31 maggio 2005
ATH LIAG FINN
Il mio compito, come quello della mia famiglia, è di attendere. Sono secoli che sediamo, tutte le domeniche, su questa roccia. Guardiamo l’acqua del guado infrangersi e mulinare intorno a questa sporgenza. Stiamo aspettando che la leggenda si compi. Quando la sirena risalirà il fiume portando con se il cimelio dei sidh, allora il nostro destino avrà inizio. Sette giorni per far trapelare la notizia. Sette giorni per salutare i nostri cari e vivere al meglio il tempo che resta. Sette giorni per redimerci e scacciare la paura dai nostri cuori. Finn diede inizio a tutto questo. Volle fare un regalo all’umanità. Voleva che sapessimo in anticipo quando tutto sarebbe finito, per questo ha gettato la pietra con la catena d’oro nel fiume. Per questo noi attendiamo. Io sono vecchio. Da oggi tu mi accompagnerai finchè non morirò. Sarai tu che mi sostituirai nipote mio. Quindi osserva e impara. Cerca di capire i segni della natura. Devi diventare una cosa sola con essa. Solo così potrai vedere l’antico popolo. Solo così potrai raccogliere il messaggio portato dalla sirena. Ora concentrati. Chiudi gli occhi. Lasciati trasportate dal ciclico rumore dell’acqua; dallo sciabordio dei flutti. Percepisci il movimento degli animali della foresta. Senti l’orso che si gratta contro la corteccia. Annusa l’aria, come il lupo, in cerca della preda. Plana sugli alberi e gettati in picchiata verso terra come l’aquila maestosa. Sento che ti stai avvicinando alla Grande Madre. Lo capisco dal tuo respiro e dal colore innaturale delle tue guance. Un altro passo ancora. Tocca la roccia su cui siedi. Senti l’energia che l’attraversa? Senti come pervade il tuo corpo e riempie il tuo essere? Dana ti sta infondendo la sua essenza. Apri gli occhi ora. Li vedi? Vedi le creaturine che si muovono nel sottobosco. Sono buffe non trovi? Guarda quei folletti. Stanno facendo una giostra con le rane. Quelli laggiù invece sono Pooka. Corrono come ossessi. Devono aver rapito qualche pargolo al paese. Lo porteranno a Mag Mor dove crescerà diventando uno di loro. Ricorda nipote mio, tu hai la facoltà e il permesso di vederli ma non hai il permesso di interferire con loro.
Quindi evita di farti venire idee malsane come quelle di soccorrere quel bambino. Il suo destino è quello di vivere col piccolo popolo. Non sappiamo perché sia così, ma sicuramente un motivo ci sarà e noi non abbiamo ne il diritto ne le motivazioni per interferire.
Guarda ai piedi della roccia. I Lurikeen stanno ballando. Se tendi l’orecchio potrai sentire il loro canto. Non ti sembra stupendo?
Nelle domeniche che attenderai qui seduto ti potrà capitare di vedere il Fer Caille e sua moglie che passeggiano nel folto del bosco. Non devi temerlo, non pronuncerà nessuna profezia su di noi. Lui sa chi siamo. Lui sa che il nostro sangue è in parte quello del suo popolo…
Sei stupito? Eppure è la verità. Per questo riusciamo a vederli; per questo la Madre Terra ci inonda con la sua essenza. Solo in questo modo possiamo portare a temine il nostro destino.
…
Il verde acceso del Bosco inizia a impallidire. Il cielo da azzurro diventa violaceo. Ho paura, Nipote mio, che la missione della nostra famiglia si concluda con me… Abbassati! Ecco il primo e unico segno. Tre corvi escono dal bosco come uno. Planano sul terreno alle nostre spalle. Si fondono insieme elevandosi, come una nera colonna, da terra. Morrigane ci osserva a distanza. So che non interferirà; è qui solo per godersi lo spettacolo. La sua presenza mi inquieta. Riempie il mio cuore di terrore.
Decido di non guardarla come ha fatto mio nipote. Il piccolo popolo è ormai fuggito. Tutto è immoto nella foresta. Una grossa pinna smuove l’acqua del fiume. Le squame, argentate, brillano sotto quella macabra luce irreale. L’essere marino si avvicina velocemente. Il suo movimento sinuoso e veloce viene tracciato da un lampo dorato. Con un balzo la sirena esce dall’acqua arenandosi sulla pietra su cui fino a poco prima sedevamo. Noi veniamo sbalzati a terra. Rimaniamo, nonostante l’invadenza, incantati dalla sua forma. La coda, lunghissima, riflette i colori violacei del cielo mentre la pinna, immersa nell’acqua, spruzza piccole gocce mercuriali nell’aria.
Lunghi capelli verdi le incorniciano il pallido volto. Occhi neri come il catrame ci osservano incuriositi. Mi fa un cenno con la mano. Vuole che mi avvicini. Ora sento il suo respiro; forte e puro come una brezza marina. Allunga una mano verso di me innalzando un lieve canto. Mi invita a prendere l’oggetto che tanto ho atteso. La sfioro. La testa inizia a girarmi. Vorrei possederla. Vorrei stringere i suoi seni e baciare le sue labbra. Non voglio più lasciarla… devo andare con lei…
Mi riprendo dallo stordimento di quel canto. Che fosse una prova? Non lo so. Quello che so invece è che il mio sangue misto mi ha aiutato. Mi ha dato la forza di resistere alle sue malie. Apro la mano aspettando che lei vi lasci la reliquia. La sento pesante sul mio palmo. Una pietra con una catena d’oro. La sirena capriola in acqua. Con un ultimo canto ci abbandona. Per noi è il suo addio.
Guardo mio nipote. Trema. Gli sorrido rassicurandolo. Morrigane è sparita…
Le banshee gridano e si disperano. Tra poco l’era dell’uomo giungerà alla fine.
AUTORE - SIMONE
29 maggio 2005
Athanatos
Sara correva all’impazzata nella notte senza luna. Intorno a lei c’erano solo rovine e ombre senza volto che si muovevano senza scopo come pazzi in un manicomio. Dietro di lei il mostro urlava la sua rabbia con un verso impossibile che le torturava i timpani e le ricopriva di brividi il corpo. A un tratto incespicò su qualcosa nascosto nel buio.
Un corpo.
Lanciò un urlo senza suono, circondata da una maligna solitudine.
L’essere fu su di lei. Non era di questo mondo, probabilmente era alieno in qualsiasi mondo; sembrava uscire da uno strappo nella realtà, come qualcuno venuto fuori dalla fessura nello sfondo di un teatro. Il muso era l’apoteosi di tutte le forme ma non ne aveva alcuna.
Sara tentò di alzarsi ma qualcosa la trattenne.
Mentre il mostro iniziava a divorarla con fauci inverosimili, la ragazza si accorse che era stato il cadavere a trattenerle la caviglia col cappio al quale si era impiccato.
Era il cadavere di suo padre….ricoperto di strane liane bluastre.
“Maledetto!”
Con un urlo lacerante si svegliò nelle notte senza Luna. Tremava ed era madida di sudore. Aveva “incubato” come diceva da piccola quando faceva un brutto sogno. Sognava spesso suo padre che le bloccava la fuga mentre un qualche essere informe la inseguiva famelico. A pensarci bene aveva sognato cose del genere fin dall’infanzia. Il padre era stato assente con lei, perso nelle sue maledette pergamene.
Aveva solo dieci anni quando quell’uomo, che solo per l’anagrafe era un suo genitore, aveva condannato il mondo alla distruzione.
Ora ne aveva trenta e spesso i suoi incubi erano meno terrificanti del mondo che suo padre aveva forgiato: il mondo reale, soprattutto nelle Lande esterne era un delirio senza possibilità di fuga.
Anche quella sera (o era una mattina?) i suoi cinque sensi furono investiti dalle sollecitazioni di un mondo in decomposizione. Si trovavano a Roma, da qualche parte tra la mutata versione di Ponte Sant’Angelo e Piazza Navona. Da una settimana erano persi per le rovine della Città Eterna. Tempo e spazio non avevano più lo stesso significato nelle Lande Esterne e solo i Rifugi concedevano un po’ di normalità artificiale. Il mondo pulsava dei rumori di una vecchia soffitta: scricchiolii e zampettii di piccoli animali di cui non volevi verificare l’esistenza. L’odore agrodolce della decomposizione aleggiava in ogni strada e piazza stagnando dentro ogni costruzione. Era immersa in un grigiore immutabile; lanosi vegetali blu e bianchi ricoprivano strade e palazzi come ragnatele.
Il fuoco del loro bivacco si contorceva come un impiccato agonizzante sulla forca. Paolo la osservava con la sua espressione sempre enigmatica, sorridendole da sotto l’elmo.
