25 novembre 2009
La situazione politica di Finisterra III: Il regno di Vùos
22 novembre 2009
La situazione politica di Finisterra II: L'Impero delle Tre Spade
18 novembre 2009
La situazione politica di Finisterra I: Una visione d'insieme
Per un millennio circa la penisola di Finisterra è stata unita sotto il dominio della casata Teophan in unico Impero, fino a quando cinquecento anni fa...
15 novembre 2009
FIGLIO
Mi piacevano i personaggi, il forte contenuto morale delle strisce che non di rado si trasformavano in storie. Mi piacevano quei bambini che parlavano come i grandi. Anche io ero così, in qualche modo. Mi riconoscevo in Charlie Brown, nella sua indecisione e passività. Dentro di me sognavo che un giorno o l’altro “il bambino dalla testa rotonda” si arrabbiasse e gliela facesse vedere, a tutti gli altri, che era una persona di valore. Perché io lo vedevo che lo era.
Ma nelle storie di Schultz non accade.
Mai.
C’è una striscia in particolare che ora mi torna alla mente.
Grossomodo si svolgeva così, o almeno così io la ricordo e sono certo di non tradirne il senso generale: Piperita Patty e Marcie erano seduti sui loro consueti banchi di scuola. Piperita Patty seduta sul banco davanti si sporgeva verso Marcie e le diceva di avere compreso una grande verità, ossia che ci sono due tipi di domande, quelle che qualcuno ti fa per verificare se conosci la risposta e quelle alle quali nessuno sa rispondere.
Vorrei tanto avere compreso il senso di quella striscia quando era il momento, e invece lo capisco solo ora.
Mamma.
Mi hai educato ad essere un bravo bambino.
Mi hai insegnato che era importante studiare, che era importante essere persone tolleranti, essere buoni con gli altri, essere prudenti e coscienziosi. E io ho imparato.
Non credo di essere una persona molto intelligente, però studiavo e i risultati venivano.
Gli altri bambini correvano, saltavano, gridavano, facevano le marachelle, cadevano e si rialzavano.
Io no.
Non era da bravi bambini fare baccano, non era da bravi bambini trasgredire le regole, non era prudente correre e cadere. Tu mi avevi insegnato così, e io ho imparato.
Ho imparato fin troppo bene.
Gli altri bambini non si interessavano a me. A volte tentavo di unirmi a loro e alcuni, pochi per la verità, a loro modo cercavano di darmi una possibilità. Ma a dieci anni parlavo già come un adulto: a loro non piaceva. Loro volevano che salissi sugli alberi, ma io non me la sentivo, era pericoloso. Volevano giocare a palla, ma per me era un gioco che non aveva senso, e comunque sarei stato sconfitto in partenza. Non mi trattavano male, semplicemente mi lasciavano in disparte.
Ero diverso da loro, e se ne accorgevano.
Quante volte sono tornato a casa da te piangendo?
Tu mi tenevi tra le braccia e mi dicevi di avere pazienza, perché un giorno gli altri avrebbero capito. Un giorno non mi sarei più sentito così solo.
A dodici anni mi sono innamorato. Era una mia compagna di classe delle medie e tutti la chiamavano Lalla. Era stata bocciata un anno ed era l’unica a cui sembrava piacere lo stare con me. Forse perché anche lei era tenuta in disparte, forse perché era più matura e mi vedeva già come un figlio.
Non lo so.
Io però volevo toccarla, lei invece andava coi ragazzi delle superiori.
Mi respinse con una risata.
Non ero un uomo per lei e un uomo, questa è la verità, non lo sono mai diventato.
Rimasi comunque suo amico, quel po’ di affetto che lei mi dava era l’unico che conoscessi a parte il tuo. Quel giorno, quello in cui mi respinse, corsi a casa da te a piangere come ogni volta.
