29 marzo 2006

CERCIS SILIQUASTRUM

Il mio nome è Siliquastro.
In realtà avevo anche un nome e un titolo ben più altisonanti, ma ormai sono troppo vecchio per queste sciocchezze.
Vivo su questa arida collina da un’infinità di tempo, tanto da aver visto più albe e tramonti di qualsiasi altro essere vivente qui attorno.
Sono nato da un seme trasportato dal vento, per questo sono solo, su questa collina, lontano dalla mia famiglia e dal mio giardino d’origine.
Ma non crediate che mi dispiaccia di essere solo. Io sto molto bene qui, mi piace questo eremo tutto mio, da cui posso vedere il mondo che cresce e che cambia. E oltretutto non sono affatto solo, anche se non ci sono miei simili vicini a me.
Dalla mia collina infatti, ho il privilegio di poter osservare la città più importante del mondo. La città che tutti volevano conquistare.
L’ho vista crollare e risorgere più e più volte sulla sua collina, qui, di fronte alla mia.
Occupata per secoli da popoli sempre diversi, che l’hanno presa e trasformata di volta in volta a loro immagine e somiglianza.
I sovrani e gli stendardi issati su quelle torri cambiavano con la stessa velocità con cui i fiori mi germogliavano e appassivano sui rami.
Genti bianche e genti nere hanno raccolto frutti dai miei rami e hanno trovato ristoro all’ombra dei miei fiori rosa.
Genti che venivano dall’ovest con i loro eserciti e i loro dèi dai volti umani; popoli provenienti dall’oriente, con le loro ricchezze e i loro sterminati eserciti. E poi il fiero popolo dell’unico Dio e di nuovo le genti dell’Ovest con l’aquila e le loro brame di conquista.
Io continuavo ad osservarli, da quassù: vedevo gli eserciti e i pellegrini, sentivo i pianti e gli inni di lode.
E poi un giorno successe qualcosa. Qualcosa che cambiò la mia vita per sempre. Una di quelle cose fra il prodigio e il maleficio. A cui forse devo anche la mia così stranamente longeva esistenza.
Una notte arrivò quell’uomo.
Arrivò di corsa, con il fiato grosso per lo sforzo prolungato. Veniva dalla città, aveva corso, forse inseguito, dalle mura fino a qui.
La notte era vecchia ormai e le stelle stavano tramontando.
Si fermò ai miei piedi. Aveva abiti nuovi ma impolverati e stropicciati. Aveva la barba profumata d’oli ma il viso dietro ad essa era sconvolto.
Parlava da solo, o forse con me, dapprima un borbottio senza senso, poi le parole divennero più chiare, incatenate l’una all’altra.
- Cosa ho fatto… cosa ho fatto… - stringeva fra le mani un sacchetto apparentemente vuoto e lo torturava con movenze smaniose.
I suoi occhi erano febbrili, continuava a girare intorno a me osservando il cielo e l’orizzonte, come se temesse un agguato da parte di qualcuno, o di qualcosa, che potesse piombargli addosso da ogni dove.
Poi lentamente il silenzio dell’ora che precede l’alba sembrò portare un po’ di pace al suo animo tormentato. Lentamente si sedette a terra, con le ginocchia strette al petto, come un bambino impaurito e pentito. Il sacchetto sempre stretto fra le dita.
- Traditore… verrò chiamato traditore… - la sua voce era flebile, come se non gli appartenesse, come se non appartenesse a quell’omone barbuto.
- Mi hanno convinto, maledetti, con il loro argento. Ne avevo bisogno di questo argento. Mia moglie e i miei figli soffrono la fame, perchè visto che io ero dei suoi la gente li scansa -
- Io dovevo prendere quell’argento. Avrei potuto vestirli e proteggerli e dar loro da mangiare. E’ mio dovere di capo famiglia prendermi cura di loro, ad ogni costo -
- Sarei stato un folle a rifiutarlo per una cosa così semplice. Tanto se non fossi stato io l’avrebbe preso qualcun altro -
Sentii un brivido percorrere la sua schiena appoggiata a me. I suoi occhi si facevano sempre più tristi man mano che il cielo schiariva verso il giorno.
- Lui era davvero quello che diceva di essere. E io l’ho tradito. Io l’ho consegnato alla morte. La vendetta di suo padre ricadrà su di me. Sarò dannato per l’eternità…-
Per molti minuti rimase in silenzio, come se quel pensiero fosse troppo grande per essere contenuto nel suo corpo. Avvolto da un gelo che non c’entrava con l’alba e con il deserto. Continuava a fissare il vuoto, come se in esso vedesse il suo destino.
- Però… però… se lui è quello che diceva di essere… Lui sapeva, lui ha sempre detto che quello sarebbe stato il suo destino, che la sua morte era necessaria perché il suo nome venisse glorificato nella storia, perché tutti si ricordassero di lui e perché suo padre potesse placare la sua rabbia. Lui sapeva, doveva andare così… Quindi io… -
L’uomo di alzò in piedi, di scatto – io sono stato solo uno strumento; lui mi ha usato; lui aveva bisogno che io facessi quello che ho fatto -
Ora agitava i pugni verso il biancore dell’alba, il suo volto contorto dalla rabbia e non più dalla paura - Se io non lo avessi tradito il suo piano sarebbe fallito! –