“Stai tranquilla, hai avuto un altro incubo. Ora tutto è passato…”.
“Dove siamo?”
“Secondo i miei calcoli dovremmo essere al ponte Sisto tra meno di un giorno. Non posso essere più preciso: le distanze e il tempo sembrano entrate in un frullatore cosmico… questa città era un casino una volta figurati adesso...”
“Fortuna che ci sei tu, Paolo. Io mi sarei persa da un pezzo”
“Dovere. Peccato solo per gli altri”
Erano partiti una settimana prima (o erano due?) attraversando strade e campi ammantati dalla solita lanugine blu. Lei e dieci uomini scelti tra i Cavalieri della Rinascita per scortarla al Rifugio romano. Lì avrebbe parlato con la Veggente di ciò che suo padre le aveva scritto. A Roma avrebbe incontrato Riccardo, amico d’infanzia di sua madre, veterano della Guerra delle Razze e comandante di una guarnigione di Cavalieri.
Paolo era la lo guida. Era dotato dell’incredibile capacità di orientarsi nelle strade modificate dalle continue anomalie spazio – temporali che mescolavano i punti cardinali, mutavano la morfologia e distorcevano le distanze. Conosceva l’attuale versione Roma come pochi altri al mondo. Era taciturno e sempre assorto nei suoi pensieri; Sara a volte ne era inquietata ma non poteva che seguirlo in quelle vie prive di senso.
Quando erano giunti a Ponte Sant’Angelo sul Tevere, uno dei tre rimasti in piedi, era accaduta la catastrofe. Il ponte si poteva attraversare solo in determinati momenti della giornata quando la realtà in cui esisteva, quella normale, riusciva a farsi breccia tra le altre. Il rischio era perdere l’attimo e attraversarlo in un momento in cui il ponte, anche se era visibile, non esisteva. Nonostante questo pericolo il Ponte Sant’Angelo era il più vicino passaggio verso il Rifugio romano che dal Vaticano costeggiava il fiume fino all’Isola Tiberina. Se fossero riusciti ad attraversarlo sarebbero stati al sicuro. Sara era una Sapiente, poteva percepire il fluire delle realtà e avrebbe saputo scegliere il momento adatto.
Alla loro destra il fiume era un serpente verdognolo in un paesaggio grigio. Castel Sant’Angelo era una mole appena intuibile dietro una malaticcia foschia. Era infestato da esseri simili a fantasmi, ombre di divinità ormai dimenticate; bastava evitarlo ed entrare in via della Conciliazione per trovarsi nel Rifugio romano. Il Castello, che era stato originariamente costruito per ospitare le spoglie mortali dell’imperatore Adriano, non era semplicemente deformato, era sbagliato. La forma circolare era divenuta ellittica, allungata parallelamente al corso del fiume. L’angelo da cui il Castello prendeva nome era diventato un’enorme statua di medusa. Si diceva che pietrificasse chi guardava verso la sua testa brulicante di serpenti.
La cosa più inquietante, però, era il ponte. Sara l’aveva visto quand’era piccola e ricordava le statue di San Pietro e San Paolo affiancate da quelle degli angeli con i simboli della Passione. Ora queste statue erano di una pietra nera che luccicava dall’interno e rappresentavano scene mitologiche antiche e terribili. Ombre di uomini impiccati e di teste mozzate affollavano le spallette del ponte che nel Quattrocento era stato luogo di esecuzioni capitali.
Il vermide li aveva attaccati mentre erano sul ponte, salendo dal fiume. Una creatura strisciante, lunga dai venti ai trenta metri a seconda dell’angolatura da cui lo guardavi e con scaglie di un colore indefinibile. Ricordava la sua bocca a forma di tritacarne che ingoiava le gambe del sergente in uno stridere di ossa che si spezzavano e mandibole che si muovevano.
Lei stava in coda al gruppo, con due soldati e Paolo, e la mole dell’animale li aveva separati dagli altri.
“Scappiamo!” aveva urlato Paolo “Per loro non c’è più nulla da fare. La tua missione è troppo importante!”
Aveva guidato lei e due soldati rimasti fuori dal ponte che già stava smaterializzandosi sotto i loro piedi. Il vermide li aveva inseguiti, enorme tritacarne vivente, e aveva preso i due soldati che erano con loro per poi ritirarsi nel fiume, da dove era salito il rumore di centinaia di piccole mandibole che masticavano.
“Il Ponte non è sicuro. Dovevano esserci i Cavalieri ad attenderci ma evidentemente non ci hanno trovato”. Sara era sconvolta, il rumore di ossa triturate gli era penetrato nello stomaco e non ne voleva più uscire.
“Come fanno a non trovarci? Siamo a due passi dal Rifugio”. Paolo era sconcertato.
“Le distanze sono un concetto mutevole…”.
“Proviamo il ponte Sisto. L’anno scorso era ancora in piedi. È più lontano ma la zona non era eccessivamente infestata l’ultima volta che ci sono passato”.
“Ok. Tanto temo che questo passaggio non riapparirà in questa realtà per un po’, tanto vale andarcene. Quel vermide è la cosa più orrenda che abbia mai visto”.
Fu destata dai suoi pensieri da un rumore, dapprima lontano e confuso con le vibrazioni delle Lande, poi sempre più netto e nitido.
Passi.
“Cosa sono?” – chiese a Paolo che stava facendo la guardia.
“Uomini selvaggi”
“Sei sicuro?”
“Temo di si”.
“Cosa facciamo?”
Una fitta nebbia li avvolse emergendo dalle pareti delle case che sia affacciavano sul vicolo. Un forte rumore di cose trascinate e strappate li avvolse.
“Paolo! Dove sei?” Sara vedeva solo ombre. Sentì una fitta alla nuca e il buio l’avvolse.
Il comandante Riccardo De Santis era un veterano della prima guerra delle razze, quando l’uomo aveva combattuto ciò che il Sigillo di Plutone aveva vomitato. Ovviamente l’uomo aveva perso: non era facile combattere contro creature che facevano parte di altre realtà, rispondevano a fisiche, biologie e a meccaniche diverse dalla tua, mentre il tuo mondo perdeva coesione, tirato da ogni parte dai diversi presenti che lo avevano ricoperto, in una caotica mistura di spazio e tempo.
Era iniziata così la Drammatica Rotta, l’esodo dei superstiti verso i pochi luoghi dove la realtà si era preservata, sotto la guida della Confraternita della Rinascita, che nei secoli aveva custodito il Sigillo e che ora era l’unica a possedere gli arcana per combattere quella guerra. Si trattava di luoghi mistici sparsi in tutto il mondo. Non erano solo i più importanti luoghi di culto delle principali religioni ma anche posti intrisi di forte sacralità come i campi di sterminio e i gulag.
Tutti quei posti erano diventati semplicemente il mondo, ciò che era rimasto fuori da essi erano le Lande esterne, abitate solo da incubi materializzati.
“Trovato nulla?”
“Stavolta si. Ma non ho buone notizie”. Come De Santis, il sergente Braglia era un veterano della rotta, un uomo indurito da anni di battaglie e morti.
“Spara”.
“Uomini selvaggi. Hanno attaccato i due umani nella zona di Piazza Navona. Hanno catturato uno dei due, le impronte dell’altro scompaiono”.
“Maledizione! Prima il Vermide a Castel Sant’Angelo, poi gli Uomini selvaggi!”
“Comincio a pensare che questa spedizione sia stregata”.
“Che facciamo?”.
“Non sappiamo dov’è il loro accampamento. Dobbiamo muoverci con attenzione, quei vicoli sono pieni di insidie”.
Mentre Braglia andava a dare disposizioni, De Santis imprecò. Gli Uomini selvaggi erano un nemico temibile, come i loro animali. Erano uomini che adoravano gli esseri usciti dal Sigillo: avevano perso la loro umanità ed erano peggio di molte delle creature che infestavano le Lande esterne. Normalmente portavano una maschera consacrata alla loro divinità che li proteggeva dagli scompensi fisici e psichici che gli essere viventi subivanoa causa dei soggiorni prolungati fuori dai Rifugi.
Qualcuno la osservava, bonario, mentre lei stava imparando a camminare…
Non lo vedeva in volto ma sapeva che era sua padre. Le stava dicendo qualcosa ma lei non poteva sentire…
Poi l’uomo si tramutò in un essere informe che si preparò ad attaccarla…
Sara urlò svegliandosi e subito fu colta da paura e sconforto.
“Non ci vedo!”
Fu un attimo, poi si rese conto di avere una benda sugli occhi. Comprese pure di essere legata, prona e in una posizione molto scomoda, a qualche sorta di duro ceppo di legno. Un vento umido le sferzava la pelle.
