10 settembre 2007
CI SIAMO RIFATTI IL LOOK!!!!!!
XoMeGaP si è rifatto il look!!!
I cambiamenti apportati al nostro progetto on- line non sono solo estetici ma anche atti a migliorare l'utilizzo del sito agli amici che ci vengono a far visita!
Ora, attraverso le etichette, è possibile visualizzare tutti i racconti di un singolo AUTORE o tutte le NEWS presenti sul blog. La sostituzione del SITO col PORTALE vi e ci permetterà di interagire maggiormente!!!!
Speriamo che tutte queste nuove, che vi lascio scoprire navigando, portino nuovo slancio al progetto che ha in cantiere alcune succulente iniziative che ancora non vogliamo svelarvi.
A questo punto vi auguro buona navigazione nella speranza di sentirvi al più presto!!!
09 luglio 2007
SARA
Non sapeva da quanti giorni si trovasse lì: del resto, quando hai 81 anni suonati la memoria inizia a far cilecca. Un attimo prima passeggiava con Sara, subito dopo era in un’ambulanza.
Poi lo avevano portato lì. Gli era già successo una volta, quarantasei anni prima, in guerra. Ricordava ancora la sabbia d’Africa, arsa dal sole, in cui affondava i piedi mentre marciava cantando quella canzone, come faceva? “Moretta mia?” “Bambina nera?” non lo ricordava: del resto, quando hai 81 anni suonati la memoria inizia a far cilecca. Non avrebbe mai scordato, però, il fragore della mina antiuomo che aveva distrutto i suoi sogni patriottici. Gli aveva strappato via la mano destra.
Ricordava l’ospedale da campo, nelle retrovie, le crocerossine che gli medicavano il moncherino. Aveva ancora davanti agli occhi i ragazzi che marciavano verso le prime linee, come gli aveva invidiati, come si era sentito inutile a non poter più lottare per la patria!
Adesso, era di nuovo imprigionato in quel letto, con la gamba ingessata. Sara era in strada, sola, senza di lui.
Suor Platania entrò nella stanza 105 di Villa Charitatis, il pensionato per anziani indigenti, gestito dalle sorelle del suo ordine.
“Buon giorno, Signor Flachi; come ci sentiamo, oggi?
“Meglio” rispose lui con semplicità, facendo fischiare la lingua tra gli unici due denti malfermi. La suora cambiò la flebo di calmanti e principi nutritivi e lo aiutò a mettersi più comodo nel letto.
“Le fa male la gamba? Ha bisogno che le sistemi il catetere?”
“Come mai sono qui, in infermeria?” chiese lui come se non l’avesse ascoltata.
“L’ha investita un’auto, signor Flachi e ha un femore fratturato. Ma questo glielo ho già detto: ha qualche vuoto di memoria?”
“Una macchina? Non dica sciocchezze, crocerossina, è stata una mina: quei cani degli alleati; non sono riusciti a prendere Addis Abeba, vero? I rinforzi sono arrivati di sicuro…”
“Signor Flachi, si sente bene? La guerra è finita da un pezzo, e noi abbiamo perso…”
“Certo che è finita, crede che non lo sappia – fece lui burbero – quei cani degli alleati. Povero re Umberto, lo hanno cacciato: sa che il referendum era truccato, vero? Sono stati gli americani…ma la pagheranno…”
“Stia calmo” Suor Platania si annotò mentalmente di aggiungere qualche tranquillante alla prossima flebo. Sempre con un sorriso placido stampato sul volto decise di dedicare qualche altro secondo al racconto del loro nuovo bizzarro ospite. In fondo portare conforto agli infermi voleva dire anche far loro compagnia; quel vecchio era solo, aveva solo lei a confortarlo.
“…hanno detto di aver ucciso il Duce, ma lui in realtà è ancora vivo. Era troppo furbo per farsi ammazzare da quei cani dei rossi. Pensi che lui ha fatto assassinare il suo sosia e ora dall’ombra continua a governare, per il suo popolo fa tutto questo, lui ci ama”
“Lei vede troppa TV. A proposito, vuole che l’accompagni in sala audiovisivi. C’è la partita, oggi: Italia – Norvegia, un'amichevole”.
“Come? i norvegesi sono nostri nemici…”
“Le ho già detto che la guerra è finita: non avrà qualche vuoto di memoria?”
