17 luglio 2009

Il romanzo di Xomegap

Prima di interrompere i nostri post per la pausa estiva vogliamo lasciare i nostri affezionati lettori con una grossa novità. Siamo stati un po’ negligenti con il nostro blog negli ultimi tempi, lo sappiamo: lo abbiamo aggiornato poco e disordinatamente. Anzi a ben pensarci è un bel po’ di tempo che non lo curiamo molto, lo portiamo avanti un po’ alla stracca, quasi fosse sempre sul punto di chiudere i battenti. Non abbiamo mai voluto affrontare seriamente l’argomento ma è ora di farlo: Xomegap non sta morendo, tutt’altro se siamo stati poco presenti sul web è perché da quasi due anni a questa parte stiamo lavorando alla stesura di un vero e proprio romanzo collettivo. Non una raccolta di racconti, magari a tema, come abbiamo fatto con Mutazioni. Né come abbiamo fatto per gli e-book Hopelss dove ci siamo dati un luogo e un canovaccio e poi abbiamo proceduto più o meno in ordine sparso. Ciò che abbiamo tentato questa volta è un progetto estremamente più ambizioso, che comporta un livello di integrazione sconosciuto alle nostre precedenti esperienze. Un vero e proprio romanzo, in cui ciascuno di noi ha curato un personaggio, lo ha cresciuto, gli ha dato forma e spessore (sempre nella funzionalità della trama, naturalmente); in cui abbiamo stabilito una scaletta per i capitoli, discusso per giorni su cosa dovesse contenere ciascuno di essi e poi ci siamo incaricati di scriverli: io questi, tu quelli, tu quegli altri, ciascuno dalla prospettiva del proprio personaggio ma a formare un intero il più possibile omogeneo, in cui lo scrivere di ciascuno si è a poco a poco fuso al servizio delle esigenze del collettivo. E’ stato un esperimento ardito, che in alcuni momenti ci ha visto molto vicini a soccombere, e questo è anche il motivo per cui un po’ scaramanticamente non avevamo ancora voluto mettere nulla di nero su bianco riguardo a questo nostro progetto.
Ma ora il tempo di fare questo passo è giunto, lo stato di avanzamento dei lavori ha superato la velocità di fuga: il grezzo del testo è completo, abbiamo fatto un primo editing tutti insieme e ora io e Sara ci stiamo spietatamente dedicando ad un secondo di carattere principalmente logico. Poi ne seguirà un terzo, soprattutto formale, perché alla fine vogliamo che il nostro libro giri davvero come un orologio, dopodiché saremo pronti. Ad ottobre o novembre, presumibilmente, il testo sarà licenziato e ci metteremo in caccia di un editore.
Ma naturalmente non vi lasceremo fino ad allora senza notizie nostre e di questo nostro straordinario (sperabilmente…) progetto. A poco a poco cominceremo a raccontarvelo, i personaggi, la trama, la cartografia, forse qualche brano: un pezzetto per volta sperando di fare crescere dentro di voi l’attesa di leggerlo!
Per questo primo post sull’argomento, nel quale mi sono perso già fin troppo in chiacchiere, mi limiterò a dirvi le seguenti cose: si tratta di un romanzo fantasy, il primo di una trilogia che porterà il nome di “Finisterra”. Il titolo di questo primo capitolo sarà: “Le sorgenti del Dumrak”.
Detto questo vi lascio: ci risentiamo in settembre!

