29 maggio 2005

Athanatos

(NB: si tratta del seguito del Giorno in cui fu buio, va quindi letto dopo il primo)

Sara correva all’impazzata nella notte senza luna. Intorno a lei c’erano solo rovine e ombre senza volto che si muovevano senza scopo come pazzi in un manicomio. Dietro di lei il mostro urlava la sua rabbia con un verso impossibile che le torturava i timpani e le ricopriva di brividi il corpo. A un tratto incespicò su qualcosa nascosto nel buio.
Un corpo.
Lanciò un urlo senza suono, circondata da una maligna solitudine.
L’essere fu su di lei. Non era di questo mondo, probabilmente era alieno in qualsiasi mondo; sembrava uscire da uno strappo nella realtà, come qualcuno venuto fuori dalla fessura nello sfondo di un teatro. Il muso era l’apoteosi di tutte le forme ma non ne aveva alcuna.
Sara tentò di alzarsi ma qualcosa la trattenne.
Mentre il mostro iniziava a divorarla con fauci inverosimili, la ragazza si accorse che era stato il cadavere a trattenerle la caviglia col cappio al quale si era impiccato.
Era il cadavere di suo padre….ricoperto di strane liane bluastre.

“Maledetto!”
Con un urlo lacerante si svegliò nelle notte senza Luna. Tremava ed era madida di sudore. Aveva “incubato” come diceva da piccola quando faceva un brutto sogno. Sognava spesso suo padre che le bloccava la fuga mentre un qualche essere informe la inseguiva famelico. A pensarci bene aveva sognato cose del genere fin dall’infanzia. Il padre era stato assente con lei, perso nelle sue maledette pergamene.
Aveva solo dieci anni quando quell’uomo, che solo per l’anagrafe era un suo genitore, aveva condannato il mondo alla distruzione.
Ora ne aveva trenta e spesso i suoi incubi erano meno terrificanti del mondo che suo padre aveva forgiato: il mondo reale, soprattutto nelle Lande esterne era un delirio senza possibilità di fuga.
Anche quella sera (o era una mattina?) i suoi cinque sensi furono investiti dalle sollecitazioni di un mondo in decomposizione. Si trovavano a Roma, da qualche parte tra la mutata versione di Ponte Sant’Angelo e Piazza Navona. Da una settimana erano persi per le rovine della Città Eterna. Tempo e spazio non avevano più lo stesso significato nelle Lande Esterne e solo i Rifugi concedevano un po’ di normalità artificiale. Il mondo pulsava dei rumori di una vecchia soffitta: scricchiolii e zampettii di piccoli animali di cui non volevi verificare l’esistenza. L’odore agrodolce della decomposizione aleggiava in ogni strada e piazza stagnando dentro ogni costruzione. Era immersa in un grigiore immutabile; lanosi vegetali blu e bianchi ricoprivano strade e palazzi come ragnatele.
Il fuoco del loro bivacco si contorceva come un impiccato agonizzante sulla forca. Paolo la osservava con la sua espressione sempre enigmatica, sorridendole da sotto l’elmo.

“Stai tranquilla, hai avuto un altro incubo. Ora tutto è passato…”.
“Dove siamo?”
“Secondo i miei calcoli dovremmo essere al ponte Sisto tra meno di un giorno. Non posso essere più preciso: le distanze e il tempo sembrano entrate in un frullatore cosmico… questa città era un casino una volta figurati adesso...”
“Fortuna che ci sei tu, Paolo. Io mi sarei persa da un pezzo”
“Dovere. Peccato solo per gli altri”

