si sentiva bene, ipotesi avvalorata dal malessere del giorno prima e dalle bizzarrie della stagione. I messaggi onirici di quella notte l’avevano sconvolta. Non si trattava di semplici sogni, ne era convinta. L’angelo la stava chiamando, stava chiedendo il suo aiuto. Ma per quale ragione? Doveva saperne di più. Poteva consultare qualche volume sulla storia del Duomo di Modena, oppure qualche testo di storia dell’arte medievale, per capire se ci fossero degli argomenti che l’aiutassero a capire. Per prima cosa, si recò presso il Museo Lapidario del Duomo, per tentare si scorgere, tra le metope, i capitelli orfani ed i frammenti lapidei, qualcosa che le suggerisse una soluzione. I suoi occhi passarono in rassegna figure mostruose, altre sfacciatamente oscene, ma nessuna di esse aveva un’espressione simile all’angelo sulla cuspide del duomo. Nei giorni successivi, Micol fu come ossessionata dall’angelo. Sebbene si recasse ogni giorno al lavoro, sempre più spesso si concedeva una pausa e raggiungeva la parte più alta dei ponteggi, per trovarsi faccia a faccia con la figura di pietra. E, ogni volta, l’espressione straziata dell’angelo le causava una fitta al petto. Anche quando terminava il suo impegno professionale, la sua mente era invasa da quella voce, quella richiesta d’aiuto, che sapeva non provenire da dentro di sé. Doveva assolutamente liberarsene e l’unica soluzione era tentare di saperne di più sulle origini di quella statua.
Nel tempo libero, prese, così, a frequentare l’Archivio Capitolare, nella speranza di trovare un indizio, un antico manoscritto, un volume che la illuminassero. Esaminò tomi voluminosi e fece di tutto per ottenere le autorizzazioni per visionare i manoscritti più antichi e più rari, che parlavano del duomo, della storia della sua costruzione e dei personaggi coinvolti, dalle personalità politiche, a quelle religiose, fino ai capi cantiere. Per ogni volume o manoscritto consultato, prendeva appunti scrupolosi, che annotava su un block notes, sulla prima facciata del quale aveva disegnato dettagliatamente il volto dell’angelo; lo stesso che le stava togliendo il sonno e la salute. Nel silenzio della biblioteca, Micol continuava a contemplare quel mistero. Aveva persino svolto una ricerca approfondita, confrontando le caratteristiche della scultura con la tipologia della statuaria di quei secoli. Era impossibile che l’angelo fosse stato aggiunto in un secondo momento, perché le cronache lo rilevavano in quella stessa posizione fin dal completamento della cattedrale.
Mentre lasciava la sua postazione, con un gesto involontario dell’avambraccio, Micol urtò il quaderno degli appunti, facendolo cadere a terra. Nel raccoglierlo, il suo sguardo incrociò quello di un giovane frate, che, chissà da quanto tempo, era seduto accanto a lei, assorbito, allo stesso modo, dagli affascinanti contenuti dei tomi. Il religioso si era già chinato per raccoglierle il quaderno, quando la sua attenzione fu catturata dal disegno sulla prima pagina. Il giovane rimase a fissare l’immagine per diversi secondi, prima di riconsegnare il block notes a Micol.
La ragazza lo ringraziò, ricevendone, in cambio, un sorriso. Non poté fare a meno di notare un’espressione di turbamento, quasi una nota stonata sul viso della persona che aveva di fronte. In quello stesso istante, come in un flash, nella sua mente, il volto del frate si sovrappose a quello sofferente dell’angelo. Micol ebbe un capogiro e dovette appoggiarsi al tavolo per non perdere l’equilibrio.
“Signorina, si sente bene?”. L’apostrofò, preoccupato il giovane frate.
“Non si preoccupi, è solo un giramento di testa. Forse sono a digiuno da troppe ore …”.
“Venga, l’accompagno fuori a prendere una boccata d’aria. La polvere di questi antichi volumi, spesso, gioca brutti scherzi”.
Micol ebbe l’impressione che il frate avesse colto al volo l’occasione per approfondire la sua conoscenza. Non le era sfuggito il suo turbamento di fronte alla riproduzione del volto dell’angelo e, se doveva essere sincera, anche lei desiderava sapere il perché. Così, accettò di buon grado l’invito del religioso.
Una volta usciti dall’Archivio Capitolare, il giovane si presentò: “Piacere, sono frate Gilberto …”.
“Il piacere è mio, sono Micol, Micol Palmieri …
“Come va? Si sente meglio, adesso?”.
“Sì, grazie, si è trattato solo di un capogiro …”.
“Piuttosto – continuò il frate – prima, nella biblioteca, non ho potuto fare a meno di notare il disegno che c’è sulla prima pagina del suo quaderno … E’ molto brava a disegnare, Micol”.
“La ringrazio, lei è molto gentile … io sono solita prendere appunti anche attraverso gli schizzi. Sa, faccio la restauratrice …”.
“Se posso essere indiscreto, posso chiederle che cosa rappresenta il volto che ha ritratto? Mi è sembrato di cogliere un’espressione di profondo dolore … un’espressione che, in tutta sincerità, mi ha turbato”. Il giovane frate sorrise. Il suo era un sorriso aperto, che invitava al dialogo.
“E’ il viso di un angelo ...”. Disse Micol, tradendo una certa emozione, mista a quella diffidenza iniziale di chi sta per rivelare qualcosa di importante di sé ad uno sconosciuto.
Il giovane frate non sembrava affatto sorpreso, come se si aspettasse quella risposta. Cominciò a fissarla più intensamente, con una certa bramosia nell’espressione. La sua, tuttavia, non era malizia, ma sete di sapere. Come se, anche lui, cercasse delle risposte.
“Un angelo? Mi pare strano che un’entità celeste venga raffigurata con quell’espressione così sofferente”.
“In realtà, Frà Gilberto, questo disegno non è frutto della mia fantasia, ma è la riproduzione di una scultura, un angelo, appunto, che si trova sulla cuspide della cattedrale. Faccio parte della squadra di lavoro che ha svolto i restauri della facciata. Pochi giorni fa siamo arrivati in cima, e mi sono imbattuta in questa misteriosa figura …”.
“Continui, la prego …”.
Micol ebbe la netta sensazione che la sua narrazione stesse per aggiungere un tassello a quanto era già a conoscenza del religioso. Probabilmente, egli sapeva cose che lei ignorava e che, a questo punto della conversazione, bramava di conoscere.
