01 giugno 2009

LIBERTA'

Sono davanti alla porta. Devo solo abbassare la maniglia e uscire. La libertà è a portata di mano.

Da quando avevamo traslocato in quel quartiere eravamo tutti più felici: la casa nuova era grande e spaziosa e i vicini, tranquilli, silenziosi e cordiali.
Quello che mi stava più simpatico era il signor Brandol, soprannominato Martin Pescatore perché passava tutto il tempo libero attaccato alla sua canna da pesca al lago Sherman, a circa un’ora di macchina da noi.
Pescava sempre un sacco di pesci e ne regalava a tutti. Un giorno ci aveva portato una borsina di plastica con dentro tre o quattro di quelle che poi mio padre aveva riconosciuto come tinche.
“Oggi è stata un’ottima giornata al lago. Non facevo in tempo a buttare giù l’amo che qualcosa abboccava” aveva sentenziato Brandol, consegnando parte del pescato a mio padre.
“Grazie mille. Sei sempre gentilissimo con me. La prossima settimana ti invitiamo a cena da noi. Tieniti libero, ok?” aveva proposto mio padre di rimando.
A me il pesce non piaceva, ne odiavo l’odore e tutte quelle lische che mi si piantavano nei denti. Quando mia madre mi obbligava a mangiarlo “perché fa bene” lo passavo di nascosto sotto il tavolo a Buck, il nostro Fox Terrier che, invece, mostrava di apprezzarlo parecchio.
Quando quello stesso pomeriggio avevo aperto il frigo per prendermi un succo di frutta, qualcosa all’interno si era mosso. Avevo lanciato un urlo e avevo fatto un balzo all’indietro.
Possibile che quei pesci siano ancora vivi?
Mi ero avvicinata con cautela e avevo allungato la mano per toccarli. Un colpo di coda.
Accidenti! Uno dei pesci stava ancora lottando per non morire. La sua tenacia mi impressionò e, poiché amavo molto gli animali, lo presi e lo misi subito nella vasca da bagno che avevo riempito di acqua.
Dopo qualche minuto di stordimento, la tinca aveva iniziato a nuotare lentamente.
Ero al colmo della felicità. Mia madre non era dello stesso avviso: ”Togli immediatamente quell’essere dalla vasca da bagno, Ruth!”
“Ma mamma è ancora viva!”
“Bé fai come vuoi, ma trovale un’altra sistemazione. E subito!” aveva protestato mia madre.
Così le trovai una nuova dimora: un grosso catino parcheggiato nel capanno degli attrezzi che usavamo per lavare Buck.
Curai e sfamai Polly (così la chiamai) per due mesi. Ormai mi ero affezionata a lei. E anche lei si era abituata a me e alla mia presenza.
Le prime volte quando la prendevo in mano per cambiarle l’acqua si agitava, sbatteva la coda e cercava di divincolarsi. Ma già dopo una settimana, conosceva il mio tocco e si lasciava prendere docilmente.
Nella casa di fianco alla nostra abitavano i signori Cutter, due vecchietti entrambi in pensione. Ma mentre lui si alzava tutte le mattine prestissimo per fare footing, lei rimaneva a letto almeno fino alle undici. Sembravano i due opposti: lui si teneva impegnato tutto il giorno in attività che lo tenevano in movimento, lei era sempre sdraiata in giardino a leggere libri o a prendere il sole.
Anche noi avevano un bel giardino. C’erano tanti fiori e piante.
Buddy, che abitava nella casa di fianco a quella dei Cutter, veniva tutte le settimane a falciare l’erba, curare i fiori e livellare la siepe. Faceva il giardiniere di mestiere e, così diceva sempre papà, era davvero molto bravo e meticoloso. Si occupava anche di sistemare le buche che puntualmente Buck scavava per nascondere i suoi adorati ossi.
Buddy ormai era uno di casa, per cui non mi preoccupai per nulla quando mi propose di salire in casa sua per darmi un regalo.
Avevo nove anni.
Appena varcai la soglia di casa mi tappò la bocca. Mi disse che non dovevo strillare, che non mi voleva fare del male, che voleva solo occuparsi di me.
Poi il buio. Quando mi risvegliai ero in un letto, in una stanza senza finestre e con la luce fioca di una lampadina appesa al soffitto.
Avevo una catena alla caviglia.

Sono a pochi centimetri dal mondo esterno, dalla libertà. E’ passato molto tempo dal giorno in cui sono entrata così ingenuamente in casa di Buddy, ma non saprei dire con precisione quanto. Mesi. Anni, credo.

Le prime volte che Buddy si avvicinava a me cercando di abbracciarmi, io urlavo, piangevo e cercavo di scappare da lui.
Lo pregavo di lasciarmi libera e di farmi tornare dalla mia famiglia.
Lo odiavo, mi aveva rinchiuso in quel tugurio come fossi un animale, un oggetto.
Poi poco alla volta mi ero abituata alla sua presenza, alla sua voce, alle sue mani.
Poco alla volta gli avevo ceduto quella parte di me che prima scalciata, scalpitava.
Ero diventata sua, un suo giocattolo: gli appartenevo.
Diceva che solo lui mi voleva bene e che tutti gli altri, dopo il primo momento di dolore, si erano dimenticati di me. Lui non avrebbe mai potuto abbandonarmi. Lui mi amava.
Dopo le prime volte non mi aveva neanche più picchiata.
Mi portava vestiti nuovi, man mano che quelli vecchi non mi andavano più bene. E cibo. E libri di favole da leggere. Bambole e peluche. E noccioline americane. Io amavo le noccioline americane.
Così, poco alla volta, avevo finito per essere un tutt’uno con lui. Il mio carceriere e allo stesso tempo la mia unica fonte di calore umano.
Quel giorno, Buddy, prima di uscire da casa aveva chiuso male il lucchetto della mia catena. Mi era scivolata via dalla caviglia ed era caduta dal letto facendo un tonfo sordo.
Ero rimasta impietrita, poi ero salita lentamente da quel seminterrato che era ormai la mia sola immagine di vita e a piedi nudi, incredula e spaventata, mi ero trovata nel soggiorno.

Devo solo allungare la mano per aprire la porta ma un cocktail di sentimenti impetuosi e contrastanti mi blocca il respiro. Mi affloscio a terra come un palloncino sgonfio.
Devo solo aprire quella dannata porta e dire al mondo che sono viva, che sono sempre stata qui. Così vicina e così lontana, allo stesso tempo. Ma non ci riesco. Le mani mi tremano, tutto il mio corpo trema.
Mi viene in mente quando avevo riportato Polly al lago Sherman. L’avevo presa in mano e l’avevo rimessa nel suo ambiente naturale. Lei però non si era mossa. Non si allontanava. Allora avevo pestato i piedi dentro l’acqua, con forza. Quel movimento l’aveva convinta a nuotare e andare verso il fondo del lago, dove l’acqua era profonda.
Ma io non ho lo stesso coraggio di Polly. O forse è perché nessuno qui muove l’acqua intorno a me. Tutto in questa casa è immobile. Solo silenzio. Quel silenzio che ormai mi è diventato così familiare.
Scelgo la paura minore.
Ritorno sui miei passi e mi chiudo con forza la catena intorno alla caviglia.
Forse Buddy mi porterà le noccioline, più tardi.

AUTORE - Rossella Penserini

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