Erano partiti una settimana prima (o erano due?) attraversando strade e campi ammantati dalla solita lanugine blu. Lei e dieci uomini scelti tra i Cavalieri della Rinascita per scortarla al Rifugio romano. Lì avrebbe parlato con la Veggente di ciò che suo padre le aveva scritto. A Roma avrebbe incontrato Riccardo, amico d’infanzia di sua madre, veterano della Guerra delle Razze e comandante di una guarnigione di Cavalieri.
Paolo era la lo guida. Era dotato dell’incredibile capacità di orientarsi nelle strade modificate dalle continue anomalie spazio – temporali che mescolavano i punti cardinali, mutavano la morfologia e distorcevano le distanze. Conosceva l’attuale versione Roma come pochi altri al mondo. Era taciturno e sempre assorto nei suoi pensieri; Sara a volte ne era inquietata ma non poteva che seguirlo in quelle vie prive di senso.
Quando erano giunti a Ponte Sant’Angelo sul Tevere, uno dei tre rimasti in piedi, era accaduta la catastrofe. Il ponte si poteva attraversare solo in determinati momenti della giornata quando la realtà in cui esisteva, quella normale, riusciva a farsi breccia tra le altre. Il rischio era perdere l’attimo e attraversarlo in un momento in cui il ponte, anche se era visibile, non esisteva. Nonostante questo pericolo il Ponte Sant’Angelo era il più vicino passaggio verso il Rifugio romano che dal Vaticano costeggiava il fiume fino all’Isola Tiberina. Se fossero riusciti ad attraversarlo sarebbero stati al sicuro. Sara era una Sapiente, poteva percepire il fluire delle realtà e avrebbe saputo scegliere il momento adatto.
Alla loro destra il fiume era un serpente verdognolo in un paesaggio grigio. Castel Sant’Angelo era una mole appena intuibile dietro una malaticcia foschia. Era infestato da esseri simili a fantasmi, ombre di divinità ormai dimenticate; bastava evitarlo ed entrare in via della Conciliazione per trovarsi nel Rifugio romano. Il Castello, che era stato originariamente costruito per ospitare le spoglie mortali dell’imperatore Adriano, non era semplicemente deformato, era sbagliato. La forma circolare era divenuta ellittica, allungata parallelamente al corso del fiume. L’angelo da cui il Castello prendeva nome era diventato un’enorme statua di medusa. Si diceva che pietrificasse chi guardava verso la sua testa brulicante di serpenti.
La cosa più inquietante, però, era il ponte. Sara l’aveva visto quand’era piccola e ricordava le statue di San Pietro e San Paolo affiancate da quelle degli angeli con i simboli della Passione. Ora queste statue erano di una pietra nera che luccicava dall’interno e rappresentavano scene mitologiche antiche e terribili. Ombre di uomini impiccati e di teste mozzate affollavano le spallette del ponte che nel Quattrocento era stato luogo di esecuzioni capitali.
Il vermide li aveva attaccati mentre erano sul ponte, salendo dal fiume. Una creatura strisciante, lunga dai venti ai trenta metri a seconda dell’angolatura da cui lo guardavi e con scaglie di un colore indefinibile. Ricordava la sua bocca a forma di tritacarne che ingoiava le gambe del sergente in uno stridere di ossa che si spezzavano e mandibole che si muovevano.
Lei stava in coda al gruppo, con due soldati e Paolo, e la mole dell’animale li aveva separati dagli altri.
“Scappiamo!” aveva urlato Paolo “Per loro non c’è più nulla da fare. La tua missione è troppo importante!”
Aveva guidato lei e due soldati rimasti fuori dal ponte che già stava smaterializzandosi sotto i loro piedi. Il vermide li aveva inseguiti, enorme tritacarne vivente, e aveva preso i due soldati che erano con loro per poi ritirarsi nel fiume, da dove era salito il rumore di centinaia di piccole mandibole che masticavano.
“Il Ponte non è sicuro. Dovevano esserci i Cavalieri ad attenderci ma evidentemente non ci hanno trovato”. Sara era sconvolta, il rumore di ossa triturate gli era penetrato nello stomaco e non ne voleva più uscire.
“Come fanno a non trovarci? Siamo a due passi dal Rifugio”. Paolo era sconcertato.
“Le distanze sono un concetto mutevole…”.
“Proviamo il ponte Sisto. L’anno scorso era ancora in piedi. È più lontano ma la zona non era eccessivamente infestata l’ultima volta che ci sono passato”.
“Ok. Tanto temo che questo passaggio non riapparirà in questa realtà per un po’, tanto vale andarcene. Quel vermide è la cosa più orrenda che abbia mai visto”.