“… La statua dell’angelo era ricoperta dalla sporcizia, da capo a piedi. Trovandosi nella parte più esposta agli agenti atmosferici e all’inquinamento, era, naturalmente, molto sporca. Così, ho provveduto a ripulirla. Solo quando la crosta nera che lo ricopriva è stata completamente eliminata, ho potuto osservare direttamente quel volto. E’ stato allora che mi si è rivelato in tutta la sua espressione di angoscia e dolore. Ho pensato che si trattasse di una cosa insolita. Non rientra nei canoni della statuaria medievale, della fissità ascetica tipica dello stile romanico …”.
“Si è data una spiegazione? - la incalzò Gilberto. – Sì, insomma, come spiega, da studiosa, un’anomalia di quel tipo?”.
“Ad essere sincera, non lo so. Per questo ero qui, oggi. Volevo fare delle ricerche che mi aiutassero a capire. Cercavo qualche testimonianza dal passato che mi illuminasse su una scelta tanto estrema, da parte dello scultore. Voglio dire: un angelo posto sulla cuspide di una cattedrale metropolitana ha una funzione “protettiva” nei confronti degli abitanti che, nella chiesa, trovano un punto di riferimento spirituale e non solo. Per questo, deve esprimere una solidità, una fermezza ed una divinità rassicuranti, non certo sofferenza … Se non si trattasse di una statua, pura pietra, insomma, a me darebbe l’impressione che quell’angelo non voglia proprio stare lì dove si trova …”.
“Poveretto … e questo da quasi mille anni ...”.
L’esternazione di frate Gilberto parve a Micol un po’ fuori luogo. Le pareva quasi che il religioso la compatisse, che non credesse alle sue parole. Si trattenne, allora, da fare altre considerazioni e fissò il giovane con disappunto. Lui si accorse della sua espressione accigliata e contrariata e aggiustò subito il tiro, accompagnando le sue parole con il solito sorriso rassicurante.
“Mi dispiace, Micol, non avevo l’intenzione di offenderti. – le disse, passando dal “lei” al “tu” - La mia voleva solo essere empatia, con l’angelo, insomma. Le tue considerazioni sono molto acute. Sono altrettanto sicuro che quell’entità stia soffrendo … ed è per questo che chiede l’aiuto di qualcuno …”.
Micol fu come folgorata dalle ultime parole di Gilberto.
“In che senso chiede aiuto?”.
“E’ come un grido disperato, che si insinua nella mente, e poi pervade tutto il tuo essere. Una volta che ti ha coinvolto, può condizionare tutta la tua esistenza, se non sei così forte da ignorarlo, rischi addirittura di impazzire …”.
In quel momento, Micol sentì una scossa attraversarle il corpo. Si fece pallida, mentre il suo cuore aveva preso a battere all’impazzata. Gilberto lo capì nello stesso istante in cui i loro sguardi si incrociarono.
“L’hai sentito anche tu, vero? Hai sentito il grido dell’angelo ...”.
****
Micol fissò Gilberto dritto negli occhi, trasmettendogli, nello stesso tempo, paura, tensione, ma anche condivisione. Non era passata nemmeno un’ora da quando aveva conosciuto il giovane frate, ma, in quel momento, le sembrò di conoscerlo da tantissimo tempo. Quasi che lui fosse lì per sciogliere i suoi dubbi e le sue paure. Sentiva di potersi fidare. Gilberto emanava un’aurea quasi paterna di fiducia e sicurezza. Micol gli raccontò di quello che le era parso di sentire, appena si era trovata faccia a faccia con l’angelo di pietra e di come quel grido la stesse ossessionando anche in sogno, rapendo i suoi pensieri, fino a diventare una costante nella sua mente.
“E’ così anche per te, non è vero?”. Gli domandò, alla fine del suo racconto travagliato.
Si aspettava di ascoltare la versione di Gilberto, per confrontare le sensazioni, le impressioni. Voleva sentirsi narrare del suo incontro con l’angelo, della voce ma, soprattutto, cercava disperatamente una soluzione che la liberasse da quella che, ormai, stava davvero diventando una vera ossessione.
“In realtà, Micol, io non ho mai sentito il grido dell’angelo. Ma c’è una persona che conosco che è quasi impazzita nel tentativo di rispondere a quella richiesta di aiuto. Ha trascorso metà della sua vita a cercare una risposta. Si tratta di un mio superiore, un frate come me, che, in gioventù, ebbe l’occasione, durante un precedente intervento di manutenzione e pulizia della cattedrale, di salire sui ponteggi e trovarsi faccia a faccia con la statua. Anche lui sentì chiaramente, dentro di sé, l’invocazione dell’angelo. Non solo in quel momento, ma anche nei giorni, nei mesi e negli anni successivi. Nel frattempo, aveva cominciato a fare delle ricerche, proprio come stai facendo tu ora, per capire se il suo era soltanto uno scherzo della mente o c’era qualcosa di soprannaturale in tutto quello che gli stava accadendo. Quando lo conobbi, ero solo un novizio, assetato di sapere e piuttosto “secchione”. La sua affannosa ricerca mi affascinò subito. Frate Mariano, così si chiama questo mio confratello, era stato in grado di raccogliere un sacco di materiale interessante, spulciando tra gli archivi dei conventi, delle chiese, spingendosi anche all’estero e alla Biblioteca Vaticana. Non si fermava davanti a nulla. Non c’era permesso troppo difficile da ottenere o veto da parte di vescovi e cardinali ad impedirgli di proseguire …”.
“E poi? - chiese, incuriosita, Micol – come finì? Frate Mariano riuscì a darsi una spiegazione? A trovare il modo di aiutare l’angelo?”.
“No, non ci riuscì. Certo, aveva una sua teoria, aveva anche formulato delle ipotesi, ma non arrivò mai a capire come liberare l’angelo, né la sua mente da quella ossessione”. Frate Gilberto fece una lunga pausa, poi sospirò.
“Che cosa ne è stato di frate Mariano?”.
“Vorresti conoscerlo?”. Le domandò, a bruciapelo, Gilberto.
Micol annuì. Ormai la sua curiosità era stata sollecitata fino ad un punto di non ritorno. Sentiva una strana tensione premerle dentro, come se qualcosa la spingesse verso una direzione a lei ignota. Decise di assecondare il destino o, forse, quella forza soprannaturale che stava agendo attraverso di lei, alla quale non riusciva a dare un nome, né una raffigurazione, se non quella della misteriosa statua dell’angelo della cattedrale.