Era nuda.
Ricordò l’attacco degli Uomini selvaggi, la nebbia, e il dolore alla nuca.
L’avevano catturata.
Rabbrividì: si dicevano cose terribili sugli Uomini selvaggi. Avevano rinunciato alla propria umanità per adorare una delle Creature del Sigillo, ottenendone in cambio potere e protezione nelle Lande esterne. Così vicini al Rifugio romano non ce ne sarebbero dovuti essere ma le distanze erano qualcosa di aleatorio ormai e luoghi un tempo tra loro vicinissimi ora potevano essere molto distanti.
“Ti sei svegliata, alla fine” – la voce aveva un tono bonario che ne nascondeva uno molto più inquietante. Conosceva quella voce ma non riusciva a collegarle un nome, aveva ancora un mal di testa del diavolo.
“Chi sei?” – chiese sforzandosi di mantenere la calma.
“Sono colui che grazie a te rinascerà a nuova vita…”.
“Procedi” – ordinò una perentoria seconda voce, stavolta femminile, che la ragazza non conosceva. Aveva una specie di rimbombo, come se provenisse da dietro una maschera.
Sara sentì alcuni movimenti intorno a lei, poi un attimo si silenzio seguito da un fruscio e da uno schiocco.
La prima volta urlò più per la sorpresa che per il dolore. Poi fu un lunghissimo susseguirsi fitte lancinanti alle natiche e alla schiena. Era come se decine di lame le tagliassero le carni all’unisono. Mentre la frustavano cantavano una specie di litania in una lingua incomprensibile.
Quello strazio durò un tempo indefinibile. Due volte Sara svenì ed in entrambi i casi i suoi aguzzini la costrinsero a riprendersi con i sali per proseguire la loro rabbiosa vendetta.
Quando ebbero finito Sarà sentì che qualcuno le passava qualcosa di viscido sulle piaghe. Inizialmente il bruciore fu insopportabile, poi un benefico torpore la invase.
Sinousis.
Erano una specie di sanguisughe che secernevano un anestetico. Per la prima in vita sua benedì l’esistenza di una creatura del sigillo.
Sentì altre urla strazianti intorno a sé. Non era sola.
“Va meglio?” chiese la stessa voce falsamente premurosa.
“Perché mi fai questo?”. Il tono voleva essere di sfida ma ne uscì una supplica infantile.
“Perché il sangue, frutto della tua sofferenza, verrà offerto a Gorgoroth e in cambio lui mi consacrerà alla Sua Verità”.
“Sei pazzo…”.
L’uomo la schiaffeggiò.
“Taci. Io diventerò un Eletto e la tua anima, mondata attraverso la sofferenza, sarà salva e potrà diventare parte di Lui….”.
Sara sputò, pur sapendo che l’avrebbe mancato. “Toglimi le bende, stronzo, che voglio vederti in faccia”.
“Mi vedrai presto e soprattutto farai parte di Gorgoroth l’Onnipotente, Signore del Sottosuolo: o beata ragazza!”
“Cos…cosa vuol dire? Chi è Gorgoroth?”. Sara era una Sapiente ma questo essere non lo conosceva.
“Lo saprai a tempo debito”.
Ci fu di nuovo silenzio e qualche passo. Vista l’esperienza precedente, Sara si irrigidì, temendo di essere frustata nuovamente. Iniziò a girare la testa nella speranza che la benda cadesse ma si arrestò con un urlo strozzato quando sentì una nuova forma di sofferenza, fatta di violazione e lacerazione, mentre la voce che conosceva la violentava da dietro, in tutti i modi possibili.
Stavolta quando svenne nessuno la obbligò a riprendersi.
“Parla, cane!” – Riccardo de Stantis mollò un altro calcio nei testicoli dell’uomo selvaggio che si contorceva sul selciato lurido. era coperto solo da un perizoma di pelle e aveva una maschera da fauno.
Quella zona delle Lande esterne romane era tra le peggiori. Il vento sembrava montare dai pori della terra stessa e cantare nei vicoli, parlando a chi avesse avuto la sventura di passarvi. Riproduceva motivi e canzoni note agli uomini, in una sorta di struggente versione blues cantata da una voce provata da decine di sigarette.
Lo chiamavano Il lamento del fantasma ed effettivamente evocava vecchi castelli con cancelli arrugginiti che cigolavano mossi dal vento. Ricordava catene sbattute nella notte.
La voce nel vento non parlava a tutti nello stesso modo. Ciascuno udiva un canto diverso, personalizzato che era la somma di inganni, paure e minacce.
Un soldato si commosse sentendo la ninna nanna che gli cantava la madre defunta. Si era messo urlare e vomitare quando la voce materna gli aveva raccontato di spassarsela con tutte le anime dell’inferno.
Braglia aveva colto le strofe di Innuendo del Queen. A un tratto il ritornello si era trasformato in una cacofonia di insulti e minacce di morte per lui e la sua famiglia.
Prima di concentrarsi sull’interrogatorio, De Santis stava ascoltando Fear of the dark modificata in Fear of the gurling throat of stone.
“Paura della gorgogliante gola di pietra: cosa diavolo vorrà dire?”. Si era chiesto cupo.
Il prigioniero sembrava non far caso al “lamento”.
“Non ti dirò nulla, mezzo umano. Io sono un Rinato e Gorgoroth mi proteggerà”.
“Tu sei un reietto, hai tradito la tua razza e morirai. Devi scegliere se essere ucciso qui velocemente essere dato in pasto alla folla nel Rifugio: ti scorticheranno vivo e ti strapperanno la maschera”.
“No! Così dannerai la mia anima!”
“Non me ne frega un cazzo! Dimmi dove sono gli umani che avete catturato e la tua anima sarà salva. Dimmi se c’è la ragazza e cos’è o chi è Gorgoroth”.
Il selvaggio glielo disse.
De Santis pugnalò il selvaggio al cuore e poi scatenò i Cavalieri alla carica.
Quando Sara riprese i sensi cadeva una pioggia fangosa; poteva sentire le pesanti gocce caderle dolorosamente sulle piaghe. Qualcuno l’aveva coperta con un telo di un tessuto molto fresco e questo le dava un po’ di sollievo.
Tutta la parte bassa del suo corpo era calda e pulsava. Era cieca, sola e nuda alla mercè di esseri che non avevano più nulla di umano.
Aveva il volto sporco di terriccio bagnato, sangue e lacrime. Ormai non aveva più voce per urlare né conosceva altre maledizioni da mandare a suo padre, colpevole di tutto questo, il cui ricordo era sepolto da metri e metri rabbia.
Le corde con cui era legata le avevano scavato piaghe profonde nei polsi e nelle caviglie.
Stavolta l’ambiente intorno a lei era cambiato. Sentiva distintamente una forte musica tribale che vibrava con un ritmo sempre più forsennato. Era il rumore di tamburi suonati all’impazzata e di piedi battuti a terra; ma era anche il suono di calici che brindavano e la somma di decine di gemiti di piacere. C’era, però, un sottofondo di paura e dolore che il suono della festa stentava a nascondere.
Quando sentì qualcuno avvicinarsi a lei non poté fare a meno di sobbalzare sul suo scomodo giaciglio, il cuore che batteva all’impazzata.
“Ti prego – piagnucolò – non farmi ancora del male”.
“Stai tranquilla – le rispose la voce che l’aveva frustata, sodomizzata e violentata – il tempo della sofferenza è finito, ora inizia quello della partecipazione”.
Mani forti le slegarono polsi e caviglie e l’aiutarono ad alzarsi. Aveva la schiena e le gambe anchilosate e le sembrava che centinaia di chiodi le perforassero tutto il corpo. Senza toglierle la benda l’uomo la sorresse, accompagnandola verso il cuore del rumore, il centro della grande festa che si stava svolgendo intorno a lei.
“Ferma qui. Dobbiamo aspettare il nostro turno per rinascere…”.
Sara sentì qualcuno urlare di terrore mentre il pulsare della cerimonia si abbassava di tono, come in attesa. Fu un urlo prolungato e disperato, seguito da un boato di acclamazione. La ragazza si irrigidì e sentì le mani dell’uomo che l’accarezzavano affettuosamente.
Altre due volte qualcuno urlò e poi altri esultarono. A Sara sembrava che tutte le volte a gridare fossero state due persone diverse. Ormai sapeva che avrebbe presto scoperto di cosa si trattava.
Piangendo si aggrappò al suo aguzzino.
“E’ ora”. La voce si era fatta più ermetica e Sara vi aveva colto una venatura di dubbio.