05 luglio 2009

ASPETTANDO IL CARNEVALE

Odio il fottutissimo carnevale. Lo odio con tutto me stesso. Odio la follia di quei giorni: l’ostentata felicità che porta. Odio quelli che si impegnano a organizzare la sfilata, che mirano alla perfezione. Non sopporto di veder sfilare i carri: brutte rappresentazioni di carta pesta della vita quotidiana. Paradossali feticci nati per esorcizzare il male della quotidianità. Odio i culoni starnazzanti delle ballerine. Odio tutti quei bastardi che si travestono. Quelli sono forse i peggiori. Non appena si coprono il viso perdono ogni inibizione. Esagerano facendo i matti che matti non sono. Se fossero matti saprebbero che è loro la colpa di ciò che avviene in quelle notti. Vedrebbero le ombre allungate sui muri dei vicoli. Sentirebbero i passi rapidi, malfermi, riecheggire in quelle sere di falso gaudio. Se fossero davvero folli, sarebbero savi e allora correrebbero ai ripari. Li stanerebbero mettendoli al rogo. Ma tutti questi uomini mascherati sono normali, e la normalità non ti permette di vedere oltre il tuo naso. Odio i miei amici che mi hanno trascinato all’ultimo carnevale di Viareggio a fare i coglioni per le strade. Odio Francesca, perché l’amo. Perché l’amore è bastardo quanto il carnevale. Perché l’amore mi ha fottuto. Ma la cosa che odio più di tutte è Burlamacco.
“Non sei un viareggino” mi dicevano, tutte le volte che esternavo il mio fastidio per quella maschera. Si fastidio, non odio: non a quel tempo.
Burlamacco ora è il mio incubo. Porto il suo dannato costume tutto il giorno, tutti i giorni. Il mio viso è ancora coperto di cerone bianco. Lo vorrei levare e tornare ad essere me stesso, ma ho troppa paura. Non ho altro cerone con me e per ora è l’unica cosa che mi sta tenendo in vita. Allora resto qui rannicchiato in un angolo. Rimango fermo nella speranza che non si accorgano di me. Stringo la spranga che ho preso nel vicolo. È fredda, ma è l’unica cosa che percepisco reale in questo luogo surreale. Qui è tutto buio, umido. È un luogo vecchio e malsano. Un posto sotto la città risparmiato dalla bonifica. A volte si avvicinano e mi annusano. Respiro piano, come loro, con un sibilo basso che odora di topo morto perché di quelli mi sono sfamato. Non ho partecipato ai loro banchetti.
Non ho toccato neanche un pezzo dei miei amici. Neppure quando me l’hanno gettato ai piedi. Sanno che non sono un Burlamacco come loro. Non ho il loro grosso naso rubizzo e venoso. Nemmeno le labbra rivoltate, alzate agli angoli quasi a scoprire gli zigomi.
Non ho nemmeno i loro occhi, arcuati, dalla pupilla piccola e scura come una capocchia di spillo. Mi osservano di sottecchi con sguardi felicemente torvi, in attesa che mi scopra. Giocano i bastardi. Giocano con la mia psiche. Mi vogliono cambiare…
E’ quasi un anno che sono qua sotto. Un anno dalla notte del fottuto carnevale.
Un anno intero che la mia mente si aggrappa a quella sera nel tentativo di strapparmi alle loro grinfie. La compagnia era tutta riunita. Una congrega di colombine, vampiri e pazzi sanguinolenti guidati da uno stramaledettamente triste Burlamacco. Gliel’avevo detto alla Francy .
“Io il Burlamacco non lo voglio fare. Mi sta sulle palle e non ci posso far niente”.
Poi mi frega come solo le donne sanno fare con quei ciglioni degli uomini. Promesse: sempre le stesse. E poi mi maledico per averle detto di si. In mezzo a quel casino l’ho persa quasi subito.
Poco contava strattonare Alex il vampiro o quella scostumata colombina di Patrizia che gli stava sempre appresso. La Francy se n’era andata e io mi incazzo preoccupato per dove fosse sparita. Spintono facendomi largo: una inutile formica sovrastata da giganti di cartapesta ghignanti. Quando la vedo, l’incazzo sale e la preoccupazione si dirada. Le corro incontro sbracciandomi e gridando.
La sua mano è tesa in avanti, stretta in un’altra mano. Il nanetto che la trascina è un fottuto Burlamacco come me.
Si stanno allontanando, dalla calca, dalla festa. Bastarda penso subito. Io mi metto questo dannato costume, solo per te, e tu fuggi via. Li raggiungo nel vicolo. Afferro la Francy. Lei non si volta, limitandosi a fermarsi. Ma il nano tira come un bue, trascinando entrambi. Decido che quel Burlamacco deforme ha passato il segno. Alloro lo colpisco con un calcio. L’ometto mi guarda e io non posso far altro che indietreggiare. Lo stomaco mi si chiude per l’olezzo che emana. Per quelle toppe scarlatte che ne compongono il costume, che toppe non sono. Il nano si è scarnificato: ampie parti di pelle bianca come il latte sono intervallate da scorticature che mettono a nudo il rosso acceso della carne ulcerata: il suo costume è così vivo da togliere il fiato.