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Il sabato successivo, Micol aveva appuntamento con Gilberto. Aveva camminato lungo la via Emilia, fino a piazzale Sant’Agostino; spesso, i suoi pensieri si erano persi davanti alle vetrine illuminate e nei visi allegri e sereni dei giovani che incontrava per strada. Sorrise al pensiero di recarsi all’appuntamento con un frate. Certo che di cose strane gliene stavano capitando! E tutte concentrate in uno stesso periodo … Scacciò dalla mente un pensiero malizioso. Gilberto non era affatto un brutto uomo. Alto, longilineo, un viso dolce, quasi da fanciullo, al centro del quale spiccava un paio di occhi scuri, intensi ed intelligenti. Micol pensò a quell’accenno di barba ed alle labbra incurvate in quel suo sorriso disarmante ed arrossì. In mezzo al loro essere uomo e donna c’era quel saio, più insormontabile ed efficace di qualsiasi barriera.
Quando Gilberto arrivò, guidando una Cinquecento azzurra vecchio modello, Micol aveva già scacciato quei pensieri bizzarri. Non appena aprì la portiera per accomodarsi sul sedile del passeggero, la giovane scorse quel sorriso rassicurante, che ormai le era diventato così familiare. In quel momento, pensò che i motivi che avevano indotto Gilberto, così giovane e non privo di fascino, ad indossare un saio e consacrarsi a Dio, riguardavano solo lui. Di certo, però, l’Onnipotente non avrebbe potuto impedire il nascere di una bella amicizia.
“Allora, fratello, dove ci stiamo dirigendo?”.
Lui aggrottò un po’ le sopracciglia. “Potresti non chiamarmi “fratello”? Almeno tu. Lo fanno tutti in convento e, qualche volta, gradirei provare l’ebbrezza della normalità”. Accompagnò quel finto risentimento con un sorriso più aperto del solito. La bocca, leggermente più grande del normale, si allargò fino a togliere spazio agli occhi, che divennero stretti come due fessure.
“Come vuoi. Se preferisci, posso chiamarti, Gilby, oppure Berto ...”. Poi si mise a ridere, come non faceva da tempo. La risata di lui si unì alla sua.
Arrivarono nei pressi di una grande casa dai muri bianchi e dagli scuri verdi. La Cinquecento azzurra si fermò accanto ad un cancello di ferro battuto. Gilberto abbassò il finestrino e si sporse per suonare il campanello. Poco dopo, dall’interno venne azionata l’apertura automatica ed il cancello cominciò lentamente a muoversi per farli entrare nel giardino.
“Questa casa – le spiegò il giovane frate - appartiene al nostro Ordine ed accoglie i confratelli ormai anziani o con gravi problemi di salute. Qui finiscono i loro giorni, assistiti da volontari o da personale specializzato, che si prende cura di loro. A volte, chi ha parenti riceve la loro visita. Ma, del resto, la giornata è scandita dalla preghiera e dal lento incedere del tempo residuo.
Una suora aprì loro la porta e li fece accomodare.
“Buongiorno, sorella, sono venuto a fare visita a frà Mariano. Questa è la dottoressa Palmieri, una sua pronipote che vive a Roma e che ha approfittato di una trasferta di lavoro per fare visita al vecchio zio”.
La suora si dipinse un sorriso gioviale sul viso rubizzo, acceso dalla fatica delle mansioni di cura della casa e dei suoi ospiti.
“Meno male che qualcuno, ogni tanto, si ricorda dei nostri confratelli. Prego, frà Gilberto, non c’è bisogno che le indichi la strada”.
Gilberto trascinò con sé Micol lungo un arioso corridoio, illuminato da una grande finestra che si apriva sulla parete opposta.
“Ma non vi hanno spiegato che chi dice le bugie va all’inferno?!”. Sussurrò lei alle spalle di quello che, ormai, considerava un amico.
“Sì, - le rispose Gilberto, colto da una frenesia quasi infantile – ma ci hanno anche insegnato che se poi ti penti e ti confessi, con un po’ di penitenza Nostro Signore ci perdona. E poi, dai, mica era una bugia così grave”. Si fermò e si girò di scatto verso di lei. I loro visi quasi si toccarono. Lui le piantò in faccia quegli imbarazzanti ed intensi occhi neri, nei quali splendeva la luce dell’intelligenza. “Oppure preferivi spiegare a Suor Giovanna che sei qui per visitare un frate pazzo e visionario perché, anche tu, cominci a sentire voci mistiche che ti turbano il sonno?!”.
Micol si sentì avvampare, ma decise di non controbattere. Intanto, erano arrivati di fronte ad una delle porte bianche che, in fila, erano distribuite lungo tutto il corridoio. Gilberto bussò, poi, senza attendere risposta, aprì piano la porta numero 27.
La camera era piccola, ma ordinata. Una finestra aperta la inondava di sole. Micol poté scorgere un letto, un comodino, un armadio ed una scrivania, sovrastata da una libreria e da un crocifisso. Accanto alla finestra, con lo sguardo vuoto, perso in un orizzonte lontano, seduto su una sedia a rotelle, c’era un uomo molto anziano. Aveva i capelli e la barba di un bianco argenteo, che incorniciavano un viso rugoso. Le mani, dal colore e dall’aspetto della cartapecora, stavano congiunte nel grembo del vecchio frate, coperto da un plaid di lana dai colori vivaci. “Frate Mariano, sono Gil. Sono venuto a trovarti e ti ho portato qualcuno che desidera conoscerti”. Il vecchio frate non sembrò nemmeno accorgersi di un’altra presenza umana nella stanza e continuò a guardare un punto impreciso del giardino, al di fuori della finestra.
Per nulla scoraggiato, come se quella fosse una condizione a lui nota, Gilberto proseguì nella conversazione. “Lei è Micol ed è una restauratrice. Sta curando i malanni della nostra millenaria cattedrale. Poche settimane fa, è arrivata fin sulla cuspide e si è trovata faccia a faccia con il nostro amico alato. Lo ha ben ripulito e lui, per riconoscenza, ha cominciato a turbare il sonno anche a lei con le sue richieste di libertà …”.
All’improvviso, frate Mariano sembrò risvegliarsi dal suo stato di torpore e, con un gesto rapido e preciso, fece ruotare la sedia a rotelle in direzione della giovane. Micol fu quasi spaventata. L’anziano religioso la stava fissando con uno sguardo velato.