Lei aveva ormai deciso che non avrebbe dato loro la soddisfazione di opporre resistenza. Se doveva morire, e ormai ne era convintissima, lo avrebbe fatto da essere umano. Seguì docile il suo terribile compagno che la fece sdraiare su una sorta di lettiga. Sembrava fatta di paglia ma era comoda e calda. Fu nuovamente spogliata e legata. Qualcuno le tolse la benda.
Urlò.
Era legata a una specie di lettiga, rivolta verso una voragine pulsante nel terreno. Non aveva mai visto una cosa così terrificante e impossibile in vita sua. I palazzi si erano sciolti in un vortice di fango ribollente. Dall’enorme gola di pietra saliva un calore infernale. C’erano delle persone imprigionate e stritolate dalla roccia. Per un attimo alcuni riuscivano a protendere disperatamente gli arti e il collo disarticolato fuori da quell’oceano di roccia fusa e terriccio, prima di affogarvi nuovamente.
Erano vivi e il loro gemiti s’innalzavano come una preghiera disperata.
Distolse lo sguardo e iniziò a girare convulsamente la testa tutt’intorno. Al suo fianco un altro giaciglio ospitava un uomo all’apparenza giovane, nudo e legato a sua volta, con indosso una maschera di vimini: suppose che fosse il suo aguzzino che si preparava a rinascere.
Intorno a lei si svolgeva un’orgia senza fine fatta di libagioni, canti e danze da ubriachi. Esseri umani e creature simili a satiri e fauni avevano tra loro rapporti sessuali multipli.
Gli uomini che vedeva avevano tutti il volto ricoperto da maschere che ricordavano il volto di folletti pazzi. Sembravano di cera ma avevano una strana tonalità vermiglia.
Mentre, terrorizzata, spostava lo sguardo il più lontano dall’incubo che aveva davanti agli occhi, notò la fontana dei Fiumi del Bernini.
Si trovava a Piazza Navona. Come tutta quella versione maledetta di Roma, però, anche la piazza era uguale all’originale e sbagliata al tempo stesso: idoli raffiguranti esseri informi, senza volto ma con numerose teste e arti, avevano preso il posto del Danubbio, del Nilo, del Gange e del Rio della Plata.
Il ghigno di fango e fiamma che l’attendeva aveva sostituito gli edifici che circondavano la piazza. Orientandosi con la posizione della fontana si rese conto che la cosa era apparsa dove prima c’era la chiesa di Sant’Agnese in Agone
Una donna dai seni gonfi e cadenti le si parò davanti. Aveva una maschera inespressiva e gelida, raffigurante un essere mezzo donna e mezzo vermide. “Ora tu ti unirai a Gorgoroth, signore del Sottosuolo. Lui ti trasformerà in buoni frutti per la terra e in prosperità per i suoi fedeli. Diventerai parte di Lui e la tua anima vivrà sempre nella Sua Gloria”.
Sara comprese che la sua sorte era quella dei corpi disperati che si agitavano nella gola di Gorgoroth.
La donna si avvicinò alla lettiga su cui era legato il suo aguzzino e gli tolse la maschera.
Era Paolo.
Sara urlò: “Traditore! Ci hai condotti qui con l’inganno, che tu sia maledetto!”.
Paolo non rispose, probabilmente in trance. La sacerdotessa gli mostrò una maschera di ferro dalla forma vagamente umana. Era arroventata ma la donna la teneva in mano senza apparente fatica. Due ragazze, mascherate da cerve, che dai seni sembravano molto più giovani della sacerdotessa portarono una cesta di vimini brulicante di sinousis ,che si contorcevano. Presero una di esse e la schiacciarono dentro una specie di piccola pressa. Il sangue colò nella maschera di ferro. Fecero lo stesso con tutte le sinousis.
“E’ il mio sangue. La maschera è fatta con una mistura di cera e sangue della vittima sacrificale, ecco perché quel colore!”
Due uomini bloccarono la testa di Paolo mentre la sacerdotessa gli applicò la maschera al viso.
Puzzo di carne bruciata e fumo.
Paolo lanciò un grido lunghissimo che esprimeva esaltazione e dolore, come un orgasmo ottenuto violentemente. Poi iniziò a dimenarsi come un tarantolato, mentre le due fanciulle gli buttavano acqua sul volto. Quello che era stato la sua guida e che poi l’aveva tradita svenne in un gemito, restando ansimante sul giaciglio.
La sacerdotessa le si avvicinò nuovamente e le sorrise da sotto il volto ci cera e sangue. I due uomini e le due donne che avevano aiutato Paolo nel rituale sollevarono di peso la sua lettiga.
“Gorgoroth accetta il nostro dono!”
Sara non ebbe nemmeno il tempo di urlare mentre veniva sollevata sull’orlo della bocca di pietra e scaraventata in quel tormento.
Quando gli avevano sciolto la maschera sul viso, Paolo aveva gridato di dolore ma aveva provato l’estremo orgasmo della rinascita.
Il veleno delle sinousis, assorbito dalla sua pelle bruciata, l’aveva fatto piombare nel piacevole torpore che lo prendeva dopo un rapporto sessuale soddisfacente. Lo stesso che aveva provato dopo aver violentato la Sapiente (Chiara? Sara? Non ricordava). Il dolore al volto era un pulsante compagno lasciato ai margini della sua percezione.
Ora era in pace.
I suoni della festa giungevano ovattati, come se avesse avuto i tappi nelle orecchie. Libagioni e orge. Risa e canzoni. Presto ne avrebbe fatto parte.
Peccato per la ragazza. Un po’ le si era affezionato. Era in gamba e molto bella ma purtroppo era un’Infedele. Legata al mondo che non c’era più non avrebbe mai accettato la Vera fede in Gorgoroth.
Se la immaginò mentre cadeva nella gola urlante di pietra.
Tra le piaghe del volto, pietosamente coperte dalla maschera si fece strada una piccola lacrima.
Athanatos!
Il grido ruppe l’incantesimo e lo fece ripiombare in un delirio di dolore. Il viso bruciato iniziò a pulsargli e sentì il pus che usciva dalle piaghe.
Non era la voce di un essere umano a strillare.
La terra stessa stava urlando di rabbia.
I rumori della festa diventavano rumori di paura e terrore.
Qualcosa di solido e viscido insieme lo prese, trascinandolo verso il basso.
“Rinascita!”
I Cavalieri della Fenice piombarono su Piazza Navona come furie. Avevano cavalli grigi come l’oblio e armature lucenti sopra le mimetiche. Il simbolo dell’uccello che risorgeva dalle sue ceneri fiammeggiava sui loro mantelli.
Gli elmi avevano la celata intagliata in foggia di spaventosa maschera di guerra.
“Fermi!” De Santis fermò i suoi alzando la mano.
Piazza Navona era una disarmonia di macerie e corpi in putrefazione. C’era un’immane voragine a un lato della piazza, che era esplosa invadendo tutto con centinaia di lingue di fango che si erano pietrificate come i resti di un’antica colata lavica. Qualcosa la sotto covava e pulsava ancora ma per il momento Gorgoroth era nascosto in qualche luogo del suo regno a leccarsi le ferite.
Prima del Buio De Santis aveva aiutato lo zio che faceva il becchino. Lo chiamavano il Tarta perché era balbuziente.
“And..ddiamo a..a.. lib..berare una st..anza per. Un nuov.vo osbite” diceva sempre quando andavano a riesumare un cadavere, sorridendo con l’unico dente risparmiato dalla piorrea. L’odore che aleggiava in quella piazza era lo stesso di una bara appena aperta dopo anni di sepoltura, solo che era elevato all’ennesima potenza.
“Cos’è successo?”. Di Fronte a quello scempio anche un uomo indurito come Braglia aveva la voce incrinata. Sembra di trovarsi in un deposito di rifiuti organici, un luogo dove venivano buttati i resti di una macelleria e dove i cani randagi non venivano a ripulirli da troppo tempo.
“Non lo so. Ma sembrerebbe che il sacrificio non sia stato gradito.”
“Che facciamo?”.
“Perquisite tutta l’area. Uccidete i feriti e se trovate la ragazza chiamatemi subito”.
“Nutri ancora delle speranze?”
“Non so più cosa nutrire…”.
Sara correva in un corridoio buio. Dietro di lei suo padre, mascherato, l’inseguiva per picchiarla….una mano l’afferrò e la tenne saldamente.
Paolo….
No!
Si svegliò in mezzo a una specie di schiuma fangosa.
Il sangue di Gorgoroth
Chi aveva parlato?
Non aveva mai sentito quella voce, eppure le era famigliare. Tentò di alzarsi ma era imprigionata in quella specie di colla viscida e maleodorante. Intorno a lei c’erano alcuni cadaveri scempiati, sputati dalle fauci del dio. Il corpo le doleva ma era viva e il cielo ingrigito sopra di lei dimostrava che non si trovava più nelle fauci del dio mostruoso.