“Ma quali vuoti del cavolo, piuttosto mi dica se ha visto Sara”
“Non è venuto nessuno a chiedere di lei”
“Per forza. Che stupidaggine, se Sara sapesse parlare le avrei scritto, o telegrafato. Sempre che gli alleati non abbiano distrutto i cavi del telegrafo...”
“Forse è meglio che chiami il medico”, disse la suora serafica.
Lo psichiatra della USL era un uomo tarchiato e decisamente non attraente. Aveva un’espressione pacifica, quasi assente. Suor Platania conosceva molti medici e aveva sempre notato come tutti gli psichiatri avessero l’aria più assente di molti loro assistiti.
Il dottor Cavazzuti squadrò il proprio paziente come un ornitologo avrebbe fatto con un esemplare raro. Flachi era un uomo ancora massiccio e di statura elevata. La pelle era chiazzata e incartapecorita, il capo era incorniciato da una rigogliosa chioma argentata. Aveva un che di venerabile, che stonava alquanto con le frasi sconnesse che uscivano da quella bocca sdentata.
“Ricapitolando, signor Flachi, lei ha perso la mano in Africa…”
“Me lo ha già chiesto tre volte, secondo me lei è un po’ esaurito – mostrò la protesi come un trofeo – per la patria! E cosa ciò guadagnato, una pensione da fame e una medaglia: nemmeno d’oro me l’hanno data…”
“E adesso come mai è qui, in questa casa di cura?”
“Mi ha già chiesto anche questo: ero uscito per portare Sara a vedere le vetrine, ci sono gli sconti, sa? A un tratto quel pazzo è uscito dalla curva e mi ha fatto cadere per terra, filava un treno…”
“… E Sara, dov’è in questo momento?”
“Chi può saperlo, è un anima libera lei, non riesce a star ferma: oggi è qui, domani, lì…”
“Ha un numero di telefono? La potremmo chiamare…”
“Che idiozia! Sara non può avere un telefono, come farebbe a prenderlo in mano, come riuscirebbe a parlare…quei maledetti alleati è tutta colpa loro…”
“Gli alleati?”
“Come saremmo stati bene se avessimo vinto la guerra: io sarei stato un eroe: noi avremmo vissuto come dei signori, lei sarebbe…”
Il Signor Falchi iniziò a singhiozzare, la tosse subentrò presto, stizzosa e convulsa. Suo Platania aiutò l’anziano ospite a mettersi seduto e gli diede qualcosa per l’asma.
“Sara! Sara! Dove sei?” Piangeva lui aggrappandosi con le braccia ancora vigorose all’abito bianco della religiosa, “perché mi hai abbandonato…!?”
“Gli ho somministrato un calmante, sta dormendo”.
Suor Platania entrò con espressione stanca nell’ufficio della Madre Superiora. Aveva sempre avuto il difetto di prendersi troppo a cuore tutti i malati che accudiva. Questo era un pregio, dal puto di vista della carità cristiana, ma gli incubi che la tormentavano di notte ogni volta che uno di loro moriva o stava male erano una penitenza degna di un martire.
“Avete idea di chi possa essere questa Sara?” lo psichiatra della USL era perplesso.
“Ho fatto alcune telefonate – disse la superiora – ci informiamo sempre sui nostri pazienti; questo perché in caso abbiano eredi o famigliari tentiamo di inserirli presso di loro, per far posto a chi è davvero solo.”
“Allora?” chiese Suor Platania, che ancora ignorava l’esito della ricerca.
“Era la moglie. E’ morta 10 anni fa. Senza figli, invalido di guerra. Una volta congedato ha fatto il bidello in una scuola, ma presto è andato in pensione. La moglie era una sarta. L’appartamento è l’unico bene di famiglia che ha. Non siamo riusciti a rintracciare parenti vivi: è solo. La macchina che lo ha investito è fuggita. Non ha grossi danni fisici, ma a quell’età la testa fa presto a cedere”
“Se Sara è morta, chi è la donna con cui era al momento dell’incidente?”
“Non si illuda – disse il Dott. Cavazzuti - potrebbe non essere una persona, potrebbe perfino non esistere: capita che le persone sole carichino gli oggetti di qualche significato: Sara potrebbe essere una fotografia, o un pesce rosso...”
“Se così fosse, portarglielo potrebbe servire a calmarlo”.
“Se vuole un consiglio, lasci perdere. Ne ho visti tanti così, non si riprendono più. I vuoti di memoria e le crisi di identità peggioreranno sempre di più. Per sua sfortuna ha un fisico d’acciaio: potrebbe durare così a lungo. Non vorrei finire i miei giorni così, piuttosto un bel colpo secco…”
“Posso andare, Madre Superiora?” Chiese Suor Platania con aria quasi di supplica.