“Non può vederti – le sussurrò Gilberto - frate Mariano è cieco. Ma può sentirti molto bene”.
“Piacere di conoscerla, fratello – disse Micol, schiarendosi la voce. – Frà Gilberto mi ha parlato molto di voi …”.
Seguì una pausa di un silenzio irreale. Il vecchio frate, con un gesto uguale e contrario a quello che lo aveva portato a squadrare Micol con la sua espressione antica, tornò a fissare il mondo al di là della finestra. Poi, con una voce flebile, quasi un sospiro, si rivolse alla ragazza.
“Così, l’angelo ti ha chiesto aiuto. E tu ti stai domandando se quello che hai sentito e che, probabilmente, ancora senti, sia reale, oppure solo un’ossessione della tua mente … Ragazza mia, io ho speso quasi tutta la mia vita per trovare una risposta al tuo stesso quesito e, come vedi, ora sono qua. Hanno detto che sono impazzito, per colpa di quell’angelo. Ma Gilberto sa che non è così, vero Gil?. La mano si allungò verso il giovane confratello, che la strinse nella sua, con affetto filiale.
“Io, ormai, sono pronto per tornare alla Casa del Padre, ma voglio condividere qualche pensiero con te. Sento che sei una brava ragazza, Micol, e che non ti fermerai nella ricerca della verità, anche se essa potrà riservarti qualche sorpresa, di fronte alla quale la tua razionalità, forse, vacillerà”.
Poi, Gilberto si intromise nella conversazione, quasi per sollevare frate Mariano dalla fatica delle parole. “Mariano ha trascorso metà della sua vita a fare ricerche che, in qualche modo, avessero a che fare con l’angelo. Il suo fu un lavoro letteralmente da certosino. Con fatica, riuscì a trovare qualche traccia, spulciando negli archivi delle parrocchie, nei monasteri e nei documenti non ufficiali della Chiesa, di religiosi e laici che, nel corso dei secoli, addirittura dai tempi della costruzione della cattedrale stessa, furono influenzati, in qualche modo, dalla voce dell’angelo. Pare che anche la Gran Contessa Matilde di Canossa, regina d’Italia, sentì il richiamo celeste, ma non ci è dato sapere come reagì … Di sicuro, qualcosa di quell’esperienza la influenzò, vista la vita morigerata e le amicizie papali che coltivò, nel corso della sua lunga esistenza. Qualcun altro fu meno fortunato. Alcuni impazzirono, altri cominciarono a straparlare e furono incarcerati e condannati come eretici, altri ancora subirono esorcismi estremi, che li portarono alla morte, di altri, infine, probabilmente, non si saprà mai nulla, perché sono stati così abili da portare con sé nella tomba il loro segreto”.
“Quindi - intervenne Micol – dalle ricerche di frate Mariano sappiamo che, nei secoli, altre persone, oltre a lui e a me, hanno sentito il grido di aiuto dell’angelo. Ma nessuno, a quanto pare, è ancora riuscito a soddisfare la richiesta. Se, da un lato, mi consola sapere che non sto diventando matta e mi fa piacere condividere quello che sto vivendo con frate Mariano, e con chissà quanti altri nei secoli, quello che non riesco a capire è perché l’angelo chiede aiuto. Da che cosa desidera essere liberato? E, soprattutto, in che modo possiamo aiutarlo? Credo che, se riuscissimo a trovare una risposta a tutte queste domande, potremo cercare di venire a capo di questo mistero”.
“Oh, una risposta ad almeno una parte dei tuoi quesiti c’è, ragazza mia – disse frate Mariano, con una voce sempre più flebile – Credi, forse, che io mi sia fermato alla contingenza? Dopo avere raccolto tutta la documentazione, relativa ai casi di persone che avevano vissuto il mio stesso dramma, mi sono spinto oltre, per tentare di arrivare alla fonte del problema. Come mai un angelo avrebbe dovuto chiedere aiuto a comuni mortali per essere liberato? E da cosa, poi? Anche se non è stato facile, durante la mia spasmodica ricerca, mi sono spinto fino in Francia, in uno dei monasteri del nostro ordine, fornito di una ricca ed antica biblioteca. Lì mi sono imbattuto in un vecchio codice, probabilmente un esercizio di scrittura di un giovane amanuense. Vi erano riportate alcune favole e leggende. Una di queste, appunto, narrava di come, tanto tempo fa, negli oscuri secoli del Medioevo, quando una cattedrale veniva costruita, le veniva simbolicamente assegnato un custode, una figura di nume tutelare che la proteggesse dalla furia delle guerre, degli uomini e del tempo. In questo modo, la cattedrale diventava, non solo un simbolo di potenza e prestigio per chi l’aveva costruita, ma anche un rifugio ed un punto di riferimento per la popolazione. Non a caso, in caso di guerra o carestia, gli abitanti di una città cercavano riparo nella chiesa principale e chi domandava protezione, entrando in essa, faceva appello al diritto di asilo e diventava intoccabile, almeno finché si sarebbe trovato al riparo delle sue mura”.
“Sì, questo ce lo insegna la storia, ma che cosa ha a che fare con l’angelo?”.
“Dalla storia, si passa alla leggenda. E’ vero che la statuaria, non solo nell’arte cristiana, ma anche di altre religioni, ci insegna che personaggi dalle fattezze mostruose o sacre racchiudevano in sé una simbologia di protezione. Tuttavia, secondo questa leggenda, ci fu chi pensò che qualche pietra lavorata e la credenza popolare non servissero davvero per proteggere la cattedrale dai capricci del tempo e del fato. Così, alcuni iniziati ad un culto misterico, probabilmente di derivazione mitraica, anche se non possiamo esserne sicuri, trovarono il modo di costringere un’essenza celeste a prendere dimora in una pietra, al fine di allontanare, con la sua potenza e presenza benefica, ogni influsso maligno, di origine umana o spirituale”.
“Secondo le ricerche di frate Mariano – continuò Gilberto – questa setta di alchimisti, maghi e sacerdoti, che raccoglieva iniziati in qualsiasi livello della scala sociale, divenne, nei secoli, molto potente; al punto che, si sospetta, anche oggi potremmo trovare degli affiliati nascosti in giro per il mondo. Si diceva che gli iniziati a questi culti misterici, soprattutto coloro che raggiungevano i livelli più alti di illuminazione, avessero davvero dei poteri soprannaturali e che potessero evocare gli spiriti, di qualsiasi grado o natura. Il principio è quello della Heka, la magia come la intendevano gli antichi egizi, cioè incanalare ed impiegare l’energia della natura e degli esseri soprannaturali, secondo i propri desideri. Con le buone o con le cattive”.