Ricordava il terrore quando l’avevano precipitata nella voragine ribollente. Rammentava il senso di vuoto e gelo che aveva provato quando era stata avvolta da Gorgoroth, un essere alieno ed egoista.
Un urlo che era l’apoteosi di tutti gli urli le aveva fatto perdere i sensi.
Ricordava di aver percepito qualcosa in quel grido, non solo la rabbia.
Paura.
Di cosa?
Di te
Di me?
Tu puoi ferirlo. Sei l’unica. Per questo ti ha sputata.
Io? Come è possibile?
Athanatos
Immortale: che vuoi dire?
Tu sei Athanatos.
“E’ qui”. Una voce.
“Presto!”. Un’altra voce.
“E’ un miracolo”. Di nuovo la prima voce.
Sara si guardò intorno per cercare i nuovi venuti e per capire dove si trovasse. Era nella parte opposta della piazza. Non c’era arrivata scagliata come il proiettile di una catapulta, ma insieme a una colata di quella specie di magma schiumoso.
Il sangue di Gorgoroth
Riccardo de Santis accorse quasi volteggiò su detriti e cadaveri per raggiungere il punto da cui il soldato lo aveva chiamato.
Sara era lì, immersa in quella bava polverosa che ricopriva l’intera piazza.
Viva.
Erano passati dieci anni da quando l’aveva vista l’ultima volta. Allora era ancora una ragazzina, seppur segnata come tutti dal disastro del loro mondo. Ora era una donna, piuttosto bella nonostante fosse sporca e pesta in tutto il corpo.
Corse da lei e l’abbracciò.
Sara lo guardò negli occhi.
Sembravano neri pozzi senza fondo.
Erano gli occhi di una creatura molto più vecchia di quello che sembrava guardando il suo corpo.
Se la morte avesse avuto occhi, sarebbero stati come quelli neri di Sara.
AUTORE - GABRIELE
LA PROVVIDENZA
“Cosa diavolo…” vide l’animale solo all’ultimo momento, sbucare dall’indistinto sfondo nebbioso come materializzato dal nulla, sterzò d’istinto verso sinistra ma quella manovra gli fui fatale. La banchina cedette e l’auto si coricò nel fosso su un fianco, rovinosamente. Chiara gli cadde addosso con un gemito, il motore morì con un singulto e con esso si spensero tutte le luci.
“Ti sei fatta male?”
“No. Solo una botta al ginocchio, ho preso contro il cambio. Cos’era?”.
“Una marmotta, o forse un gatto, è saltato sul cofano, mi dispiace.”
“Non preoccuparti, ma portami via di qui, questo posto mette i brividi; e accendi la luce, vedo ancora meno di prima”.
L’auto era appoggiata col lato sinistro sul fondo melmoso del canale, il fango stava già penetrando le finiture della portiera, imbrattando tutto. Ivan tentò di riavviare il motore, ma per ben tre volte l’avviamento fece cilecca. Colpì il quadro comandi con un pugno.
“Fammi passare. Devo raggiungere il bagagliaio: lì c’è una torcia. Sta attenta, potrebbero esserci dei vetri. Ivan strisciò con una certa fatica tra i due sedili, mentre Chiara, che fortunatamente era piuttosto minuta si stringeva il più possibile sul parabrezza. Aveva sbattuto la bocca contro il volante e il labbro inferiore, gonfissimo, mandava dolorosi segnali di protesta. Fortunatamente aveva tolto il pianale, per montare le casse dell’autoradio, così poteva raggiungere il portabagagli dall’interno. Sempre al buio, tastò con lentezza in cerca della cassetta di plastica in cui teneva vari attrezzi d’emergenza. Sentì Chiara che lo chiamava con un filo di voce. “Ivan?”
“Dimmi”.
“C’è qualcosa in macchina”.
“Cosa?”
“Non so, un animale. Mi è passato vicino alla caviglia e mi sta mordicchiando le calze”
“Tranquilla. Stai ferma: ho quasi trovato la cassa… cazzo”
Sentì un dolore fortissimo alla mano, come se qualcuno lo avesse colpito con un rasoio. D’istinto tirò a se il braccio sentì una massa pelosa che gli si scagliava sulla faccia. Una piccola tagliola gli strinse la guancia destra, sangue caldo gli imbrattò la camicia, mentre in un angolo remoto della sua mente sentiva Chiara urlare. Si strappò letteralmente l’ammasso di peli dalla faccia e lo scagliò lontano; sentì il tonfo flaccido di quel corpo su quel che restava del lunotto posteriore della Panda. Tastò in tutte le direzioni come una furia e finalmente trovò la cassetta, immersa nella fanghiglia che stava entrando anche in quel punto. Fortunatamente il coperchio si era aperto quando la scatola di plastica aveva picchiato con forza sul fianco di lamiera dell’auto; trovò la torcia e l’accese. Subito diresse il fascio di luce verso la ragazza e vide subito cosa aveva invaso l’auto. Nell’impatto il parabrezza si era spaccato contro un grosso tubo che, per qualche ragione attraversava longitudinalmente il fossato quasi al livello del terreno: alcuni grossi topi, forse svegliati dall’incidente, erano entrati. Quello che aveva morso lui giaceva tramortito sul fondo del bagagliaio, altri due stavano mordicchiando Chiara. Alla vista della luce la ragazza capì cosa aveva addosso e il disgusto la fece reagire con ferocia, strappò lo specchietto interno e lo usò come clava per spaccare la testa al primo dei due, Ivan fu sull’altro e lo fece sbattere sulla leva del cambio, finché l’animale non smise di contorcersi. “prendi questo, lurido bastardo”.
Ivan sbloccò la portiera del lato passeggeri e spinse con forza per mantenerla aperta, puntando i piedi sull’incavo tra i due sedili.
“Presto, esci” intimò alla ragazza puntando la torcia verso di lei “io ti seguo. Questo fosso mi ha scocciato. Prendi il telefonino.”
Chiara cercò il portatile nella borsetta, si tolse le scarpe, le tenne in una mano e mise i piedi sul piantone dello sterzo, tirando con forza la cintura di sicurezza; si trovò con la pancia sdraiata sul parafango destro. Si drizzò e si arrampicò fuori dal fossato, in mezzo alla nebbia, ma mentre era quasi sulla strada, un piede le scivolò sull’erba umida e perse l’equilibrio. Ivan, che, abbandonata l’auto, si era issato fuori dal canale con più agilità, le afferrò la mano e la trattenne, ma le scarpe le sfuggirono di mano, finendo in fondo al fosso, nella nebbia. “Maledizione!”
Ivan tentò di scandagliare i dintorni con la torcia ma non riuscì a vedere le scarpe, la nebbia rifletteva la luce della torcia in un giallo alone accecante: anche per guardarsi in faccia dovevano stare vicinissimi. Osservò la ragazza con preoccupazione: aveva le calze strappate in più punti, il ginocchio sanguinante e la caviglia mordicchiata in più punti. Un occhio era tumefatto. Aveva l’aria di essere sul punto di esplodere.
“Mi sono anche rotta un’unghia, maledizione” disse lei sforzandosi di sorridere.
“Ti sanguina la guancia, speriamo che quei topi non fossero infetti”.
“Lo scopriremo dopo. Ora chiamo mio padre e gli dico di venirmi a prendere. Intanto mettiti le mie scarpe, io ho i calzettoni, tu non puoi camminare sull’asfalto con i collant”
Ivan richiamò il numero dalla rubrica del cellulare e non riuscì a soffocare un'imprecazione scurrile: LINEA INTERROTTA.
“Prova col tuo, tesoro, il mio non prende”.
Chiara armeggiò alcuni istanti col telefono, poi un’espressione di terrore e rabbia insieme le si dipinse sul viso sporco di terra. LINEA INTERROTTA.
“Maledizione!” esplose “questo cazzo d’affare non funziona! Con quello che l’ho pagato, solo in quella cazzo di pubblicità quei quattro stronzi riescono a parlare senza problemi, quando ti serve veramente non funziona mai…” lanciò con violenza il piccolo guscio di plastica per terra, spaccandolo in due pezzi.
Ivan tentò di calmarla stringendole la vita con un braccio. Ma lei proseguì il suo sfogo, divincolandosi: “Proprio in questo posto dimenticato dagli uomini dovevi portarmi a mangiare… non potevamo andare in un qualche bel locale del centro… La Provvidenza proprio un nome azzeccato, se ci arrivi devi accendere due ceri alla Madonna!”.
“Zitta!”.