Tu mi dicesti quello che mi dicevi sempre: che un giorno, quando fossi stato più grande e anche gli altri miei coetanei fossero diventati più maturi, come io ero già, avrei conosciuto una ragazza; una ragazza che avrebbe capito che io ero una persona buona, che avrebbe compreso tutto l’amore che avevo dentro e che potevo darle, che avrebbe capito che l’avrei resa felice. Non come mio padre aveva fatto con te, quel tipo d’uomo che io mai sarei dovuto diventare.
Io ti credevo. Dovevo crederti, non potevo non farlo.
Prima ho atteso fiducioso, poi ho pregato disperatamente perché quel tempo venisse.
Ma non è accaduto.
E col tempo quell’amore che avevo dentro è imputridito.
Mamma.
Una parte di me in realtà lo sapeva.
Io non potevo essere amato da altre che da te, perché non potevo essere uomo, e dunque ero destinato a rimanere per sempre figlio. Lo sapevo, nel più profondo di me.
Credo di averlo anche accettato, a mio modo, anche se era una cosa inaccettabile.
Finché c’eri tu ad amarmi la vita era comunque sopportabile.
Ma poi sei morta e nella mia vita non è rimasto più nulla.
E allora sono impazzito, credo.
Si deve essere così, per forza.
Ora che sono qui davanti a lei capisco tutto.
Innanzitutto quella striscia dei Peanuts.
Ero un bambino adulto, sono divenuto un adulto bambino.
Per tutta la vita ho dato soltanto le risposte giuste alle richieste che tu mi facevi, non ho mai cercato una risposta che fosse davvero mia, a nessuna delle domande della vita.
Le richieste non me le facevi davvero, naturalmente, non più da molti anni.
Sono convinto che in realtà non te ne accorgessi nemmeno. E io neanche.
Era come mi avevi educato, o forse come io avevo recepito quell’educazione.
O magari soltanto il mio essere costantemente prigioniero della paura.
Per tutta la vita sono rimasto un bravo bambino, in modo da garantirmi almeno il tuo amore.
Quando sei morta ho scoperto che senza di te non ero nulla.
Per mesi ho cercato Lalla, ma non l’ho trovata. E’ stata una fortuna per lei, credo.
Chissà dov’è finita.
E allora tutto quel rancore che ho accumulato in questi anni ha cominciato a premere verso la superficie, finché non ho fatto quello che Charlie Brown non ha mai fatto.
Mi sono arrabbiato.
Un mese fa ho avvicinato la ragazza.
Lei era così giovane e graziosa, fragile e fiduciosa.
Si vedeva che si sentiva già una donnina, come Lalla.
Credevo che fossimo diventati amici, ma come possono diventare amici un adulto di quarant’anni e una ragazzina di tredici? Ora capisco tutto, ma come sempre è troppo tardi.
Non era colpa di Lalla, né tua. E’ sempre stata solo colpa mia.
Quanto vorrei poter riavvolgere il nastro del tempo fino alla mia infanzia, ricominciare tutto da capo. Ma anche tornare indietro di un mese sarebbe sufficiente, già così molte cose si potrebbero ancora salvare.
A questo punto anche solo dieci minuti basterebbero: per tutto il resto sarei pronto a pagare.
Vorrei solo non averla già uccisa.
07 novembre 2009
La geografia di Finisterra II: Le principali città
La città è cinta da una cerchia di mura incardinata su quattro torri e collegata al Baluardo di Fortebraccio, che sorge nei pressi del porto. Il grosso della città si è sviluppato sulla riva nord-occidentale, dove si distendono i quartieri abitati dalle famiglie degli Uguali, caratterizzati da ville basse dotate di parchi e costruite in pietra, e della ricca borghesia, che abita ai piani bassi di palazzine di più piani, che ai livelli più alti ospitano servitori e operai.