Fu destata dai suoi pensieri da un rumore, dapprima lontano e confuso con le vibrazioni delle Lande, poi sempre più netto e nitido.
Passi.
“Cosa sono?” – chiese a Paolo che stava facendo la guardia.
“Uomini selvaggi”
“Sei sicuro?”
“Temo di si”.
“Cosa facciamo?”
Una fitta nebbia li avvolse emergendo dalle pareti delle case che sia affacciavano sul vicolo. Un forte rumore di cose trascinate e strappate li avvolse.
“Paolo! Dove sei?” Sara vedeva solo ombre. Sentì una fitta alla nuca e il buio l’avvolse.

Il comandante Riccardo De Santis era un veterano della prima guerra delle razze, quando l’uomo aveva combattuto ciò che il Sigillo di Plutone aveva vomitato. Ovviamente l’uomo aveva perso: non era facile combattere contro creature che facevano parte di altre realtà, rispondevano a fisiche, biologie e a meccaniche diverse dalla tua, mentre il tuo mondo perdeva coesione, tirato da ogni parte dai diversi presenti che lo avevano ricoperto, in una caotica mistura di spazio e tempo.
Era iniziata così la Drammatica Rotta, l’esodo dei superstiti verso i pochi luoghi dove la realtà si era preservata, sotto la guida della Confraternita della Rinascita, che nei secoli aveva custodito il Sigillo e che ora era l’unica a possedere gli arcana per combattere quella guerra. Si trattava di luoghi mistici sparsi in tutto il mondo. Non erano solo i più importanti luoghi di culto delle principali religioni ma anche posti intrisi di forte sacralità come i campi di sterminio e i gulag.
Tutti quei posti erano diventati semplicemente il mondo, ciò che era rimasto fuori da essi erano le Lande esterne, abitate solo da incubi materializzati.
“Trovato nulla?”
“Stavolta si. Ma non ho buone notizie”. Come De Santis, il sergente Braglia era un veterano della rotta, un uomo indurito da anni di battaglie e morti.
“Spara”.
“Uomini selvaggi. Hanno attaccato i due umani nella zona di Piazza Navona. Hanno catturato uno dei due, le impronte dell’altro scompaiono”.
“Maledizione! Prima il Vermide a Castel Sant’Angelo, poi gli Uomini selvaggi!”
“Comincio a pensare che questa spedizione sia stregata”.
“Che facciamo?”.
“Non sappiamo dov’è il loro accampamento. Dobbiamo muoverci con attenzione, quei vicoli sono pieni di insidie”.

Mentre Braglia andava a dare disposizioni, De Santis imprecò. Gli Uomini selvaggi erano un nemico temibile, come i loro animali. Erano uomini che adoravano gli esseri usciti dal Sigillo: avevano perso la loro umanità ed erano peggio di molte delle creature che infestavano le Lande esterne. Normalmente portavano una maschera consacrata alla loro divinità che li proteggeva dagli scompensi fisici e psichici che gli essere viventi subivanoa causa dei soggiorni prolungati fuori dai Rifugi.

Qualcuno la osservava, bonario, mentre lei stava imparando a camminare…
Non lo vedeva in volto ma sapeva che era sua padre. Le stava dicendo qualcosa ma lei non poteva sentire…
Poi l’uomo si tramutò in un essere informe che si preparò ad attaccarla…