“Come osi…”
“Ascolta. Sono passi, forse c’è qualcuno, e magari ha un telefono”.
“Sei sicuro? Non ho sentito nulla.”
“Forse mi sbaglio, forse no. Ma quel maledetto ristorante non può essere lontano e visto che siamo senza auto e senza telefono, possiamo solo andare avanti. Mettiamoci in mezzo alla strada, più o meno, visto che nemmeno si vede, la strada. Devo spegnere la torcia o si scaricherà. Teniamoci per mano.”
“OK”.
I minuti passavano lenti come i loro passi. Era come camminare in una grotta: i rumori della notte erano attutiti. A volte si chinavano per terra, perché verso il terreno la coltre era più rada, ma più avanzavano verso il punto in cui avrebbe dovuto trovarsi La Provvidenza più la nebbia diveniva fitta: ormai anche nei brevi intervalli in cui accendevano la torcia elettrica, non vedevano che i contorni di loro stessi. Ivan aveva sentito ancora una volta quel rumore di passi, provenire da un punto in cui avrebbe dovuto esserci solo campagna. Ad un tratto il rumore si sentì più nitido, il pesante scalpiccio di qualcosa di molto grosso che spiccava un balzo. Una massa indistinta e pelosa cadde rovinosamente su di loro. Chiara gemette mentre si staccava dal ragazzo. Ivan urlò più per lo spavento che per il dolore, mentre denti aguzzi affondavano nella sua caviglia. Accese la torcia ma l’essere si dimenava come indiavolato e il ragazzo perse la presa: il cilindro di plastica cade lontano.
“Ivan! Cos’è? Dove sei? Non ti vedo!”
“La torcia, prendi la torcia è qui per terra, da qualche parte”. L’animale non faceva versi, si limitava a mordere. Il ragazzo sferrò un pugno alla cieca, colpendo qualcosa di caldo, ricoperto da un pelo stopposo; la bestia non lasciò la presa. Ivan si dimenò, tentando di liberarsi, poi gli parve di perdere l’equilibrio, sebbene fosse già a terra. Una remota parte della sua mente registrò l’irrealtà del momento: una nebbia insolitamente densa, ben due telefoni che non avevano campo… mentre il resto della sua coscienza veniva lentamente avvolto dalle tenebre più nere.
“Dove diavolo era Chiara?”
Aveva rovistato il terreno tutto intorno. Sentiva in lontananza, Ivan che lottava, ma non riusciva a vederlo, né a toccarlo, sebbene fossero stati vicinissimi quando quell’essere era piombato loro addosso. A un tratto, però, i rumori che venivano dalla colluttazione cessarono e lei fu sola nella notte.
“Ivan?” nessuna risposta. “Dove sei?” Nulla.
Tastò furiosamente il terreno intorno a lei, strisciò in tutte le direzioni, ma non trovò nessuna traccia né del ragazzo né di quella cosa che gli aveva attaccati. In preda al panico si mise a correre zigzagando, nella speranza di inciampare su di lui. Alla fine trovò di nuovo il fosso (quello di destra? quello di sinistra?) e vi cadde rovinosamente. Rimase lì, la schiena appoggiata all’erba umida, il bel vestito nuovo inzuppato di fango puzzolente.
Forse dormì un po’, perché quando riprese coscienza la nebbia si era molto diradata. Cercò speranzosa il telefonino, poi ricordò di averlo gettato a terra.
La notte era ancora senza stelle, ma riuscì a scorgere qualcosa: la torcia giaceva conficcata sul fondo melmoso del fosso, a pochi metri da lei. La prese e l’accese, illuminando tutt’intorno, poi urlò.
Il corpo di Ivan giaceva nel canale in una posa quasi comica, con la testa fracassata contro un grande sasso aguzzo, ora imbrattato di materia cerebrale. Il grosso randagio che li aveva assaliti stava leccandolo avidamente.
Chiara non riuscì a frenare il disgusto e rigettò.
Si arrampicò a fatica sulla strada, con lo stomaco sottosopra; appena si mise in piedi, notò il gruppetto di case; un beffardo cartello annunciava: La Provvidenza – Limite dei 50 Km7h – vietato usare il segnalatore acustico.
“Avevi ragione, quel maledetto ristorante non era lontano. Forse facevamo ancora in tempo a prendere una pizza…”.
In un quotidiano locale, il giorno dopo, si poteva leggere: “[…] gli scienziati si interrogheranno a lungo sul black out che ha colpito la rete di telefonia mobile in tutta la provincia ieri sera dalle 23 alle 24. Il guasto nel perfetto rispetto delle regole di concorrenza ha interessato tutti i gestori presenti: l’Associazione dei Consumatori ha denunciato il fatto all’Autorità per le Telecomunicazioni, chiedendo un risarcimento record […].
AUTORE - GABRIELE
26 maggio 2005
DITEMI VOI SE NON SON MATTO…
A PRESTO IL LINK DELL'ANTOLOGIA IN CUI POTRETE TROVARLO
ELEVATION
L’assaporo come tutte le atre sensazioni. Positive o negative che siano.
Spesso mi sono chiesto come facciate a vivere con tutto questo sentire…
Il grigiore avvolge tutto.
Avrei dovuto capire che oggi sarebbe stata una giornata grigia.Mi sono alzato con una sensazione di vuoto e l'amaro in bocca.
Con la percezione tattile di mancanza, come se nella notte avessi perso qualcosa. Ormai non ci rimugino più. So già il motivo.
Una canzoncina, la sigla di un telefilm, mi rimbomba nella testa.
Sembra strano eppure mi conforta.
Mi butto tra la folla di pedoni che marcia verso il posto di lavoro. Uomini in giacca e cravatta si mischiano a semplici operai in tuta e a ragazzini abbigliati con le uniformi imposte dalla moda. C’è chi pensa ai figli appena portati a scuola e chi medita sul come chiudere un’importante contratto.
I bar, lungo la strada, sono pieni di persone che, con cornetto e cappuccino alla mano, discorrono del week-end appena trascorso.
In questa bolgia di suoni, umori e pensieri, mi sento fuori luogo. Mi sento un estraneo in un mondo di estranei. Oggi la gravità di questo pianeta mi infastidisce. Vorrei liberare il mio corpo. Vorrei lasciarlo volare nell’alto del cielo. Mi sento strano. Mi sembra di star riassaporando sensazioni alle quali avevo rinunciato per questa vita mortale…
La mia è solo una prova. Non mi sono allontanato per dissapori come gli altri. Mi sono sistemato qui in attesa della chiamata. Volevo la possibilità di capire il perché di certe decisioni. Il come si poteva rinunciare a parte di ciò che siamo per vivere un’esistenza innaturale. Questo è quello che sto provando.
Mi sono legato alla mondanità rinunciando a tutto. Eppure oggi qualcosa è diverso. Tendo le orecchie cercando di percepire il segnale.
Niente.
Ritorno nel mondo con tutti i miei sensi. Scatta il verde per i pedoni. Pochi passi ed eccomi davanti all’ufficio. Salgo le scale incrociando alcune colleghe. Mi guardano incantate, come se non credessero alla mia esistenza. Da vent’anni lo leggo nei loro occhi. Tutta colpa del mio odore, dolce e incantevole. All’inizio cercavo di affogarlo sotto litri di C.K. ONE; poi mi sono rassegnato al fatto che non mi avrebbe mai lasciato; che fa parte del mio essere.
Varco la soglia e un’aria di banalità e monotonia mi avvolge. Faccio i soliti pochi passi per timbrare il cartellino e per arrivare al mio loculo; è così che mi piace definire il mio ufficio. Trovo che sia il termine che lo descriva meglio. Piccolo e soffocante, a misura di un solo uomo. Dall’unica finestra vedo il palazzo dell’università, più precisamente l’ufficio di Sandy. Anche lei sta nel suo loculo ormai da vent’anni. In tutti questi anni di buon vicinato non abbiamo fatto altro che spiarci, mai una parola a quattrocchi. Eppure tra noi c’e un rapporto speciale. Abbiamo condiviso con gesti e parole, scritte su vetri appannati, alcuni momenti importanti delle nostre vite. Soprattutto della sua. Le voglio bene. Amo vederla mangiare il suo sandwich alla finestra riscaldandosi ai tenui raggi del sole.
Sapere che c’è mi conforta e mi salva dai tristi momenti di lucidità che a volte mi colgono…
Mi alzo dalla scrivania e, mentre porto avanti le mie mansioni, ne approfitto per fare un giro nell’ufficio.
Poi ad un tratto…BAMM!
Mi accorgo di qualcosa; qualcosa che stride e mi spiazza. Mi pongo una semplice ma fondamentale domanda… CHE CAVOLO CI FACCIO QUI?