Quando Addoneis dominava su tutta Finisterra e al Trono di Porpora giungevano i tributi di milioni di sudditi la città si era estesa anche a est del porto dove erano sorti quartieri di case di fango e legno, distese su vicoli molto stretti.
continua sul blog di Finisterra
03 novembre 2009
RICORDI
La neve aveva smesso di cadere. Sul fornello la caffettiera gorgogliava mentre un sottile filo di fumo si innalzava dall’argenteo beccuccio. Astolfo ruotò la manopola del gas lasciando che le accese lingue blu si esaurissero dopodichè versò l’aromatico liquido in un’unica tazza.
“Eccoti il caffé cara”
“Dove stai andando Astolfo?”
“Esco un paio d’ore” rispose infilandosi il giaccone imbottito e calandosi sulla testa uno zuccotto di lana.
“E quella?”
Astolfo aumentò la stretta sull’impugnatura della torcia elettrica poi, chinandosi sulla moglie, le baciò delicatamente la fronte.
“Non sei più un bambino” sentenziò lei “Almeno copriti per bene”
Astolfo si arrotolò la sciarpa attorno al collo e, senza replica, uscì.
L’aria era pungente e la notte si era già impossessata delle strade innevate di Piombino.
Il bar di Umberto era ancora pieno: Astolfo sbuffò irritato.
Per l’ennesima volta avrebbe dovuto sostenere gli sguardi degli avventori, curiosamente compassionevoli. Come se lui fosse un animale dello zoo: lì semplicemente per essere ammirato.
“Il solito Astolfo?” lo accolse Umberto al di la del banco.
“Il Solito” rispose Astolfo passandogli la fiaschetta di metallo “e non essere tirchio.”
“Tirchio io! Senti un po’ che novità. Guarda che l’altra volta sei stato tu a dirmi di fermarmi”
“Bé stavolta non risparmiarti. Falla bella piena che la fuori c’è un freddo del Diavolo! La Maremma se lo prenda!”
Umberto prese la bottiglia di grappa e ne versò il contenuto riempiendo fino all’orlo la fiaschetta.
“Non vorrai startene al faro anche stasera?” chiese Umberto.
“Certo. Non ho saltato una sera in dieci anni e non intendo lasciarmi scappare neanche questa”
“Questa mania proprio non la capisco Astolfo. Guarda che i marinai hanno di meglio da fare che parlare con te.”
“Non ti impicciare degli affari miei” fece brusco Astolfo sorridendo al barista.
“Non mi impiccio dico solo che se vuoi far due chiacchiere le puoi fare anche qui senza dover stare ore al freddo. In più se ti va puoi anche farti una bella partita a carte.”
“Non sopporto le carte e poi a me piace stare all’aria aperta, mi si schiariscono le idee specie quando la grappa me le offusca.”
“Fa un po’ come ti pare. Sei il solito testardo”
“E tu un tirchio impiccione. Ecco qui i quattro euro per la grappa. Ci vediamo domattina”
Umberto aveva la mezza idea di replicare a quelle accuse infondate, ma il suo più vecchio cliente era ormai uscito dal locale.
Astolfo percorse la strada che lo separava dalla piazza del vecchio faro di Piombino con passo svelto. Le parole di Umberto avevano riportato in superficie motivi dimenticati, che lo spingevano a lasciare sola la moglie tutte le sere. La perdita di suo figlio Marco lo aveva cambiato.
Varie volte, nei giorni seguenti la tragedia, aveva pensato di togliersi la vita.
Aveva anche programmato come: un colpo in testa seduto in auto. Era deciso e, ne le parole confortanti della moglie, ne il sapere che le avrebbe procurato altro dolore, lo avevano dissuaso dal suo obbiettivo. Non aveva mai avuto una tale determinazione in tutta la vita. O almeno così credeva. Il giorno del suicidio con la canna della pistola premuta contro la fronte mentre ripercorreva i momenti splendidi passati con Marco, un ricordo si fece largo nella sua mente.