Sara urlò svegliandosi e subito fu colta da paura e sconforto.
“Non ci vedo!”
Fu un attimo, poi si rese conto di avere una benda sugli occhi. Comprese pure di essere legata, prona e in una posizione molto scomoda, a qualche sorta di duro ceppo di legno. Un vento umido le sferzava la pelle.
Era nuda.
Ricordò l’attacco degli Uomini selvaggi, la nebbia, e il dolore alla nuca.
L’avevano catturata.
Rabbrividì: si dicevano cose terribili sugli Uomini selvaggi. Avevano rinunciato alla propria umanità per adorare una delle Creature del Sigillo, ottenendone in cambio potere e protezione nelle Lande esterne. Così vicini al Rifugio romano non ce ne sarebbero dovuti essere ma le distanze erano qualcosa di aleatorio ormai e luoghi un tempo tra loro vicinissimi ora potevano essere molto distanti.
“Ti sei svegliata, alla fine” – la voce aveva un tono bonario che ne nascondeva uno molto più inquietante. Conosceva quella voce ma non riusciva a collegarle un nome, aveva ancora un mal di testa del diavolo.
“Chi sei?” – chiese sforzandosi di mantenere la calma.
“Sono colui che grazie a te rinascerà a nuova vita…”.
“Procedi” – ordinò una perentoria seconda voce, stavolta femminile, che la ragazza non conosceva. Aveva una specie di rimbombo, come se provenisse da dietro una maschera.
Sara sentì alcuni movimenti intorno a lei, poi un attimo si silenzio seguito da un fruscio e da uno schiocco.
La prima volta urlò più per la sorpresa che per il dolore. Poi fu un lunghissimo susseguirsi fitte lancinanti alle natiche e alla schiena. Era come se decine di lame le tagliassero le carni all’unisono. Mentre la frustavano cantavano una specie di litania in una lingua incomprensibile.
Quello strazio durò un tempo indefinibile. Due volte Sara svenì ed in entrambi i casi i suoi aguzzini la costrinsero a riprendersi con i sali per proseguire la loro rabbiosa vendetta.
Quando ebbero finito Sarà sentì che qualcuno le passava qualcosa di viscido sulle piaghe. Inizialmente il bruciore fu insopportabile, poi un benefico torpore la invase.
Sinousis.
Erano una specie di sanguisughe che secernevano un anestetico. Per la prima in vita sua benedì l’esistenza di una creatura del sigillo.
Sentì altre urla strazianti intorno a sé. Non era sola.
“Va meglio?” chiese la stessa voce falsamente premurosa.
“Perché mi fai questo?”. Il tono voleva essere di sfida ma ne uscì una supplica infantile.
“Perché il sangue, frutto della tua sofferenza, verrà offerto a Gorgoroth e in cambio lui mi consacrerà alla Sua Verità”.
“Sei pazzo…”.
L’uomo la schiaffeggiò.
“Taci. Io diventerò un Eletto e la tua anima, mondata attraverso la sofferenza, sarà salva e potrà diventare parte di Lui….”.
Sara sputò, pur sapendo che l’avrebbe mancato. “Toglimi le bende, stronzo, che voglio vederti in faccia”.
“Mi vedrai presto e soprattutto farai parte di Gorgoroth l’Onnipotente, Signore del Sottosuolo: o beata ragazza!”
“Cos…cosa vuol dire? Chi è Gorgoroth?”. Sara era una Sapiente ma questo essere non lo conosceva.
“Lo saprai a tempo debito”.

Ci fu di nuovo silenzio e qualche passo. Vista l’esperienza precedente, Sara si irrigidì, temendo di essere frustata nuovamente. Iniziò a girare la testa nella speranza che la benda cadesse ma si arrestò con un urlo strozzato quando sentì una nuova forma di sofferenza, fatta di violazione e lacerazione, mentre la voce che conosceva la violentava da dietro, in tutti i modi possibili.
Stavolta quando svenne nessuno la obbligò a riprendersi.


“Parla, cane!” – Riccardo de Stantis mollò un altro calcio nei testicoli dell’uomo selvaggio che si contorceva sul selciato lurido. era coperto solo da un perizoma di pelle e aveva una maschera da fauno.
Quella zona delle Lande esterne romane era tra le peggiori. Il vento sembrava montare dai pori della terra stessa e cantare nei vicoli, parlando a chi avesse avuto la sventura di passarvi. Riproduceva motivi e canzoni note agli uomini, in una sorta di struggente versione blues cantata da una voce provata da decine di sigarette.
Lo chiamavano Il lamento del fantasma ed effettivamente evocava vecchi castelli con cancelli arrugginiti che cigolavano mossi dal vento. Ricordava catene sbattute nella notte.
La voce nel vento non parlava a tutti nello stesso modo. Ciascuno udiva un canto diverso, personalizzato che era la somma di inganni, paure e minacce.
Un soldato si commosse sentendo la ninna nanna che gli cantava la madre defunta. Si era messo urlare e vomitare quando la voce materna gli aveva raccontato di spassarsela con tutte le anime dell’inferno.
Braglia aveva colto le strofe di Innuendo del Queen. A un tratto il ritornello si era trasformato in una cacofonia di insulti e minacce di morte per lui e la sua famiglia.
Prima di concentrarsi sull’interrogatorio, De Santis stava ascoltando Fear of the dark modificata in Fear of the gurling throat of stone.
“Paura della gorgogliante gola di pietra: cosa diavolo vorrà dire?”. Si era chiesto cupo.

