07 maggio 2006

IL VECCHIO DELLA MONTAGNA

Il vecchio della montagna

“Dove siamo? Ho paura!”. Alberto guardava il fratello maggiore con occhi pieni di speranza: solo Stefano poteva aiutarlo.
Tutt’intorno a loro la neve cadeva abbondante, rendendo il paesaggio alieno. Un vento gelido soffiava nella valle, sferzando due ragazzi che, inzuppati, cercavano un tenue riparo in una rientranza della parete rocciosa. La vallata risuonava dell’ululato dei lupi, la cui eco sembrava far rabbrividire le radici stesse dei monti.
Né Stefano né Alberto avevano idea di come fossero finiti lì. Sei ore prima stavano tranquillamente guidando le loro pecore all’ovile, poi la nevicata improvvisa e le terribili folate di vento avevano disperso il gregge e i cani. I due ragazzi avevano perso l’orientamento e si erano messi a vagare per i boschi scheletriti dal freddo. Ora era notte fonda e una coltre bianca, alta almeno mezzo metro, ricopriva tutto ciò che riuscivano a vedere.
Nel delirio della paura si erano spinti molto più a nord delle piste che abitualmente percorrevano, quando alcune ore prima un branco di lupi era sembrato farsi vicinissimo.
In quella strana sporgenza erano abbastanza riparati; Stefano, però, sapeva che il freddo presto li avrebbe sopraffatti: dovevano trovare un rifugio. Era buio pesto e ogni crepaccio poteva essere fatale.
“Guarda la su! – gli disse il fratello urlando per sopraffare il rumore del vento – una luce!”
“Hai ragione. C’è una grotta!”
Un centinaio di metri più su c’era un’apertura, raggiungibile con uno stretto sentiero scavato nella roccia. Emanava una luminescenza bluastra che ne illuminava l’entrata, dandole un aspetto spettrale.
“Dovremmo riuscire ad arrivarci”
“Non ne sono sicuro, ho paura”.
“Facciamo così. Te la senti di restare qui al riparo intanto che io vado a vedere cosa c’è nella grotta? Non vorrei trovare un orso o qualche altro animale”.
Alberto rabbrividì al pensiero di separarsi da Stefano.
“Ti prego, non lasciarmi, andiamo insieme”.
“Va bene”.
Il sentiero che portava alla caverna, in realtà, era una sorta di stretta scalinata scavata nella roccia. Sembrava fatta dagli uomini non dalla natura. Era incassato nella montagna, riparato da pareti di pietra, quindi la salita fu abbastanza agevole, mentre la luce cerulea si faceva sempre più forte mentre si avvicinavano.
Dopo aver aggirato lo sperone di roccia, il sentiero si faceva più dolce e invitante. I due ragazzi si addentrarono nell’anfratto sino a ripararsi completamente dalle terribili folate di vento.
La luminescenza sembrava emanare direttamente dalle pareti. Quella che avevano creduto una semplice grotta, in realtà, era una sorta di santuario: le pareti erano ricoperte di strani simboli che raffiguravano scene di caccia in cui bipedi dalla testa di cervo e dai piedi caprini combattevano con animali dalla strana forma. Vi erano delle statuette di legno appoggiate su una sorta di altare di pietra: raffiguravano esseri dal volto contratto in un ghigno ferino. Dal primo ambiente dove si erano fermati partiva un piccolo cunicolo buio. Tutt’intorno c’erano pietre disposte in maniera apparentemente casuale.
Si sedettero in mezzo all’antro, abbracciandosi per riscaldarsi. L’interno della grotta era stranamente immune dal rumore del vento che ci entrava come una specie di cantilena che cullò i due ragazzi sino a farli addormentare.