Allora nella testa mi si apre una voragine. Tutto diventa buio o estremamente bianco come una fotografia sovresposta...Realizzo l'inutilità di tutte quelle cose che ti hanno fatto credere importanti... Mi aggiro, nel vuoto di una semiesistenza, e continuo come se non fosse accaduto mai niente, sentendomi ancora più vicino a voi e rendendomi conto di come una sensazione possa far perdere, all’uomo, la speranza e la fede…
Realtà.
L’unica cosa che mi riporta alla realtà e il forte aroma del caffè.
Così, come sempre, infilo qualche moneta nella macchinetta e mi prendo un dolcissimo ristretto. Lo sorseggio lì, in mezzo ai colleghi della “sigaretta delle dieci”. Paul, Katy e Adam; sempre loro.
Finito di bere raschio il fondo del bicchierino, con la palettina di plastica, per recuperare tutto lo zucchero rimasto e farne un solo boccone.
Lo zucchero è il mio toccasana; dopo averlo mangiato mi sento come in paradiso!
Solitamente la giornata continua serena, tranquilla e monotona fino all’orario di uscita. Oggi invece è diverso… sentivo che lo era…
Un’enorme boato. Come il ruggito di duecento leoni scuote l’aria.
La finestra del mio ufficio esplode letteralmente in mille pezzi lasciando un grande squarcio nella parete di spessi mattoni.
Alzo lo sguardo verso il loculo di Sandy nella speranza di capire.
Ma l’unica cosa che capisco è ciò che voi chiamate disperazione.
Il palazzo dell’università sta crollando. Collassa letteralmente su se stesso.
Sento le grida disperate di uomini e donne. Mani che si agitano al vento.
Odo le preghiere che provengono dai loro cuori…
Vedo le anime che ascendo... tra esse riconosco quella di Sandy.
Lo sconforto si impossessa del mio intero essere. Il dolore per la perdita di una persona per me importante mi dilania. Ora so cosa significa essere mortali.
Ora so cosa sentite nella morte.
Mi sembra che il cuore sia diventato più pesante; che batta ogni volta che una stella si spegne.
Sembra esplodere facendosi a pezzi e ricostituendosi nuovamente ad ogni battito; ripercorrendo questo ciclo all’infinito.
Le braccia si fanno pensanti. La testa segue quel moto esplosivo lasciandomi senza pensieri e senza idee. Incredulità. Assenza completa…
Il suono di un ottone si propaga nell’aria.
Se lo sento vuol dire che ci siamo…
Mi avvicino al ciglio del palazzo.
Guardo fuori. Un’enorme voragine si è aperta sulla crosta terrestre.
Manca poco ormai.
Mi levo la giacca che aggancio alla sedia in modo da non sgualcirla.
Mi chiedo perché mai abbia fatto quel gesto: so che non la indosserò mai più…
Questione di abitudine: mi rispondo.
Con delicatezza faccio passare i bottoni della camicia attraverso le asole.
Slaccio la fibbia della cintura. Con calma e naturalezza mi sfilo i pantaloni e le scarpe.
Rimango nudo. Naturale. Espongo finalmente la mia androginia al mondo. Respiro profondamente. Un respiro di rinascita. Rilascio l’aria che mi riempie i polmoni. Non sono più nudo. Non sono più un uomo.
Dopo anni percepiti come secoli la mia figura è tornata all’antico splendore.
Le sento sbattere l’aria. Non serve neanche che mi concentri.
Riesco perfettamente a muovere le tre paia d’ali alle quali avevo rinunciato. Candidamente splendide. Ripercepisco il mondo come solo un angelo può fare. Eppure mi sento triste. Lacrime scure escono dai miei occhi. Lacrime per una mortalità che non tornerà mai più. Lacrime per un mondo che sta finendo. LUI mi parla. Sento l’amore che solo LUI può trasmettere. Un canto esce dalle mie labbra. Qualcosa si muove dal fondo del mondo. Il momento è giunto. Michele compierà il suo destino. Combatterà e vincerà. La fiamma che nasce dal mio palmo muta e si fa spada. Il mondo trema sotto il mio ardore…
Io, che sono la Spada di Dio, ho vinto…
Ora tutto può riniziare.
AUTORE - SIMONE
23 maggio 2005
DIO NON RISPONDE PIU'
A PRESTO IL LINK DELL'ANTOLOGIA IN CUI POTRETE TROVARLO
19 maggio 2005
LA GIUSTA MISURA DELLE COSE
Eravamo arrivati ai ferri corti.
Per una donna, ovviamente. Non era certo la prima. Non era nemmeno la seconda.
Credo fosse la settima o l’ottava, non so. Per quel che ricordavo, avrebbe potuto essere anche la decima. A un certo punto ho smesso di tenere il conto. Avevo cose ben più importanti a cui pensare durante il giorno, che appuntarmi nomi di donna in una stronza lista.
Con la prima, ho abbozzato.
Può capitare, mi sono detta. E sono andata dritta per la mia strada. Non mi sono sentita molto diversa da mia nonna, che sopportava corna e umiliazioni dal marito vecchio stampo, nell’Italia maschilista del Dopoguerra, senza battere ciglio. Una vera moglie di una volta, di quelle tutte d’un pezzo, che non si lasciavano intimorire da un profumo un po’ più intenso o da una macchia di rossetto sulla camicia, e facevano finta di niente. Per la famiglia. Per la rispettabilità.
Noi non eravamo sposati. Ma pure io avevo deciso di fare finta di niente, come se nulla fosse. E quando lui, pentito, si era scusato dicendo che ero io l’unica donna che amava e che si sarebbe preso cura solo di me, non stavo più nella pelle. Sentivo di aver fatto la scelta giusta.
Fino a quando non incontrò la seconda.
Mi chiedo ancora oggi se quella non facesse il mestiere. Lui mi tornava a casa con una tale puzza addosso, un olezzo di profumo dolciastro mischiato a umori di varia provenienza, che lo obbligavo a lasciare i vestiti fuori dalla porta a prendere aria nel giardino una notte intera. Pure Lillo, evidentemente ispirato dalle varie essenze che il mucchio di abiti emanava, faceva pipì sopra ai pantaloni. Era meglio il piscio di cane, che quell’odore nauseabondo di zoccola andata a male.
Il giorno dopo prendevo tutto indossando i guanti di plastica, camicia, maglia della salute, pantaloni, mutande e calzini. Erano freddi, rigidi e stecchiti dopo una sana nottata all’addiaccio, e li mettevo in lavatrice insieme a un buon detersivo e qualche dose in più del solito di disinfettante. Contro i batteri. I virus. Le zoccole. Facevo terra bruciata sui tessuti.
E piangevo.
Piangevo ovunque. Mentre attendevo che finisse il ciclo di lavaggio e la centrifuga.
Mentre minacciavo con la scopa Lillo che ci aveva preso gusto e voleva rifarla sugli abiti freschi di bucato. Mentre passavano le soap opera in televisione. Mentre facevo il sugo all’amatriciana per cena.
Avrei potuto benissimo diventare una meta turistica per casalinghe disperate, in stile Niagara Falls, e raccontare la mia esperienza, fondare un club, guadagnarci pure. Ho sempre avuto poco fiuto per gli affari.
La terza non me la ricordo.
Forse era quella delle telefonate ad ogni ora del giorno e della notte.
E non per minacciare me, ma per parlare con lui. Voleva sfogarsi di continuo, avere una spalla maschile su cui vomitare le sue infelicità e le sue frustrazioni.
Per questo esistono gli psicologi, gli ripetevo a dentri stretti.
Lui glissava e faceva finta di non sentirmi. E continuava a tenere la cornetta ben attaccata all’orecchio. Come se solo lei avesse dei problemi.
Non sono certa fosse la terza, potrei anche confondermi con la quarta. L’ho detto, non tenevo più il conto, e ora come ora non ho una lista valida a portata di mano.
Ogni volta, come la prima. Con una sola differenza. Ormai eravamo già sposati.
Per il resto, stesso copione.
Ogni volta erano fughe, e pianti. Urla, e litigi. Scuse, e rimorsi.
Ho sempre fatto finta di niente, mandato giù il rospo. Ho sempre perdonato.
Che azione nobile, il perdono. E che grandiosa parola dal significato profondamente umano. La nota positiva in tutta questa storia è che ho scoperto in me una forza di volontà e una flessibilità che non credevo di possedere. Proprio io, la donna rigida, che diceva peste e corna degli uomini.
Se solo il mio uomo proverà anche solo a guardare un’altra, ripetevo sempre alle mie amiche, gliela farò pagare.
E invece? Invece niente.