Il prigioniero sembrava non far caso al “lamento”.
“Non ti dirò nulla, mezzo umano. Io sono un Rinato e Gorgoroth mi proteggerà”.
“Tu sei un reietto, hai tradito la tua razza e morirai. Devi scegliere se essere ucciso qui velocemente essere dato in pasto alla folla nel Rifugio: ti scorticheranno vivo e ti strapperanno la maschera”.
“No! Così dannerai la mia anima!”
“Non me ne frega un cazzo! Dimmi dove sono gli umani che avete catturato e la tua anima sarà salva. Dimmi se c’è la ragazza e cos’è o chi è Gorgoroth”.
Il selvaggio glielo disse.
De Santis pugnalò il selvaggio al cuore e poi scatenò i Cavalieri alla carica.


Quando Sara riprese i sensi cadeva una pioggia fangosa; poteva sentire le pesanti gocce caderle dolorosamente sulle piaghe. Qualcuno l’aveva coperta con un telo di un tessuto molto fresco e questo le dava un po’ di sollievo.
Tutta la parte bassa del suo corpo era calda e pulsava. Era cieca, sola e nuda alla mercè di esseri che non avevano più nulla di umano.
Aveva il volto sporco di terriccio bagnato, sangue e lacrime. Ormai non aveva più voce per urlare né conosceva altre maledizioni da mandare a suo padre, colpevole di tutto questo, il cui ricordo era sepolto da metri e metri rabbia.
Le corde con cui era legata le avevano scavato piaghe profonde nei polsi e nelle caviglie.
Stavolta l’ambiente intorno a lei era cambiato. Sentiva distintamente una forte musica tribale che vibrava con un ritmo sempre più forsennato. Era il rumore di tamburi suonati all’impazzata e di piedi battuti a terra; ma era anche il suono di calici che brindavano e la somma di decine di gemiti di piacere. C’era, però, un sottofondo di paura e dolore che il suono della festa stentava a nascondere.
Quando sentì qualcuno avvicinarsi a lei non poté fare a meno di sobbalzare sul suo scomodo giaciglio, il cuore che batteva all’impazzata.
“Ti prego – piagnucolò – non farmi ancora del male”.
“Stai tranquilla – le rispose la voce che l’aveva frustata, sodomizzata e violentata – il tempo della sofferenza è finito, ora inizia quello della partecipazione”.
Mani forti le slegarono polsi e caviglie e l’aiutarono ad alzarsi. Aveva la schiena e le gambe anchilosate e le sembrava che centinaia di chiodi le perforassero tutto il corpo. Senza toglierle la benda l’uomo la sorresse, accompagnandola verso il cuore del rumore, il centro della grande festa che si stava svolgendo intorno a lei.
“Ferma qui. Dobbiamo aspettare il nostro turno per rinascere…”.

Sara sentì qualcuno urlare di terrore mentre il pulsare della cerimonia si abbassava di tono, come in attesa. Fu un urlo prolungato e disperato, seguito da un boato di acclamazione. La ragazza si irrigidì e sentì le mani dell’uomo che l’accarezzavano affettuosamente.
Altre due volte qualcuno urlò e poi altri esultarono. A Sara sembrava che tutte le volte a gridare fossero state due persone diverse. Ormai sapeva che avrebbe presto scoperto di cosa si trattava.
Piangendo si aggrappò al suo aguzzino.