Il primo a svegliarsi fu Alberto. Fuori era ancora notte ma non nevicava più e il cielo sembrava di nuovo stellato. Stefano tremava accanto a lui. Toccandogli la fronte Alberto si accorse che era bollente: aveva la febbre. Si era tolto tutti i vestiti e aveva coperto il fratello con l’unica mantella rimasta abbastanza asciutta e per questo si era preso un malanno.
“Signore, fai non sia polmonite!”
Il ragazzino uscì dalla grotta per cercare qualcosa con cui accendere il fuoco. Ora che la tormenta era passata e la visibilità era aumentata, poteva osservare meglio il luogo dove si trovavano. Un costone di roccia era spaccato proprio nel mezzo a creare l’apertura di una grotta da cui si dominava una vallata imbiancata di neve. Il gelo era ancora pungente ma l’assenza di vento aveva migliorato le cose. Non c’era speranza, per lui, di trovare la strada di notte per andare a chiamare aiuto. D’altra parte anche accendere un fuoco era improponibile: tutto il legno che c’era era zuppo.
Rovistò tra le pietre ammassate nella caverna e trovò un fascio di legna asciutto.
La speranza tornò a crescere in lui: se c’era della legna, forse quel rifugio era meno sperduto di quanto avesse temuto. Forse l’indomani qualcuno sarebbe salito a vedere com’era la situazione e li avrebbe trovati. Intanto doveva accendere il fuoco, era stata una delle prime cose che Stefano gli aveva insegnato. Fortunatamente l’esca era rimasta abbastanza asciutta e, dopo alcuni tentativi, una timida fiamma crepitò vicino a loro. Il calore fece sussultare Stefano che acquistò un colorito migliore.
Alberto prese allora la neve e bagnò la fronte del fratello, per abbassare la temperatura. Dall’imboccatura del cunicolo, che sembrava la bocca di roccia della montagna, uscì un rumore simile ad un lamento. Alberto sussultò mentre Stefano emise un gemito strozzato.

“Dove siamo finiti?”. Si chiese. Le montagne, lo sapeva, erano piene di luoghi strani ma non aveva idea di cosa fosse quello strano posto e cominciò ad aver paura.
Adesso che il vento si era fermato poteva sentire uno strano fruscio provenire dal cunicolo: sembrava che la montagna respirasse, o meglio che alitasse su di lui un fiato freddo. Si avvicinò a Stefano e lo strinse a sé, avvicinandosi ancora di più al fuoco.
Stefano delirava. Diceva frasi sconnesse sul Demonio. Diceva di vedere schiere di dannati entrare dall’imboccatura della caverna e infilarsi nel cunicolo.
“Mandalo via!” – urlò a un certo punto – “Digli di non fissarmi! Ho paura!”
“Non c’è nessuno qui. Ci siamo solo noi. Dormi, domattina proveremo a scendere a valle”.
“Non siamo soli – sibilò Stefano – mi guarda e mi dice che è qui per noi”.
Alberto pregò. Chiese al Signore di proteggerlo da quella grotta così strana e di aiutare Stefano a riprendersi.
“Non può sentirti”.
“Chi non può sentirci, Stefano?”.
“Non è stato lui a parlare, sono stato io”. Alberto scattò in piedi brandendo un pezzo di legno come una mazza. Si era reso conto che il fratello non aveva parlato.
La grotta era deserta.
“Sei mio ospite, non devi avere paura: per me l’ospitalità è sacra”.
“Dove sei? Non ti vedo?”.
“Vuoi che mi mostri a te?”
“Si”.
Al centro della caverna apparve un vecchio dall’aria stanca, vestito con una tunica e un cappuccio e con una folta barba bianca ad incorniciare un viso coperto da centinaia di rughe. “Eccomi qui, vengo per aiutarti”.
“Chi sei?”
“Diciamo che abito qui da tempo immemorabile; c’erano ancora i Romani, o forse gli Etruschi. In altri giorni, ormai perduti, mi hanno anche adorato come divinità ma ora Lui vuole essere l’unico protagonista e per noi ci sono solo le briciole: qualche leggenda popolare, qualche scongiuro e alcuni che ci adorano scambiandoci per qualcun altro.
“Sei Satana?”
Il vecchio rise di gusto. “Ma fammi il piacere. Credi che il Principe delle tenebre si scomoderebbe a vivere in questo luogo angusto? No, dammi retta: anche lui è una prima donna come l’altro”.
“Allora chi saresti?”
“Diciamo una sorta di dio in pensione, anche se non è proprio una definizione giusta. Sono soprattutto qualcuno che era qui prima degli uomini e che può aiutare tuo fratello”.
“Davvero?”
“Certo. Stefano ha bisogno di cure o morirà. Gli servono un decotto di erbe medicinali e del cibo. Starà subito meglio, vedrai. Domattina, alla luce del sole, vi indicherò la strada per tornare a valle”.
“Cosa vuoi in cambio? – Alberto si fece di colpo sospettoso.
“Come sei diffidente. Non voglio nulla. Devi solo giurarmi sulla cosa che hai più cara al mondo che, quando avrò iniziato a curare tuo fratello, non cambierai idea. Le erbe che devo dargli hanno un pessimo sapore e per un po’ il delirio aumenterà. Poi, però, starà bene”.
“Sei sicuro che gli faranno bene”.
“Garantito – il vecchio sorrise mostrando denti piuttosto strani – quando hai deciso chiamami, io ti aspetterò”. Detto questo scomparve e Alberto restò solo con Stefano che farneticava e si contorceva mentre il fuoco si stava spegnendo. Provò a ravvivarlo ma la legna era finita. Andò fuori e la notte era ancora lunga e terribile.
Non aveva scelta. In fondo non aveva nulla da perdere. “Vecchio!” – chiamò “Accetto”.
L’anziano riapparve assieme a un piatto dove fumava un succulento agnellino e un bicchiere pieno di brodo bollente. Sempre con quello strano sorriso si avvicinò a Stefano e gli sollevò la testa accarezzandogli il volto pallido.
“Bevi – disse con dolcezza ma tradendo una certa fermezza – ti farà bene”.
Stefano si ritrasse gridando.
“No! Alberto, aiutami ti prego! La mia anima brucia”.
Alberto guardò quello strano essere che ricambiò con un’occhiata interlocutoria. “Proseguo? Quando avrò iniziato non potrò più fermarmi, altrimenti lui rischierà la vita”.
“Cosa vuoi dire?”. Alberto era disperato. Voleva piangere ma non poteva: doveva salvare Stefano.
“Voglio dire che sto facendo un incantesimo potentissimo che, se interrotto, potrebbe essere pericoloso”.
“Un incantesimo! Ma la stregoneria è male…”
“La stregoneria può salvarlo, finora il tuo Dio non ha fatto molto per lui…”. C’era un po’ di rancore nella voce del vecchio.
Scomparve di nuovo.
“No! Torna!”.
La figura con la tunica riapparve.
“Fai ciò che devi”.
L’uomo fece bere l’intruglio al ragazzo delirante. Stefano oppose resistenza, inarcò il busto all’indietro e si dimenò mentre il liquido caldo gli scendeva in gola. Il vecchio pronunciò alcune parole in una lingua morta.
Quando Stefano ebbe bevuto, gli fece addentare anche l’agnellino arrosto. Ancora una volta il ragazzo tentò di non ingoiare ma il vecchio riuscì a fargli inghiottire alcuni bocconi.
Alberto e il vecchio vegliarono Stefano tutta notte. Il loro salvatore gli accarezzava la fronte pronunciando parole incomprensibili e bagnandolo, di tanto in tanto, con il decotto.