Micol ascoltava quella storia con incredulità, ma ne rimase, comunque, affascinata. In fondo, nemmeno in quello che le stava accadendo c’era molto di razionale. Perché, allora, la spiegazione a tutto avrebbe dovuto avere un’origine diversa?.
“Quindi - disse – secondo questa teoria, all’epoca in cui la cattedrale fu costruita, i committenti - o chi per loro - chiesero l’intervento di qualcuno appartenente a questa setta misterica, affinché assicurasse la protezione alla chiesa nei secoli, imprigionando un angelo all’interno di una statua!?”.
“Ciò che dici è possibile. Ed è la stessa conclusione a cui siamo giunti io e frate Mariano. Tuttavia, manca un tassello, che ci consentirebbe di venire a capo di tutta la questione. Come liberare l’angelo?”.
“Posso solo supporre – sussurrò l’anziano religioso – che la soluzione la posseggano solo gli iniziati. Dei loro culti, non c’è traccia, né testimonianza scritta. Se mai qualche loro erede stesse operando in questo secolo, ci sarebbe davvero difficile scoprire chi è e dove si trova. E, di sicuro, non sarebbe disposto a condividere con noi i suoi segreti. Soprattutto se, tra i suoi compiti, c’è quello di preservare lo stato delle cose e, tra queste, mantenere l’angelo al suo posto”.
“Nel frattempo – disse, scoraggiata, Micol - come posso liberarmi dall’ossessione di quell’invocazione di aiuto?”.
“Cerca di tenere la mente impegnata – le rispose, dolcemente, Gilberto – Fai tante cose, vedi gente, concentrati fino a sfinirti, per sprofondare esausta in un sonno pesante e senza sogni. Pensa a lui il meno possibile. Tra qualche giorno, i lavori di restauro della facciata del duomo finiranno e tu sarai sicuramente assegnata ad un altro incarico. Probabilmente, dovrai cambiare città. Lascia qui le tue ossessioni e cerca di dimenticare l’angelo”.
Micol annuì, ma rimase pensierosa per tutto il tragitto di ritorno.
Anche Gilberto aveva perso la sua consueta loquacità. Arrivati alle porte del centro storico, lui la lasciò nel punto stesso, in cui l’aveva raccolta un paio di ore prima.
Scendendo dall’auto, lei lo salutò, conservando sempre la mente altrove. Ad un tratto, sentì la mano di lui sulla sua. Si voltò e si trovò di fronte quello sguardo, in grado di confonderla ed imbarazzarla, soprattutto quando, scendendo più giù, si imbatteva inesorabilmente nella tela ruvida del saio.
“Michi, chiamami, per qualsiasi cosa. Se hai dei dubbi, se ti senti sola, se hai bisogno di parlare con qualcuno o di confidarti con … un padre spirituale”. Disse quest’ultima frase ed abbassò gli occhi, sorridendo imbarazzato. Dopodiché, le mise in mano un biglietto con scritto il suo numero di cellulare. “Sono un frate, ma non disdegno la tecnologia …”.
Le sorrise e ripartì. Micol si mise in tasca il biglietto e contraccambiò il saluto con un cenno della mano.
****
Quella notte, l’ossessione dell’angelo ritornò, più violenta che mai. Probabilmente, gli avvenimenti di quella giornata e l’incontro con frate Mariano erano rimasti impressi nella mente e nel cuore di Micol. Nel sogno, lei vagava sotto ad una pioggia torrenziale, in un luogo sconosciuto. Era guidata da una voce, un grido di disperazione: “Liberami! Ti prego, aiutami!”. Poi, il volto sgraziato dell’angelo le riempiva il campo visivo ed invadeva prepotentemente tutto il suo essere. Micol si svegliò di soprassalto, tremante e sudata. Allungò la mano sul comodino, fino ad afferrare il bicchiere d’acqua, che bevve tutto d’un fiato. Si guardò intorno. La stanza era silenziosa e deserta. In quell’istante, desiderò ardentemente che Gilberto fosse lì con lei, che la stringesse a sé per consolarla ed ascoltare le sue angosce. Fu maledettamente tentata di andare a cercare il biglietto con il suo numero di telefono e di comporlo. Ma che cosa gli avrebbe detto? Erano le tre del mattino e lui, probabilmente, stava dormendo nella sua stanza. Lo immaginò recitare le preghiere e partecipare alla messa serale. Un mondo totalmente diverso dal suo e, per certi vesti, incomprensibile e misterioso ai suoi occhi.
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Il giorno dopo era domenica. Micol decise di seguire il consiglio di Gil e di tenere occupata la mente. Si concesse un giro nel centro di Modena. Lo aveva fatto decine di volte, in quegli ultimi due anni, ma sempre di fretta o con la testa affollata di pensieri. Gli incubi di quella notte l’avevano lasciata sufficientemente esausta da desiderare di svagare la propria mente. Quindi, non avrebbe gettato occhiate distratte alle vetrine e tanto meno snobbato gli antichi palazzi borghesi di Canalgrande. Avrebbe apprezzato Piazza Grande ed il maestoso Palazzo Ducale, soffermandosi sui particolari. In quel mattino di autunno inoltrato, l’aria era frizzante e quasi allegra. Questa, almeno, era la sensazione che provò Micol appena mise il naso fuori di casa. Nel cielo, il sole splendeva ed il cielo era terso. Giunta in piazza Matteotti, notò la presenza di alcune bancarelle di ambulanti. Adorava quell’atmosfera prenatalizia. Aveva l’impressione che, ogni anno, i preparativi per il Natale cominciassero sempre prima, forse per ragioni di marketing. Tuttavia, il risultato le piaceva, se non altro perché le musiche e le luci dei festoni avevano su di lei un effetto rilassante. Il suo sguardo spaziò tra le miriadi di oggetti colorati, finché la sua attenzione non fu attirata da una bancarella che vendeva minerali. L’avevano sempre affascinata. Grazie al lavoro che faceva, ne aveva spesso studiato le proprietà, ma una cosa erano le sterili parole scritte fitte sui volumi, un’altra maneggiare le pietre luccicanti e coloratissime. Al centro del banchetto, c’era una grande ametista viola. Il negoziante stava spiegando ad una mamma ed ai suoi due bambini come questa pietra, di rara bellezza, sia difficile da trovare, poiché racchiusa da un comune sasso grigio. L’uomo, un signore un po’ soprappeso e con due enormi baffi grigi, che gli regalavano un’aria gioviale, aveva tra le mani un martelletto e simulava il rinvenimento della superba ametista, che faceva bella mostra di sé sul banchetto dell’ambulante. Quel gesto folgorò Micol. La pietra anonima che imprigiona dentro di sé la sfolgorante bellezza del minerale. La giovane si fermò ad osservare i lucidi cristalli violacei, che riflettevano la luce secondo mille sfaccettature, dando vita ad un caleidoscopio di sfumature diverse.