“E’ ora”. La voce si era fatta più ermetica e Sara vi aveva colto una venatura di dubbio.
Lei aveva ormai deciso che non avrebbe dato loro la soddisfazione di opporre resistenza. Se doveva morire, e ormai ne era convintissima, lo avrebbe fatto da essere umano. Seguì docile il suo terribile compagno che la fece sdraiare su una sorta di lettiga. Sembrava fatta di paglia ma era comoda e calda. Fu nuovamente spogliata e legata. Qualcuno le tolse la benda.
Urlò.
Era legata a una specie di lettiga, rivolta verso una voragine pulsante nel terreno. Non aveva mai visto una cosa così terrificante e impossibile in vita sua. I palazzi si erano sciolti in un vortice di fango ribollente. Dall’enorme gola di pietra saliva un calore infernale. C’erano delle persone imprigionate e stritolate dalla roccia. Per un attimo alcuni riuscivano a protendere disperatamente gli arti e il collo disarticolato fuori da quell’oceano di roccia fusa e terriccio, prima di affogarvi nuovamente.
Erano vivi e il loro gemiti s’innalzavano come una preghiera disperata.
Distolse lo sguardo e iniziò a girare convulsamente la testa tutt’intorno. Al suo fianco un altro giaciglio ospitava un uomo all’apparenza giovane, nudo e legato a sua volta, con indosso una maschera di vimini: suppose che fosse il suo aguzzino che si preparava a rinascere.
Intorno a lei si svolgeva un’orgia senza fine fatta di libagioni, canti e danze da ubriachi. Esseri umani e creature simili a satiri e fauni avevano tra loro rapporti sessuali multipli.
Gli uomini che vedeva avevano tutti il volto ricoperto da maschere che ricordavano il volto di folletti pazzi. Sembravano di cera ma avevano una strana tonalità vermiglia.

Mentre, terrorizzata, spostava lo sguardo il più lontano dall’incubo che aveva davanti agli occhi, notò la fontana dei Fiumi del Bernini.
Si trovava a Piazza Navona. Come tutta quella versione maledetta di Roma, però, anche la piazza era uguale all’originale e sbagliata al tempo stesso: idoli raffiguranti esseri informi, senza volto ma con numerose teste e arti, avevano preso il posto del Danubbio, del Nilo, del Gange e del Rio della Plata.
Il ghigno di fango e fiamma che l’attendeva aveva sostituito gli edifici che circondavano la piazza. Orientandosi con la posizione della fontana si rese conto che la cosa era apparsa dove prima c’era la chiesa di Sant’Agnese in Agone

Una donna dai seni gonfi e cadenti le si parò davanti. Aveva una maschera inespressiva e gelida, raffigurante un essere mezzo donna e mezzo vermide. “Ora tu ti unirai a Gorgoroth, signore del Sottosuolo. Lui ti trasformerà in buoni frutti per la terra e in prosperità per i suoi fedeli. Diventerai parte di Lui e la tua anima vivrà sempre nella Sua Gloria”.
Sara comprese che la sua sorte era quella dei corpi disperati che si agitavano nella gola di Gorgoroth.
La donna si avvicinò alla lettiga su cui era legato il suo aguzzino e gli tolse la maschera.
Era Paolo.
Sara urlò: “Traditore! Ci hai condotti qui con l’inganno, che tu sia maledetto!”.
Paolo non rispose, probabilmente in trance. La sacerdotessa gli mostrò una maschera di ferro dalla forma vagamente umana. Era arroventata ma la donna la teneva in mano senza apparente fatica. Due ragazze, mascherate da cerve, che dai seni sembravano molto più giovani della sacerdotessa portarono una cesta di vimini brulicante di sinousis ,che si contorcevano. Presero una di esse e la schiacciarono dentro una specie di piccola pressa. Il sangue colò nella maschera di ferro. Fecero lo stesso con tutte le sinousis.
“E’ il mio sangue. La maschera è fatta con una mistura di cera e sangue della vittima sacrificale, ecco perché quel colore!”