Quando Alberto si svegliò era già mattina. Aveva smesso di nevicare e un bel sole splendeva nel cielo. Il vecchio era scomparso e Stefano dormiva placidamente: aveva la fronte fresca e non tremava più per la febbre.
“Vecchio!” – Chiamò Alberto – “Dove sei?”.
“Sono qui. Vedo che tuo fratello sta meglio. Sarebbe più prudente, forse, che voi steste qui un altro giorno ma penso che vorrete tornare a casa. I vostri genitori saranno preoccupati. Ho fatto arrivare qui alcuni pastori, vi troveranno tra qualche minuto e vi aiuteranno a tornare a casa. Ti indicherò la strada”.
“Come posso sdebitarmi?”.
“Non ce n’è bisogno, stai tranquillo. Ricordati solo di non dire di avermi visto: se tutti sapessero che so guarire dalle malattie la pace del mio eremo verrebbe turbata”.
Giunsero due pastori. Raccontarono di essersi persi seguendo una lupa che aveva ucciso alcune loro pecore.
Stefano era ancora debole e semicoscente, così i due uomini se lo caricarono a turno sulle spalle e li accompagnarono a casa.

“Questa volta scoprirò dove va”. Pensò Alberto squadrando il fratello che si allontanava dal pascolo.
Dopo la loro avventura tra i monti, Stefano, sebbene impercettibilmente, era cambiato. Passava molto più tempo da solo, spesso si assentava dal pascolo e qualche volta durante la messa lo aveva scoperto mentre si trastullava.
Alberto si mosse non appena l’altro scomparve dietro uno spuntone di roccia. Seguì Stefano da lontano, osservandolo mentre si inerpicava lentamente, come in trance, su un sentiero scosceso, pressappoco nella direzione in cui si erano persi quasi un mese prima.
Stefano non si accorse del fratello che lo seguiva. Come le altre volte si stava muovendo in uno stato di sonnambulismo. Dopo una mezz'ora di salita, si arrestò innanzi alla solita roccia piana, piena di incrostazioni. L’aquila aveva già appoggiato la sua preda sul masso. Non sapeva chi mandasse l’uccello né tanto meno chi fosse la preda. Era nudo e fragile, non poteva avere più una settimana di vita.
Alberto si fermò al riparo di un albero e osservò la radura dove suo fratello stava osservando famelico un neonato abbandonato lì da un grosso rapace.
“Stefano! – chiamò – portiamolo al villaggio e copriamolo, altrimenti morirà”.
Tutto accade in un attimo: Stefano prese in braccio il neonato e lo scagliò con violenza sulla pietra fracassandogli il fragile cranio.
Le deboli ossa, rompendosi, emisero un rumore di stecchi spezzati. Il ragazzo infilò la bocca nella spaccatura e si nutrì delle cervella del piccolo.
Alberto soffocò un conato di vomito. La gola gli si chiuse così strettamente che non riuscì nemmeno a gridare.