Forse, la soluzione al mistero era molto più semplice, di quanto Gilberto e frate Mariano avessero ipotizzato. Con un po’ di fortuna, non sarebbe stato necessario andare alla ricerca di qualche sconosciuto iniziato di una setta estinta. Una strana euforia si impossessò di lei. Possibile che nessuno di coloro che, nel corso dei secoli, avevano sentito il grido di aiuto dell’angelo ci avesse mai pensato? Tuttavia, quando la razionalità prese il posto dell’emozione, Micol cominciò a valutare anche le difficoltà che, di sicuro, la accomunavano ai suoi predecessori. Per loro non era stato certo facile accedere all’angelo, un po’ per la sua posizione, un po’ per il timore delle conseguenze di infrangere una scultura sacra e di sicuro valore artistico. Adesso che ci pensava bene, non sarebbe stato facile, nemmeno per lei, distruggere un capolavoro dell’arte romanica, senza pagarne le conseguenze. La sua vita professionale ne avrebbe irrimediabilmente risentito; probabilmente, la sua carriera di restauratrice sarebbe finita. I dubbi la assalirono. Quella passeggiata, che avrebbe dovuto liberarle la mente dal pensiero dell’angelo, alla fine, come un dedalo crudele, l’aveva condotta al punto di partenza.
Quel pomeriggio, seguendo l’istinto più che la ragione, compose il numero di Gilberto.
“Gil, sono Micol …”.
“Michi, ciao, che piacere sentirti. A cosa devo il piacere di sentire la tua voce?”.
Il tono rassicurante dell’amico scacciò dalla sua mente ogni titubanza. In fondo, condividere con lui l’intuizione, ispiratale dall’ametista, era una buona scusa per vederlo.
“Senti, ho una cosa importante da dirti. Non è che potremo vederci …”.
“Certo! – le rispose lui, senza esitazioni – Devo finire alcune commissioni qui in centro … dammi un’ora e sono da te”.
“Perfetto. Allora ci vediamo tra un’ora davanti al duomo”.
Micol trascorse il tempo, che la separava dall’appuntamento con Gil, preparandosi con cura.
Voleva essere piacevole, ma senza esagerare. Aggiunse un filo di trucco allo scamiciato abbinato alla camicia chiara ed agli stivali dal tacco basso. Poi, mentre stava lanciando alla sua immagine riflessa un ultimo sguardo, qualcosa la trattenne.
“Che cosa diavolo stai facendo? – pensò tra sé. – Stai andando ad incontrare un frate e ti comporti come se dovessi uscire con il tuo fidanzato. E’ un religioso. Ha preso i voti. E’ sposato con Dio, non è così che si dice? Non potrà mai darti quello che vorresti, perché la sua vita è già consacrata a qualcuno di molto più importante di te”. Si sentì incredibilmente stupida. Con un cotone bagnato, si tolse dal viso il mascara e l’ombra di matita con la quale avrebbe voluto rendere più seducente il suo sguardo. Poi, si tolse anche lo scamiciato ed indossò un paio di pantaloni scuri.
“Così va meglio”- disse, alla fine - “Aiuta a riportare la mia fantasia a livelli accettabili ed i piedi dove devono stare, ben piantati per terra” .
Quando lei arrivò, Gilberto era già sotto i ponteggi. Questa volta, non indossava il saio, ma un piumino nero ed una tuta da ginnastica. I pantaloni gli fasciavano le gambe affusolate e muscolose, da sportivo. Lei lo salutò e distolse subito lo sguardo dalla parte inferiore del suo corpo.
“Che cosa ne dici se ci prendiamo una cioccolata calda in quel bar laggiù? E’ tutto il pomeriggio che sono in giro e comincio a sentire un po’ il freddo”.
“Va bene, andiamo”.
Si sedettero ad un tavolo ed il barista arrivò subito per prendere le ordinazioni. Gilberto ordinò una cioccolata al cocco. “Mi fa impazzire da quando ero bambino …”. Disse, lanciandole un sorriso.
Micol optò per un the caldo con i biscotti. Sembravano proprio una coppia, seduti lì, da soli, nel bar. In più, non c’era nemmeno il saio a ricordare alla sua fantasia di non correre troppo.
“Allora?! – esordì lui – Di che cosa volevi parlarmi?”.
“Questa notte ho avuto un altro dei miei incubi. Mi sono svegliata madida di sudore e con la faccia straziata dell’angelo, marchiata a fuoco nel mio cervello. Così, per tentare di rilassarmi, questa mattina sono andata a fare un giro in centro. Nella piazza Matteotti ci sono alcune bancarelle. Una di queste vendeva minerali. Sono stata attratta da una grossa ametista, che occupava il posto d’onore al centro del banco. Il gestore stava spiegando a due bambini ed alla loro mamma com’è che vede la luce quel tipo di minerale. Insomma, una pietra comune all’esterno, ne nasconde una stupenda dentro di sé …”.
“Non capisco che cosa c’entro l’ametista con il nostro angelo …”.
“Quello che mi sto domandando, Gil, è se, per caso, per liberarlo dalla sua prigione, non basti ... spaccare la pietra e farlo uscire!”.
“Michi, sei pazza!? Non avrai mica intenzione di aprire come un cocco una preziosa e millenaria scultura romanica?! Come potresti giustificare il tuo gesto con il tuo datore di lavoro, con la Soprintendenza? Ti rendi conto delle conseguenze? La cattedrale, ed ogni suo componente, è Patrimonio dell’Umanità. Ti immagini l’Unesco?”.
“Lo so, è un’idea folle. Possibile che nessuno ci abbia mai pensato?”.