Fino a quella volta. Quella che ha messo fine a tutto quanto.
Ha messo fine alla farsa.
Di solito la gente pensa che il tradimento sia passare di letto in letto mentre a casa c’è una fidanzata o una moglie che lo aspettano. Il mio problema non era affatto questo. Se il mio compagno andava a letto con un’altra, non mi interessava più di tanto. Il sesso è così volatile, l’attrazione così effimera, che passa in fretta e lascia un senso di stordimento, che massimo in un paio di giorni se ne va.
Il mio problema era un altro. Ed era lui.
Non era capace di dividere il sesso dal sentimento. O meglio, non era capace di mantenere la giusta misura tra le due cose. E assicuro che è molto più tragico vedere che il tuo uomo si preoccupa per un’altra, che sapere che se la scopa e basta.
Gli equilibri di coppia se ne vanno a puttane, quand’è così. E sfido a farglielo capire, con quella testa dura che si ritrova non ci sarebbe riuscito nemmeno un caterpillar. Io, comunque, non avevo ancora avuto risultati decenti.
Per questo eravamo ormai arrivati ai ferri corti.
Grazie anche a lui, e al suo grande fiuto di cacciatore, con cui riusciva a raccattare solo le prede più scarse e i casi umani più assurdi. Forse le attirava. Aveva scritto “assistenza sociale con prestazione sessuale compresa” in fronte, chissà.
Al ché un giorno sono sbottata, e l’ho affrontato. Quel giorno è stata la sua fine.
Perché una volta iniziato, non sono più riuscita a fermarmi e lui è stato costretto ad ascoltare me, per una volta. E io avevo cinque anni di arretrati.
Una donna sana di mente, di sani principi, che ti si voglia scopare e basta, senza riversarti addosso i suoi problemi e le sue fisime, esiste?
Avevo iniziato così, dopo l’ennesima telefonata della disperata di turno che doveva assolutamente vederlo sennò si sarebbe tagliata le vene. E che palle!
Nei nostri due più tre anni, due di fidanzamento e tre di matrimonio, era riuscito a collezionare una depressa cronica, una ninfomane, un paio di ultratrentenni disperate in cerca di marito, una sposata con una storia di violenza domestica alle spalle, una bulimica di cui mi ritrovavo a pulire il vomito sulla suola delle sue scarpe quando tornava a casa, e una con manie suicide. Un record.
Cazzo, che latin lover!
E tu? Sei capace di fare lo stallone solamente con donne deboli e bisognose di tanto affetto? Solo così dimostri di essere uomo?
Sì, perché lui “si affezionava”.
Lo ripeteva di continuo, e più lo ripeteva, più mi mandava in bestia.
Lui non ce la faceva a fare sesso senza sentimento. Non voleva farle sentire puttane.
Una cazzata fenomenale.
Anche perché io mi “affeziono” a un cane, di solito. A Lillo sono “affezionata” ormai.
Ero “affezionata” anche alla mia gatta Bigia, quando avevo dieci anni, e le tiravo la coda e i baffi per esprimerle il mio affetto. Lei mi graffiava, non era troppo contenta, ma a me non interessava, e la tenevo come compagna di giochi. Perché, in fondo, le volevo bene e questo significava pure qualcosa, no?
Visto che hai un vero talento naturale, e aspirazioni così alte, ti ho organizzato un bel meeting, gli ho urlato.
Eravamo arrivati alla fase conclusiva. L’avrebbe capita adesso, o mai più.
L’ho visto sbiancare in volto.
Aveva intuito. La mia vendetta stava per iniziare, e con quale gusto da parte mia.
Una volta finito di legarlo con il nastro adesivo nero da sequestri, bello robusto, indistruttibile, una volta finito di imbavagliarlo con una bella pallina rossa infilata in bocca e un laccio di cuoio a tenergliela spinta in gola, una volta finito di adagiarlo sul tavolo del salotto, come un salame in bella mostra, ho fatto entrare in casa, una dopo l’altra, le amanti che col tempo aveva collezionato.
A vederle tutte insieme, non lo avrei creduto possibile. Era un bel numero. Mi avevano riempito il salotto, che non è proprio piccolissimo.
Alcune erano davvero delle belle donne, per carità.
Ma quando si sono messe a sedere e a un mio rassicurante e accomodante cenno hanno iniziato a raccontare, tutte insieme, i loro problemi, ho capito che il gioco non valeva la candela.
Mi sono infilata i tappini di cotone nelle orecchie, e ho iniziato a fare i lavori di casa.
Ho preparato il pranzo, ho rassettato la cucina, ho dato da mangiare a Lillo tutto felice e scodinzolante, ho fatto il bucato, ho guardato la mia soap preferita, ho iniziato un libro nuovo, ho letto la solita rivista e ho lasciato passare il tempo, fino a sera. Tenendo d’occhio che mio marito non facesse scherzi e tentasse, chissà come, di fuggire.
Training autogeno, rilassamento, meditazione, esternazione delle più sofferte paranoie mentali contemporanee. Una tavola rotonda di urla, pianti, disperazione. Un outing davvero particolare, presieduto da un uomo costretto ad ascoltare le storie più diverse, senza possibilità di replica, senza possibilità di andarsene.
E’ stata una giornata costruttiva per le signore. Mi sono state riconoscenti. Le ho viste andare a casa felici, più sollevate. Mi hanno addirittura chiesto se, per caso, potevo organizzare un’altra seduta. Mi hanno pregato, in tal caso, di informarle. Ho detto sorridente che avrei fatto sicuramente sapere loro qualcosa, in merito, sotto gli occhi terrorizzati di mio marito.
E’ stata una giornata po’ meno costruttiva per lui. Il salame.
Quando gli ho tolto il laccio di cuoio e la pallina dalla bocca per lasciarlo parlare, quasi non ci riusciva, era rincoglionito, tutto indolenzito, la mascella gli faceva male.
Ha iniziato a frignare, a dirmi che davvero, aveva capito, che non l’avrebbe mai più fatto, che sarebbe stato fedele e che da quel momento in poi si sarebbe occupato di me. Solo di me. Di me, e basta.
Ma ti prego, diceva biascicando e disperandosi, non chiamarle più in casa nostra!
Da quella volta, ha mantenuto la sua promessa.
Sì, le abitudini sono dure a morire e continua ad esserci qualche storia di sesso nella sua vita ma, chissà come e perché, lui ha imparato a tenere le distanze e a dividere ottimamente il letto dal sentimento. Ora non si “affeziona” più. E quando ho un problema di cui parlargli, scatta sull’attenti e mi ascolta. Senza interferenze. Senza file da rispettare.
Perché, da brava casalinga, io ho sempre odiato aspettare il mio turno.
AUTORE - ELISELLE
16 maggio 2005
IRA DIABOLICA
A PRESTO IL LINK DELL'ANTOLOGIA IN CUI POTRETE TROVARLO
RICOMINCIAMO!!!!!!!
Tanta è la voglia di farvi leggere nuove storie che non possiamo più attendere la scadenza fissata e per questo vi auguriamo una buona lettura!!!!!!
Lancio un sorriso a chicchessia e porgo un inchino a vossignoria
Sempre vostro - Bookmaster :-)
10 maggio 2005
REFERENDUM PUBBLICAZIONE!
Dato che ho già ricevuto dei racconti e penso che potrebbero essercene molti
da pubblicare il 31, chiedevo:
1) Li pubblichiamo tutti dopo la scadenza come l'altra volta?
2) Preferite che vengano pubblicati man mano che mi arrivano ?
RISPONEDETE NUMEROSI!
:-)
06 maggio 2005
PROPOSTA!!!!
Avrei da fare una propostina per un Incontro Extra
Che ne dite, sempre che l'Angela ci voglia fare da Cicerone, di andare a
sbaraccare una sera in quel di Milano?
Propongo la cosa visto lo spunto dato da Gabriele e la pronta risposta dell'Angela...
sarei curioso anch'io di vedere quella disco! ;-)
03 maggio 2005
IL MARCHIO
AUTORE - ELISELLE
E oRa?
Sono stato superbene e mi sono divertito un sacco!
Inoltre gli XOMEGAP sono anche riusciti a organizzarsi ancora una volta!!!
Infatti è stata fissata come scadenza per un nuovo tour di racconti il 31 di Maggio con a seguire un altro live il 15 di Giugno!!!
In attesa di Leggere i nuovi racconti e di rivedersi auguro a tutti un buon Lavoro!!!! ;-)
(Ricordate il leit-motiv dei racconti deve essere la FANTASIA in senso ampio)
P.S. VI VOLEVO RICORDARE CHE CI POSSIAMO TROVARE ANCHE SENZA LA SCUSA DEI RACCONTI! :-)