- Io non potevo farci niente! Era già stato tutto deciso! Faceva tutto parte del piano! -
Questa nuova visione delle cose sembrava aver riacceso la fiamma della suo temperamento. Scagionatosi da solo dalla colpa che fino a pochi istanti fa lo schiacciava come un macigno, ora potevo vedere in controluce le sue spalle possenti, davanti a me, tornare dritte e salde.
Anche la sua voce aveva riacquistato forza e vigore e con essa prese a bestemmiare e a maledire colui che lo aveva condannato, solo per capriccio, ad essere l’agnello che doveva essere sacrificato per un fine più grande.
Il vento dell’alba aveva preso a spirare, lieve e silenzioso, portando via i fumi della notte e tutte le sue ombre.
L’uomo era ancora lì, con me. Dopo aver sfogato la rabbia aveva ripreso a camminare nervosamente avanti e indietro, come se dovesse prendere una decisione importante senza riuscire a venirne a capo.
Potevo vedere tutta la sua improvvisa rabbia e baldanza spegnersi come le stelle nel cielo. Spegnersi e lasciarlo di nuovo pallido e tremante, avvolto da un sudario di sgomento.
- Stupido… -
- Supido e presuntuoso. Come ho potuto? Io potevo scegliere -
Le mani che fino ad un momento prima agitava con rabbia contro al cielo ora gli ricaddero lungo i fianchi, il sacchetto martoriato finì a terra con un lieve fruscio.
- Io ho sempre potuto scegliere. E questa colpa avrebbe potuto ricadere su qualcun altro. Chiunque altro. E invece… le mie mani si sono sporcate del suo sangue. Le mie. Perché io ho scelto di farlo. Io ho scelto di tradirlo per quelle maledette monete d’argento -
- Io potevo scegliere di non farlo. E ora ci sarebbe qualcun altro al mio posto. Qualcun altro sarebbe qui a rodersi l’anima per l’orrore di ciò che ho fatto. Per aver consegnato l’agnello ai suoi carnefici -
Dopo queste parole cadde in ginocchio, le spalle rivolte al sole che aveva cominciato a sorgere, come se si vergognasse davanti al suo fulgore. La fronte china, gli occhi chiusi. Le labbra mosse impercettibilmente da una silenziosa preghiera.
Lo osservai a lungo, immobile nell’aria tersa. Provai pietà per quella creatura disgraziata che non avrebbe mai trovato pace per la sua anima lacerata, per cui sentivo che non ci sarebbe mai stato perdono.
Dopo molto tempo l’uomo si alzò in piedi, lentamente si sciolse la cintura che gli fermava la tunica ai fianchi e poi cominciò ad avvicinarsi a me, osservandomi con occhi lucidi di lacrime ma colmi di un’espressione decisa.
Sentii le sue mani, lo sentii arrampicarsi; il suo peso mi faceva male e faceva scricchiolare le mie vecchie ossa. Poi d’improvviso lo vidi lanciarsi a terra, rimanendo appeso per il collo alla cintura che aveva legato a me.
I suoi occhi si spalancarono nel dolore, il suo volto coperto dalla barba di nuovo si contrasse, ma questa volta nell’ultimo spasmo della morte. La bocca aperta in un soffocato grido di dolore.
Fu penoso per me attendere che il suo corpo ormai senza vita smettesse di dondolare provocandomi continue fitte.
Doloroso pensare che quell’uomo avesse scelto proprio me come strumento per la sua morte.
Io, nato per dare conforto con la mia ombra, per dare gioia con la mia fioritura, per dare colore al deserto e nutrimento ai figli della terra. Io, eremita silenzioso, ospite gentile, generoso ascoltatore. Io, divenuto all’improvviso improbabile strumento di morte.
Avrei voluto spezzare il mio ramo per poterlo salvare, avrei voluto abbassare il mio tronco perché i suoi piedi potessero toccare terra, ma rimasi lì, sofferente e silenzioso e impotente finchè le bestie del deserto non fecero scempio dei suoi resti.
Scoprii mio malgrado la storia di quell’uomo, perché presto il suo nome e il racconto di ciò che aveva fatto passarono di bocca in bocca, di città in città. Fino ai confini del mondo.
E mio malgrado divenni protagonista insieme a lui della sua triste e maledetta vicenda. E la mia vita cambiò, perché da quel giorno il mio nome rimase per sempre legato a quello di quell’uomo.
Perché da quel giorno per tutti, io sono solo L’albero di Giuda.

AUTORE - SARA

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Chapeau!

Anonimo ha detto...

Mi è piaciuta molto l'idea e tutto ciò che riguarda la descrizione dell'albero (domanda: i frutti di questo albero si mangiano?), alcune considerazioni "filosofiche" di Giuda, invece non mi hanno convinto totalmente. Un giorno o l'altro manderò anche il mio racconto incentrato sulla vita di Cristo, nel caso decida di farlo, i più credenti si astengano dal leggerlo...

Eliselle ha detto...

bello

Sara ha detto...

Per quanto riguarda l'albero di Giuda, i frutti vengono colti per essere usati come decorazione, i fiori invece si possono mangiare, tipo in insalata ;P