“A dire la verità, qualcuno c’è stato … Dal materiale raccolto da frate Mariano risulta che, alla metà del secolo scorso, un parroco di campagna tentò di salire fino alla cuspide armato di una roncola, con l’intenzione di distruggere la statua. Non ci arrivò mai, perché, nella sua sfortunata scalata, cadde e si sfracellò al suolo. Gli scritti del tempo riportano che il monsignore, tormentato da incubi notturni, probabilmente ispirati dal demonio, era impazzito”.
“Quindi, la mia non è un’idea poi così sbagliata …”.
“Senti, perché non cerchi di abbandonare questa ossessione. Lo so che non è facile. Ma devi provarci. Il rischio per la tua salute è veramente molto alto. Tutti coloro che hanno avuto a che fare con quella statua, hanno avuto un’esistenza travagliata. L’angelo li ha condizionati, fino alle estreme conseguenze. Non voglio che succeda qualcosa di brutto anche a te …”.
Gilberto allungò la mano fino a sfiorare quella di lei, ancora stretta al manico della tazza. Micol sussultò, ma non la ritrasse. Dopotutto, era un gesto di amicizia e di vicinanza.
Quando uscirono dal locale, la pioggia aveva cominciato a scendere fitta. Gilberto si tolse la giacca e la pose sopra il capo di entrambi. Micol non si era mai sentita così vicino a lui. Il giovane la scortò fin sotto casa. Lei lo ringraziò per il pomeriggio trascorso insieme. “Non c’è di che”. Le rispose lui, con gli occhi scuri che gli brillavano e le gocce di pioggia che gli colavano lungo il viso. Poi, le diede un buffetto, che a lei parve più simile ad una carezza. “Mi raccomando, Michi, non fare idiozie …”.
****
Micol aveva imparato a temere la notte. Viveva con angoscia l’ora di andare a dormire, per paura di quegli incubi ricorrenti e monotematici. Molte volte, aveva provato a stare sveglia, ma poi, il sonno aveva preso il sopravvento, solo per un paio d’ore, il tempo necessario a farla riposare un po’, per poi restituirla alla realtà, dopo averla ossessionata con l’immagine del volto dell’angelo e la sua angosciosa richiesta di aiuto.
Quella notte non fu diversa dalle altre. Anzi, fu molto peggio. Le invocazioni di aiuto dell’angelo si fecero più pressanti e ripetute, il suo volto un’immagine permanente nei suoi pensieri. Si impadronì delle sue paure, delle sue emozioni, della sua anima. La tormentò con la sua drammatica e grottesca richiesta di aiuto. Poi, ad un tratto, l’ametista …
Micol si alzò di scatto dal letto. Questa volta, non cercò conforto nelle rassicuranti mura delle sua stanza e nemmeno nel bicchiere d’acqua che, come ogni notte, le faceva compagnia sul comodino. Si infilò la giacca e corse fuori di casa, lasciando tutto così come era.
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Gilberto si svegliò di soprassalto. Non un sogno, ma una sensazione che gli trasmetteva l’urgenza di un immediato pericolo. Si alzò dal letto, contemplò i muri scarni della sua stanza e l’arredamento essenziale. Il crocifisso era al suo posto, rassicurante come sempre. Ma lui era inquieto. Stava per succedere qualcosa, lo sentiva forte e chiaro, in tutto il suo essere. Assecondò il suo istinto ed afferrò il cellulare. Compose il numero di Micol e attese. Gli squilli a vuoto si susseguivano, senza che, dall’altra parte, ci fosse una risposta. Alla fine, la comunicazione cadde. Forse, la sua amica dormiva. O forse no. Gilberto se la immaginò sola, in quella serata da lupi, vagare per le strette vie del centro storico. Senza esitare, indossò il giaccone e si precipitò fuori dalla stanza, fuori dal convento, lasciandosi alle spalle tutto quanto lo separava da lei.
Micol, nel frattempo, stava correndo a perdifiato sotto il Portico del Collegio. In pochi minuti, si trovò in Piazza Grande. A quell’ora, la piazza era deserta. La pioggia continuava a cadere copiosa, riflettendo le luci dei lampioni e delle luminarie prenatalizie.
Arrivò davanti alla facciata del Duomo, svoltò in via Lanfranco, dove si trovava l’accesso ai ponteggi, ed estrasse la chiave. Entrò nel container e cercò qualcosa che le potesse essere d’ausilio in quello che aveva intenzione di fare. Trovò un martello. Se lo mise in tasca e cominciò a salire, correndo senza sosta di ponteggio in ponteggio, sempre più in alto, fino ad arrivare alla cuspide. La pioggia ed il vento rendevano il legno più viscido e scivoloso. Le gocce rimanevano intrappolate nelle reti di protezione. Micol arrivò al cospetto dell’angelo, i capelli zuppi le aderivano al volto.
“E’ questo che vuoi? – gli urlò con disperazione, quasi stesse parlando con una persona viva e non con una statua di marmo. – Devo fare questo, affinché tu sia libero? E se lo faccio, poi mi lascerai in pace? Ti prego, dimmi che cosa devo fare?”.
In quell’istante, qualcosa si impadronì dei suoi pensieri. Era una voce forte ed implorante al tempo stesso. “Fallo, ti prego, liberami da questa prigione!”.
Micol, presa dalla disperazione, cominciò a colpire il capo della statua più forte che poté. Una martellata dietro l’altra, finché non riuscì a scalfire gli occhi disperati e la bocca immortalata in quell’espressione di dolore eterno. Colpì più forte, finché la testa della statua non si sbriciolò con un grande fragore. Dal corpo decapitato dell’angelo si liberò una luce intensa e soprannaturale. Micol, abbagliata da quel lampo improvviso, barcollò e cadde sul ponteggio sottostante.
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Gilberto aveva corso a perdifiato, con la sua bicicletta, per raggiungere la cattedrale. Era quasi arrivato, quando un lampo improvviso aveva illuminato a giorno il cielo notturno. In quel momento, anche la pioggia, quasi timorosa, aveva smesso di cadere. Si mise una mano davanti agli occhi, per farsi ombra, come in una giornata d’estate. Capì che la fonte di quella luce era la cuspide della cattedrale. Abbandonò la bicicletta e raggiunse l’ingresso del cantiere. La porta era aperta. Immaginò che Micol doveva averlo preceduto. Con il cuore in gola, cominciò a correre lungo i ponteggi.