Una nottata al faro. Suo figlio acconto a lui, poco più che un bambino. Quella notte per la prima volta gli aveva parlato del codice morse e di come, attraverso segnali di luce o suoni, si potesse comunicare a distanza con altre persone. Poi insieme, con una torcia, avevano iniziato a trasmettere messaggio alle navi, accendendola e spegnendola a intervalli precisi. Inviavano sempre lo stesso segnale: buona navigazione. Quando dal mare era giunto in risposta un grazie, gli occhi di Marco si erano illuminati, ed era rimasto incredulo di fronte a quella semplice magia.
Un altro ricordo si era legato a quello. Questa volta il ragazzo incredulo era Astolfo e il giovane uomo al suo fianco, che gli parlava del codice morse, era suo zio ufficiale della Marina Militare.
Quel ricordo perso nei meandri della sua infanzia aveva dato nuova luce al suo spirito dissipando in un colpo quella patina grigia sotto cui stava soccombendo. In quell’istante uccidersi aveva perso di significato. Avrebbe potuto semplicemente ricordare e attraverso quei ricordi tenere in vita anche Marco. Magari suo figlio lo stava osservando da qualche posto lontano. E quel semplice rituale avrebbe potuto strappargli ancora un sorriso ingenuo, accompagnato dai sogni nascosti dietro quello sguardo sbalordito. Per dieci anni aveva parlato ogni sera con le navi che attraversavano il braccio di mare tra Piombino e l’Isola d’Elba. Uniche compagne tangibili di quegli appuntamenti erano la grappa e la sua amata torcia.
Superato il faro Astolfo si avvicinò alla balaustra di mattoni. Il mare sotto di lui era leggermente mosso. Con una mano scostò la neve, che cadde a terra, e in quel piccolo spiazzo appoggiò la torcia.
Senza perdere altro tempo iniziò a trasmettere i primi messaggi della serata. In cuor suo temeva che nessuno, in quella notte sferzata dal vento, si sarebbe prestato al suo rituale.
Alcune navi correvano sulla distesa cerulea indifferenti al suo lampeggiare. Astolfo non ebbe risposte per parecchi minuti finché una luce limpida non si fece timidamente avvistare.
Il segnale sembrava venire dall’isola di Cerboli. Astolfo conosceva bene il canale di Piombino e non aveva alcun dubbio sul fatto che il segnale provenisse dalla terra ferma e non da una nave.
La cosa strana era che Cerboli era completamente disabitata. Ma ancor più strani erano i primi due messaggi inviati dall’isola: sos - sos
“Come posso aiutarti? Devo chiamare la guardia costiera?” trasmise Astolfo.
-. --- --- -... “No vecchio mio.”
“Chi sei?”
.-. “Tu chi sei?”
“Mi chiamo Astolfo Sicari. Tu invece come ti chiami? Come sei arrivato a Cerboli?”
.-. “Tu chi sei?”
“Ti ho già detto chi sono. Astolfo Sicari”
-. --- .-. “Non sai chi sei?”
“Io so chi sono. Stai tranquillo. Forse non stai bene. Dimmi il tuo nome e come sei arrivato sull’Isola così potrò aiutarti”
... .-. .. “Spiacente”
“Cosa significa spiacente?” Astolfo si stava irritando. La sua mente provava a dare un senso a quel breve scambio di battute. Ma nulla di quello che stava succedendo pareva averne.
... .-. .. -.-. ..- --.. -. --- .-. “Spiacente per te. Perché non ricordi chi sei.”
“Ora vado a chiamare la Guardia Costiera perché mi sono stancato”
.- ... ... .- .--. . .-. .-. “Aspetta Astolfo. Non vuoi sapere chi hai nascosto in te. Chi, Astolfo Sicari, ha dimenticato di essere?”