Due uomini bloccarono la testa di Paolo mentre la sacerdotessa gli applicò la maschera al viso.
Puzzo di carne bruciata e fumo.
Paolo lanciò un grido lunghissimo che esprimeva esaltazione e dolore, come un orgasmo ottenuto violentemente. Poi iniziò a dimenarsi come un tarantolato, mentre le due fanciulle gli buttavano acqua sul volto. Quello che era stato la sua guida e che poi l’aveva tradita svenne in un gemito, restando ansimante sul giaciglio.

La sacerdotessa le si avvicinò nuovamente e le sorrise da sotto il volto ci cera e sangue. I due uomini e le due donne che avevano aiutato Paolo nel rituale sollevarono di peso la sua lettiga.
“Gorgoroth accetta il nostro dono!”
Sara non ebbe nemmeno il tempo di urlare mentre veniva sollevata sull’orlo della bocca di pietra e scaraventata in quel tormento.

Quando gli avevano sciolto la maschera sul viso, Paolo aveva gridato di dolore ma aveva provato l’estremo orgasmo della rinascita.
Il veleno delle sinousis, assorbito dalla sua pelle bruciata, l’aveva fatto piombare nel piacevole torpore che lo prendeva dopo un rapporto sessuale soddisfacente. Lo stesso che aveva provato dopo aver violentato la Sapiente (Chiara? Sara? Non ricordava). Il dolore al volto era un pulsante compagno lasciato ai margini della sua percezione.
Ora era in pace.
I suoni della festa giungevano ovattati, come se avesse avuto i tappi nelle orecchie. Libagioni e orge. Risa e canzoni. Presto ne avrebbe fatto parte.
Peccato per la ragazza. Un po’ le si era affezionato. Era in gamba e molto bella ma purtroppo era un’Infedele. Legata al mondo che non c’era più non avrebbe mai accettato la Vera fede in Gorgoroth.
Se la immaginò mentre cadeva nella gola urlante di pietra.
Tra le piaghe del volto, pietosamente coperte dalla maschera si fece strada una piccola lacrima.

Athanatos!
Il grido ruppe l’incantesimo e lo fece ripiombare in un delirio di dolore. Il viso bruciato iniziò a pulsargli e sentì il pus che usciva dalle piaghe.
Non era la voce di un essere umano a strillare.
La terra stessa stava urlando di rabbia.
I rumori della festa diventavano rumori di paura e terrore.
Qualcosa di solido e viscido insieme lo prese, trascinandolo verso il basso.

“Rinascita!”
I Cavalieri della Fenice piombarono su Piazza Navona come furie. Avevano cavalli grigi come l’oblio e armature lucenti sopra le mimetiche. Il simbolo dell’uccello che risorgeva dalle sue ceneri fiammeggiava sui loro mantelli.
Gli elmi avevano la celata intagliata in foggia di spaventosa maschera di guerra.
“Fermi!” De Santis fermò i suoi alzando la mano.
Piazza Navona era una disarmonia di macerie e corpi in putrefazione. C’era un’immane voragine a un lato della piazza, che era esplosa invadendo tutto con centinaia di lingue di fango che si erano pietrificate come i resti di un’antica colata lavica. Qualcosa la sotto covava e pulsava ancora ma per il momento Gorgoroth era nascosto in qualche luogo del suo regno a leccarsi le ferite.
Prima del Buio De Santis aveva aiutato lo zio che faceva il becchino. Lo chiamavano il Tarta perché era balbuziente.
“And..ddiamo a..a.. lib..berare una st..anza per. Un nuov.vo osbite” diceva sempre quando andavano a riesumare un cadavere, sorridendo con l’unico dente risparmiato dalla piorrea. L’odore che aleggiava in quella piazza era lo stesso di una bara appena aperta dopo anni di sepoltura, solo che era elevato all’ennesima potenza.
“Cos’è successo?”. Di Fronte a quello scempio anche un uomo indurito come Braglia aveva la voce incrinata. Sembra di trovarsi in un deposito di rifiuti organici, un luogo dove venivano buttati i resti di una macelleria e dove i cani randagi non venivano a ripulirli da troppo tempo.
“Non lo so. Ma sembrerebbe che il sacrificio non sia stato gradito.”
“Che facciamo?”.
“Perquisite tutta l’area. Uccidete i feriti e se trovate la ragazza chiamatemi subito”.
“Nutri ancora delle speranze?”
“Non so più cosa nutrire…”.