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Micol si sentì avvolgere da un calore sovrumano. Una sensazione di benessere le attraversò ogni cellula del corpo. Avrebbe voluto stare così in eterno, perdersi in quel mare di tranquillità, meta meritata, dopo settimane di angoscia. Si obbligò ad aprire gli occhi. La luce era lì, di fronte a lei. Non aveva una forma e nemmeno un colore preciso. Semplicemente, era la somma di tutte le forme e di tutte i colori. Si irradiava ovunque nel cielo e, nello stesso tempo, pulsava e splendeva solo per lei. La voce che l’aveva ossessionata, nell’ultimo mese, le stava parlando. Non erano proprio parole, ma pensieri, emozioni e sensazioni profuse direttamente alla sua essenza. “Ti ringrazio, fanciulla coraggiosa e dall’animo nobile. La tua determinazione mi ha salvato da mille anni di prigionia. Sei riuscita dove altri avevano fallito. Io te ne sarò sempre grato e ti proteggerò, da dove andrò. La mia essenza, ora, è libera di diffondersi e di raggiungere la gloria dell’Unico”. La fonte di luce parve brillare ancora di più, prima di compiere un ultimo guizzo e sparire per sempre.
Gilberto giunse trafelato in prossimità della cuspide.
“Micol! – urlò, scorgendo la sagoma scura dell’amica distesa a terra.
Si precipitò da lei, si inginocchiò e la prese tra le braccia. Le diede qualche schiaffo leggero sul volto, per farla rinvenire.
“Michi, sono Gil, rispondimi, su … apri gli occhi … maledizione”.
Piano piano, la ragazza mosse una mano, poi l’altra. La sua bocca emise un flebile lamento. Poi, i suoi occhi si aprirono e incontrarono quelli di lui.
“Gil, che ci fa qui?”.
“Tu, piuttosto, che cosa stavi facendo qui sopra, in una notte come questa?!”. La sua voce trasmetteva angoscia e preoccupazione.
“Avrebbe potuto succederti qualcosa di brutto, e tutto per colpa di quell’angelo maledetto”.
“Gil … l’ho liberato … ho liberato l’angelo dalla sua schiavitù. Ora, lui è libero, è tornato in cielo, o da dove era venuto. Mi ha ringraziato e mi ha detto che veglierà sempre su di me …”.
Gilberto notò il martello ai piedi dell’amica. Poi, allarmato, gettò un’occhiata alla statua, che li sovrastava entrambi. Micol vide l’espressione del suo viso esprimere una crescente meraviglia.
“Michi, guarda! Questo è un miracolo ...”.
Lei guardò nella sua stessa direzione. La statua dell’angelo era sempre lì. Tuttavia, non c’era traccia dei danni provocati dalle martellate. La testa era al suo posto, ma il volto non esprimeva più angoscia e disperazione. Ora, la statua diffondeva serenità ed una fissa eternità. Tra le mani, l’angelo stringeva un fiordaliso.
“Questo, di sicuro, è un regalo per te … - le disse, dolcemente, Gilberto.
Le mise un braccio attorno alla vita e l’aiutò ad alzarsi. Per un attimo, rimasero così, in silenzio, vicini l’uno all’altra, sopra di loro un cielo diventato improvvisamente fitto di stelle.
“Chissà che cosa starà facendo, ora, il nostro angelo …”.
“E chi lo sa, per lui mille anni non sono nulla, ma forse, si sarà perso qualche cosa … l’eternità, in fondo, è fatta di istanti”.
Poi, Gilberto la strinse a sé e le diede un bacio sulla fronte. Micol chiuse gli occhi e considerò quel gesto come un altro, piccolo, miracolo del “loro” angelo.
****
Ormai, tutti i ponteggi erano stati smontati ed i modenesi potevano, finalmente, ammirare la loro cattedrale, tornata al suo antico splendore. Micol partecipò alla cerimonia di inaugurazione con un po’ di nostalgia. Sapeva che quelli sarebbero stati gli ultimi momenti in quella che, per due anni, era stata la sua casa.
“Allora, il tuo lavoro è proprio finito? – le domandò Gilberto, accompagnandola alla stazione dei treni.
“Sì, pare di sì. Adesso mi aspettano due settimane di vacanza, che passerò a casa dei miei genitori. Ma ho già una nuova destinazione. Dovrò seguire un importante restauro a Roma. Questa volta si tratta di lavorare su affreschi molto delicati. Un lavoro per il quale sarò impegnata, con ogni probabilità, per altri due anni.
“Ti trasferirai là, quindi?”.
“Sì, non sono abituata a rimanere molto tempo in un posto. Il mio lavoro mi porta ad essere una vagabonda”.
Micol notò che, anche quel giorno, Gilberto non indossava il saio, ma un paio di jeans ed un maglione scuro. Da quando si erano incontrati la prima volta, lo aveva visto, sempre più spesso, indossare abiti “borghesi”, ma non gli aveva mai chiesto spiegazioni a riguardo. In fondo, Gilberto era giovane ed il suo ordine religioso non sembrava nemmeno troppo severo riguardo all’abbigliamento.
“Verrai a trovarmi a Roma? – gli domandò, sapendo benissimo che quelle sono le frasi di circostanza, che si dicono sempre come preludio agli addii.
“Se Dio lo vorrà … – le rispose lui, regalandole uno dei suoi intensi sorrisi.
Gilberto sarebbe stato il suo più grande rimpianto, lo sapeva, ma non poteva farci nulla. Le bastava saperlo sereno, così come lo era lei. Gli incubi notturni non erano più tornati ed era già elettrizzata al pensiero del nuovo incarico. Gli studi preparatori le avrebbero tenuta la mente occupata. Come si era liberata dall’angelo, si sarebbe allontanata sempre di più anche da quest’altra, dolcissima, ossessione.
Il treno arrivò e Gilberto l’aiutò a caricare le due pesanti trolley. Micol salì il primo gradino dell’Eurostar.
“Allora … ciao - le disse lui. Poi, d’istinto l’abbracciò forte e la strinse a sé. Micol chiuse gli occhi, come quella notte, al cospetto del cielo. Desiderava ardentemente provare, per una volta soltanto, l’emozione delle sue labbra appoggiate sulle sue. Quando quell’istante finì, i due ragazzi si fissarono per un istante eterno. Gilberto si avvicinò e le sfiorò la fronte con un bacio.
Quando il treno partì, portandosi via per sempre la magia di quell’attimo, lei sentiva ancora il battito del suo cuore.
Manuela Fiorini