“Non mi interessa parlare con chi non conosco. Ti serve aiuto. Ora vado”
... . .-. .- ..-. .. -. --- “Un nome: Serafino”
Un brivido freddo, più freddo del ghiaccio, attraversò la schiena la vecchio. La sua espressione si fece ancor più rugosa mentre le sue percezioni si estraniavano dall’ambiente circostante. Astolfo era concentrato solo sulla luce del suo interlocutore.
“Non puoi essere Serafino”
Nessuna risposta seguì quella affermazione.
“Serafino è morto nel ’44”
... .- .--. . .-. . “Lo so Astolfo”
La dita del vecchio corsero rapide sotto il giaccone fino a chiudersi sulla fiaschetta. Il primo sorso di grappa gli bruciò la gola. Il liquido cominciò a espandersi trasmettendo a tutto il corpo una lieve sensazione di calore.
.-. .. -.-. --- .-. -.. .. ... . .-. .- ..-. .. -. --- “Cosa ricordi di Serafino?”
“Stavamo scappando dai tedeschi. Ci siamo nascosti in un casolare. Loro erano vicini. Ci avrebbero preso se non fossimo stati attenti. Serafino non lo fu e loro lo uccisero.”
... .-. .. ...... .-.. .. -.. -. --- - . -.. . ... -.-. .... .. “Spiacente Astolfo. Non è così che andò. Questo è quello che hai sempre sostenuto tu. In realtà ricordi i singhiozzi e quella mano sulla bocca.”
Astolfo si guardò il palmo della mano. Percepiva un respiro che man mano si affievoliva: umido e caldo. Quella sua mano stava trattenendo con tutta la sua forza qualcosa di vivo, che lottava, le cui lacrime bagnavano i ferrei polpastrelli. Una serie di sordi singhiozzi cominciò a riempirgli le orecchie. Astolfo inizio a sfregarsi i palmi violentemente mentre scuoteva la testa per rigettare quei suoni. Chi lo avesse visto in quel momento avrebbe pensato a una crisi epilettica.
... - .- - --- - ..- -. --- - . -.. . ... -.-. .... .. “Ricordi di esser stato tu Astolfo . Tu, non i Tedeschi.”
“Serafino continuava a piangere. Aveva dieci anni non poteva piangere a quel modo. Gli avevo detto di smetterla. Che i Tedeschi ci avrebbero trovato per colpa di quei singhiozzi. Che da disertore mi avrebbero fucilato all’istante. Ma più gli chiedevo di smettere più lui continuava. Poi sotto di noi si sentirono dei passi soffocati dalla paglia. Ho dovuto zittirlo. Gli ho premuto la mano sulla bocca abbracciandolo forte. Si è dibattuto ma sono riuscito a tenerlo fermo. I colpi delle scarpe sul legno avrebbero fatto più rumore del suo pianto. Poco dopo si è calmato. Sono rimasto così tutta la notte. Con lui fra le braccia: immobile”
--. ..- -.. “Bravo Astolfo. Qualcosa di te è tornato”
“Come fai a sapere queste cose? Chi sei? Voglio sapere? Me lo devi maledizione”
--. ..- -.. -.. .- .-. . -.-. --- ... .- “Hai ragione Astolfo. Ti devo qualcosa. Qualcosa ti darò”
“Dimmi allora”
.. ... .- -... . .-.. .-.. .- “Ti darò un altro nome: Isabella”
“Non puoi. Non puoi giocare con me. Addio!”
-. --- .- -. -.. .- .-. . .---- ----. -.... ---.. “So che non te ne andrai. Lo sai anche tu. Cos’era il 1968?”
Alfonso adirato prese un altro lungo sorso dalla fiaschetta che si era di parecchio alleggerita.
-.-- .-.. -.. .. ..-. ..-. .. -.-. .. .-.. . --- -... “Quella volta fu più difficile che con Serafino. Ma te la cavasti bene ugualmente vecchio mio. Pensare che Marco era appena nato e tua moglie ti aspettava in ospedale.”