Sara correva in un corridoio buio. Dietro di lei suo padre, mascherato, l’inseguiva per picchiarla….una mano l’afferrò e la tenne saldamente.
Paolo….
No!

Si svegliò in mezzo a una specie di schiuma fangosa.
Il sangue di Gorgoroth
Chi aveva parlato?
Non aveva mai sentito quella voce, eppure le era famigliare. Tentò di alzarsi ma era imprigionata in quella specie di colla viscida e maleodorante. Intorno a lei c’erano alcuni cadaveri scempiati, sputati dalle fauci del dio. Il corpo le doleva ma era viva e il cielo ingrigito sopra di lei dimostrava che non si trovava più nelle fauci del dio mostruoso.
Ricordava il terrore quando l’avevano precipitata nella voragine ribollente. Rammentava il senso di vuoto e gelo che aveva provato quando era stata avvolta da Gorgoroth, un essere alieno ed egoista.
Un urlo che era l’apoteosi di tutti gli urli le aveva fatto perdere i sensi.
Ricordava di aver percepito qualcosa in quel grido, non solo la rabbia.
Paura.
Di cosa?
Di te
Di me?
Tu puoi ferirlo. Sei l’unica. Per questo ti ha sputata.
Io? Come è possibile?
Athanatos
Immortale: che vuoi dire?
Tu sei Athanatos.


“E’ qui”. Una voce.
“Presto!”. Un’altra voce.
“E’ un miracolo”. Di nuovo la prima voce.
Sara si guardò intorno per cercare i nuovi venuti e per capire dove si trovasse. Era nella parte opposta della piazza. Non c’era arrivata scagliata come il proiettile di una catapulta, ma insieme a una colata di quella specie di magma schiumoso.
Il sangue di Gorgoroth

Riccardo de Santis accorse quasi volteggiò su detriti e cadaveri per raggiungere il punto da cui il soldato lo aveva chiamato.
Sara era lì, immersa in quella bava polverosa che ricopriva l’intera piazza.
Viva.
Erano passati dieci anni da quando l’aveva vista l’ultima volta. Allora era ancora una ragazzina, seppur segnata come tutti dal disastro del loro mondo. Ora era una donna, piuttosto bella nonostante fosse sporca e pesta in tutto il corpo.
Corse da lei e l’abbracciò.
Sara lo guardò negli occhi.
Sembravano neri pozzi senza fondo.
Erano gli occhi di una creatura molto più vecchia di quello che sembrava guardando il suo corpo.
Se la morte avesse avuto occhi, sarebbero stati come quelli neri di Sara.

AUTORE - GABRIELE

5 commenti:

Sara ha detto...

beh... i chili di violenza gratuita su un personaggio che porta il mio nome mi hanno un po' impressionato.
Per il resto come secondo capitolo della vicenda è ben scritto.
Mi piace l'idea della deformazione dello spazio.

Anonimo ha detto...

Scusa, non mi ero accorto del problema... se qualcuno torturasse un Gabriele mi verrebbero i brividi...giuro che non lo faccio più!

Anonimo ha detto...

Si', anche a me e' piaciuto lo spazio deformato, la sua descrizione caotica riesce a rendere l'idea.
A volte sembra un po' tirato via, pero'.
Secondo me, eh?

Anonimo ha detto...

Secondo me non è niente male, continua così, sei lanciatissimo verso il romanzo! Anche in questo ci sono un sacco di invenzioni interessanti. A parte lo spazio deformato, anche l'idea della maschera secondo me è originale e ben descritta... di vermi giganti invece se ne sono visti fin troppi, ti consiglio di sostituirlo con qualcosa di più provocatorio come, non so... una pecora!

Anonimo ha detto...

La pecora gigante ed assassina!
Sei un genio!