Ho ancora la bocca impastata di vomito quando mi armo. Lui non reagisce, rimane fermo mentre la Frency, gli occhi vuoti, sembra imbambolata. Alzo il tubo di ferro sopra la testa.
Lo sto per calare sul quel cranio di carne, bislungo come il cappello del Burlamacco, quando Alex il vampiro e tutte le altre mascherine della compagnia si presentano alla festa.
“Cazzo Ste” gridano ghignanti “Potevi chiamarci al tuo party privato”
Il Burlamacco arretra mantenendo la presa sulla Frency. Sembra meno sicuro quel nano bastardo. Mi sento un grande. Quando abbatterò la mia asta sulla sua faccia so già che continuerò a colpirlo finché non mi faranno male le mani. Ma, come canta la maledetta fata madrina di cenerentola “i sogni son desideri”, il grido che lancia l’infame bestia uggiolante è molto più rapido di qualsiasi calcio, pugno o sprangata.
Quando vedo altri nanetti, col loro costume di pelle e carne, calare dalle case e spuntare dai vicoli, con la loro membrana nera sulle spalle, capisco che Burlamacco non mi sta sulle palle: lo odio proprio. I nanetti si limitano a disarmarmi gettandomi a terra. Alex e gli altri invece vengono morsi, atterrati e malmenati. Non so che fare. Ho paura. Il sangue, che esce dalle fronti dei mie amici, mi immobilizza. Ancora una volta il mio stomaco cede: solo acqua. I Burlamacchi trascinano senza rispetto quei corpi immobili ancora caldi. Il mio sguardo cade su Patrizia: i capelli stretti da cartonesche dita, le gambe larghe che lasciano intravedere il bianco slip di pizzo.
Quando mi rialzo, qualcuno mi aspetta. Il nano con la Frency mi invita a seguirlo.
Vorrei scappare ma non posso. Devo liberare la compagnia.
Il Burlamacco mi precede fino alle darsene più interne, quelle dei cantieri navali. Qui il carnevale non si sente, forse non è ancora arrivato o qualcosa lo tiene lontano. Lui entra in un magazzino abbandonato. Lo seguo oltre la soglia, giù per le scale, nelle fondamenta e dentro la terra umida della costa. Poi la luce cala e il suono cupo di una celata di ferrò riempie quello spazio immensamente vuoto. Li sotto i suoni che arrivano sono pochi. Si sente qualcosa che sembra il mare. Si sente lo squittio acuto dei topi. Il rumore di un tendine che si strappa o di un osso che si rompe. Le voci dei rapiti, che da bocche mute, gorgheggiano la loro paura.
In fondo questi Burlamacchi non sono incivili. Entrano nella tua mente, invadendola di immagini calde e bei ricordi. Ti cullano mentre inosservati ti privano di tutti gli altri ricordi, dei tuoi sentimenti. Non ti accorgi nemmeno dei loro denti e delle loro dita affilate che lacerano la tua carne.
I loro volti rimbalzano nei miei pensieri e riempiono i miei occhi di immagini irreali, lontane. Con me sembra che sia diverso. Sembra quasi che si divertano a spezzarmi, un poco alla volta, minando la mia già poca sanità. Hanno lasciato che vedessi, costringendomi a guardare. Ho provato disgusto per me. Per i pensieri che mi attraversavano la testa e la saliva sul lato della mia pagliaccesca bocca.
I Burlamacchi, qua sotto, lo sanno fare il loro mestiere. Prima di mangiarti ti uccidono, ma solo prima di mangiarti. Io l’ho visto. Ho visto gli occhi vitrei della Francy.
Non ho mai gridato. Non volevo disturbarli. Devono aver apprezzato questo mio gesto. Sono uno discreto io. Resto nel mio angolo acquattato in attesa del fottuto carnevale. A quella sera dovrebbe ormai mancare poco. Che paradosso: io lo odio il fottuto carnevale e più di tutto odio il Burlamacco, e ora mi tocca aspettare quei giorni di falso gaudio.
Lo so che i Burlamacchi mi vogliono cambiare ma io resisto. Una luce brilla ancora forte in me. Piccola luce contro un mare di ombre. Nella luce ci sono io e finché brilla non me ne andrò. Il dolore che provoco a me stesso è l’atmosfera limpida di quel mondo
La pelle dove mi sono scorticato è rossa. Grossi rombi di carne rossa.
I Burlamacchi sono in attesa. Aspettano il fottutissimo carnevale e io con loro.

AUTORE - SIMONE