“Smettila. Fu un incidente. Le autorità non mi coinvolsero mai.”
Astolfo cadde in ginocchio. Dopo quarant’anni di prigionia quel volto era riemerso, prepotente.
Isabella aveva vent’anni. Una ragazza sveglia in un corpo acerbo, quasi androgino. In lei c’era sempre stato qualcosa di famigliare. Forse il taglio di capelli o lo sguardo innocente. Quella ragazza lo aveva subito colpito. Professore di lettere in quegli anni di fermento, stanco della quotidianità e del peso di una famiglia, Astolfo si era lasciato coinvolgere in quella relazione difficile.
-.-- .-.. .-. .. -.-. --- .-. -.. --- ... . .-. .- ..-. .. -. --- “So perché quella ragazza ti piaceva e so perché l’hai amata così tanto durante il suo trapasso. Isabella ti ricordava il piccolo Serafino. Esile, impaurita, fragile sotto le tue mani.”
Astolfo si teneva la testa mentre le grida di Isabella, arrabbiata con lui, rimbombavano alte: lo voleva solo per se. Poi la ragazza gli si lanciò contro in un abbraccio che finì in un bacio. Tra quelle mura c’erano solo loro: la scuola era stata chiusa quasi due ore prima. Nell’aula spoglia Astolfo prese Isabella sulla cattedra. Ricordava la dolcezza di quegli attimi. Il volto della ragazza premuto sulla verde superficie di formica. Le braccia che si dimenavano nel tentativo di respingere quella forza che la schiacciava, impedendogli di respirare. Astolfo si allontanò da lei, ancora nudo sotto la cintola, inebriato dalla passione di quell’orgasmo. Non più trattenuta Isabella scivolò a terra. Il peso morto delle braccia fece stridere il piano della cattedra portandosi dietro un’umida scia di lacrime.
.- --. -. ... .- .-.. ...- --- --- -... “La discarica è stata una bella trovata. Era passato troppo tempo dal ritrovamento all’omicidio e tu ti salvasti. Ancora”
“Basta. Ti prego”
..- .- --. -. --- .--. -. --- --. --- “Puoi andartene Astolfo. Quando vuoi. Non posso trattenerti. So solo che non lo farai. Non ti sei chiesto perché continui a trasmettere? Non ti domandi perché sei ancora qui?”
Astolfo non sapeva che rispondere. Una parte di lui voleva andarsene. Tornare a casa e rigettare nuovamente quei ricordi nel pozzo più profondo della sua mente. Ma qualcosa, in realtà lo teneva lì, ad ascoltare. Voleva rimanere. Sembrava quasi che il suo corpo si gestisse in autonomia. Senza il bisogno di un cervello a comandarlo. Solo in quell’istante di riflessione e astrazione dai ricordi si accorse della luce. La luce di Cerboli, quella con cui parlava, era aumentata. Non solo di intensità ma anche di dimensione. Sembrava quasi più vicina. Un terrore sottile si fece strada in lui. Percepiva gli angoli della bocca arricciarsi in una smorfia mentre tutto il suo corpo iniziava a tremare.
“Chi sei?” questo il suo unico pensiero.
-.-. ... -- .. -.-. .... . .-.. . “Chi sono forse non importa. Potrei essere più d’uno. Oppure avere un nome. Ti piace Michele?”
Astolfo cadde in altro incubo. Le quattro facce attorno a lui avevano la pelle olivastra, bruciata dal sole. L’odore di sporco e gli abiti macchiati lo avevano costretto a tenersi distante quanto necessario ad allungare le quattro banconote da cento mila lire. Uno di loro afferrò il denaro bofonchiando qualcosa in una linguaggio duro e strascicato. Astolfo aveva sempre odiato gli zingari. Per questo aveva puntato a loro: se gli avessero presi si sarebbe liberato di due fastidi. Il lavoro era semplice. Più volte si era concentrato sul fatto che sarebbe stato sufficiente mandarlo all’ospedale. Dovevano spezzargli un braccio o una gamba: nulla di più. Diede loro altre duecento mila lire per sicurezza. Qualcosa però era sfuggito ad ogni controllo. Michele era uno che si sapeva difendere e gli Zingari si sa tendono al rancore, specie se lasci un loro amico in fin di vita. Michele era stato pestato più del dovuto e il suo fisico non aveva retto oltre la notte in ospedale.