Era di nuovo nella grotta col vecchio. Stefano tremava in preda alla febbre e al delirio.
Nella grotta, questa volta, non erano soli.
Una processione di esseri traslucidi attraversava la caverna entrando nel cunicolo posto in fondo all’apertura di roccia. Emettevano lamenti sommessi, come condannati diretti al patibolo.
Stefano li vedeva e sembrava volerli scacciare con gesti goffi ed impacciati.
Ora li scorgeva anche Alberto.
Il vecchio aveva in mano un calice fumante, pieno di una sostanza cremisi.

(Sangue)
Nel piatto, dove c’era stato un agnello arrosto, ora era adagiato un neonato paffuto….
L’anziano montanaro, prima solo vagamente inquietante, aveva labbra viola e occhi privi di pupilla, immersi in un oceano di rughe. La barba lanosa mascherava appena le fauci spropositate da felino….


“No!!!!!”.
“Finalmente hai capito, stolto” - Lo rimproverò una voce interiore che non aveva mai udito – hai venduto l’anima di tuo fratello a qualcosa di più antico e infido di Belzebù in persona”
“Avevo paura”. Si giustificò lui.
“Sei un vile e così non l’hai protetto” - Lo incalzò la voce - Stefano ha provato a resistere ma quell’essere lo ha preso, perché tu non aveva saputo difenderlo”.
“Perdonami”.
“Chiedi perdono a quell’innocente”. Fu il rimbrotto ultimativo della vocina.

Stefano, cantando nella stessa lingua che aveva usato il vecchio per il suo maleficio, usò il corpicino sanguinante per tracciare strani disegni sulla pietra.

Alberto, solo con la sua colpa, abbandonato anche dalla fastidiosa vocina, non resistette.
C’era un burrone, poco lontano e lui vi si buttò, cercando sollievo nella morte, pur sapendo che la sua anima era destinata alla dannazione.

Da qualche parte, nei più profondi meandri della valle, in luoghi così vecchi da aver conosciuto i culti pagani dei primi uomini della pietra, si udì la risata catarrosa di un essere vecchio quanto le stesse polverose radici della montagna in cui viveva.

AUTORE - GABRIELE

7 commenti:

Anonimo ha detto...

Assomiglia molto ad una vera e propria "favola", sia per le tematiche che per la crudezza, sia perchè capisci molto presto dove più o meno la cosa andrà a parare. In ogni caso mi è piaciuto. L'hai scritto per il progetto della via Francigena o mi sono solo fatto un viaggio?

Anonimo ha detto...

Grande Max!
Sei l'unico che posta commenti: io ti decorerei col Moggi di Platino.
E' vero era uno dei racconti della Francigena che però ho cassato perché al suo posto ne ho messo uno più attinente a San Pellegrino d'Alpe (dove originariamente era ambientato). Era comunque finito e mi spiaceva cestianarlo.
Ciao.

Anonimo ha detto...

Preferirei un Bettega di cartapesta grandezza nauturale, se possibile.

Sara ha detto...

Bella l'atmosfera da leggenda popolare (per spaventare i bambini).
La questione dell'avvicendarsi delle divinità nella storia è un argomento che mi intriga ("Una specie di Dio in pensione" è bellissimo), per questo mi è piaciuto il discorso iniziale del Vecchio (che mi faceva presagire e sperare in un finale un po' diverso... ahimè...)

Anonimo ha detto...

L'avvicendarsi dei culti è sempre stato un tema che effettivamente è molto interessante. In che senso speravi in un finale diverso? Volevi il lieto fine?
Nella mia idea lui è veramente un "Dio in Pensione". Essendo una divinità ormai dimenticata, però, non si è evoluto ed è rimasto legato ad arcaici sistemi di culto e, quindi, anche ai sacrifici umani. Non è cattivo in quanto pagano ma è "ferino" perché arcaico.

Anonimo ha detto...

scusate ma l'anonimo ero io...mi sono intrippato nel postare...

Anonimo ha detto...

la mattina devo dormire di più...