.- --. -. ... .- .-.. ...- --- “Ancora una volta nessuno ti ha cercato vero Astolfo?”
“ Non sono stato io ad ammazzarlo.”
...... ..- -.-. .-.. --. “Questa tua affermazione è opinabile vecchio mio. Tu sei il mandante. Quindi la sua morte ricade su di te”
“Non me ne dispiaccio se lo meritava”
...... “La meritava? Non è stato lui ad uccidere tuo figlio.”
“Si invece. Quello stramaledetto ragazzo era alla guida. Nell’incidente lui si è salvato mentre Marco no. Per cosa poi? Un cane. Un dannatissimo cane che attraversava la strada: mai scartare.
Michele invece ha sterzato e sono finiti nel canale e Marco è morto. Morto a trent’anni: una vita sprecata.”
..- -.-. --- .-.. .--. . ...- --- .-.. . “E tu Astolfo? Non sei forse colpevole più di lui?”
“Non ho ucciso Marco! Amavo mio figlio più della vita!” gridò attraverso i battiti di luce della sua torcia.
-.. .... - .- .-.. - .-. .. “No. Ma hai ucciso Serafino e Isabella e infine Michele. Tre vite sprecate.”
Il freddo all’esterno non era nulla paragonato al freddo che Astolfo aveva dentro. Il viso era solcato dalle lacrime che si contorcevano attraverso la pelle rugosa. Marco era il suo riscatto. In suo figlio aveva visto il bene che era nel suo cuore e attraverso di lui avrebbe fatto ammenda dei suoi errori. Poi il destino glielo aveva portato via. E lui era ricaduto nella disperazione.
...... ..- -.. --- ...- . .-. . -.. - .... “Sei un uomo egoista Astolfo. La tua è stata una vita vissuta con l’inganno. Rubata alla morte stessa. Il dolore che hai provato non era per la morte di tuo figlio, ma per te stesso. Volevi ucciderti per liberarti da un peso: ma infondo sei un codardo. Lo sei sempre stato.”
“Non ci sono riuscito. Volevo, ma non ce l’ho fatta. La mia mente, il mio istinto di sopravvivenza ha preso ancora una volta il sopravvento, aggrappandosi a qualsiasi cosa pur di salvarsi. Quel ricordo della mia infanzia, dell’infanzia di mio figlio era così innocente e puro. Perfetto a nascondere i miei peccati.”
.-.. ..- -.-. . -. .- ... -.-. --- -. -.. . --- ... -.-. ..- .-. .. - --- -... “Astolfo sai che oltre la luce più abbagliante si nasconde sempre un’impenetrabile oscurità. Addio vecchio mio”
Astolfo iniziò a tremare, fino a scivolare a terra con la schiena appoggiata alla balaustra. Le mani erano strette intorno alla torcia. La luce dell’isola di Cerboli si era fatta sempre più minacciosa e avvolgente. Attraverso la sua pelle sentiva il chiarore penetrarlo. Aveva gli occhi pieni di luce, sempre più intensa e bruciante. Finché tutto non si fece buio.
Lo ritrovarono la mattina seguente. Il corpo senza vita. Gli arti irrigiditi per il freddo. Gli occhi spalancati in uno sguardo vuoto e acquoso. La torcia ancora accesa, puntata contro il viso di Astolfo, rilasciava ritmici flash.
…---… (sos: save our souls)
AUTORE - SIMONE