“Certo, se questo ti fa sentire meglio. Dai documenti sappiamo dove abita e c’erano anche le chiavi di casa tra le sue cose. Approfittane per avvertire i vicini che lui si trova qui, metti che lo cerchi qualcuno…Prendi anche qualche abito e un po’ di biancheria. Temo che il signor Flachi dovrà restare da noi a lungo”
“Certo, Sorella. Andrò subito. Posso usare il pulmino della Casa?”
“Fai pure. Vedo che questo caso ti appassiona molto; ricordati, però, ogni ospite di questa struttura è uguale agli altri, non devi togliere tempo alla cura degli altri ospiti, per curare il Signor Flachi”
Suor Platania uscì inchinandosi leggermente in segno di rispetto. Il Dott. Cavazzuti la scrutò finché la pesante porta di legno dello studio non si fu chiusa.
“E’ una delle nostre novizie più giovani – disse la Superiora, quasi indovinando i dubbi del suo interlocutore – ed è anche una delle nostre migliori infermiere. Il suo principale difetto è che prende sempre tutto troppo a cuore”
“Mi meraviglia, Sorella, che proprio Lei lo consideri un difetto! Pensavo che voi suore prendeste a cuore tutto: non vorrete rubare il ruolo dei cinici a noi medici, vero?”
“Non è questione di cinismo. In un posto di sofferenza come questo, se non ti riesci a distaccare un po’ dalle tragedie dei tuoi malati rischi di impazzire. Anch’io ero così da giovane, poi l’ho capito. Spero lo capisca anche lei. E’ così buona ma non so se è adatta a questo posto: è poco più di una bambina.”
Lo psichiatra proruppe in una sonora risata “Una suora che guarda gli altri con distacco! Dove andremo a finire?!”
“Dio vede e provvede”
Si aggirava furiosamente per i vicoli più bui del quartiere. Doveva trovare il suo amico, ma non poteva correre il rischio di farsi prendere. Ne aveva visti tanti finire in gabbia, per non tornare più a casa…
La ferita all’anca le faceva male. Quella dannata macchina li aveva investiti ed era scappata. Un’altra auto, più grossa e tutta piena di luci, aveva portato via il suo amico. Lei era scappata, meglio tenersi nascosti per un po’. Si era arrangiata per qualche giorno, mangiando quello che capitava; aveva pure dovuto combattere per conquistarlo. Ora però sentiva che doveva tornare verso la casa del suo amico. Non ne sapeva la ragione, ma era sicura che quella fosse la cosa giusta da fare: quei presentimenti raramente sbagliavano. Mancavano pochi isolati, doveva correre, ma non poteva uscire troppo allo scoperto.
Suor Platania fermò il Ducato di Villa Charitatis davanti al gruppo di case popolari che ospitava l’appartamento del Sig. Roberto Flachi, eroe della Seconda Guerra Mondiale. Era un palazzo di otto piani, giallo sbiadito, del tutto anonimo, come solo le case costruite con i frettolosi stanziamenti statali possono essere. Nel disordinato cortile sassoso del grosso agglomerato alcuni bambini giocavano a pallone, mentre sulla strada il numero impressionante di magrebini marcava col fuoco del degrado un quartiere che forse un tempo qualche politico aveva dipinto come una nuova frontiera dell’espansione cittadina; l’aveva, sempre colpita il fatto che da dove gli immigrati si stabilivano in massa, gli italiani normalmente scappassero. Ogni zona che abbandonavano diventava per loro un covo di nefandezze bibliche, così una zona ceduta al nemico cessava di essere un luogo della propria città per divenire un’entità estranea da evitare a tutti i costi.
La religiosa faticò a trovare l’ingresso giusto (era impressionante quante entrate avessero questi palazzoni) e alla fine dovette rassegnarsi a chiedere a un ragazzino che la squadrò sospettoso.
“Deve andare laggiù, vicino ai garage, poi volta a destra ed è il secondo portone a sinistra”
“Grazie”
Il numero 46 era segnato sul portone con un arrugginito cartello. Una smisurata pulsantiera la sconvolse: come avrebbe fatto a sapere a che piano fosse l’appartamento.
La Provvidenza le mandò un'anziana donna che uscì dal portone proprio mentre lei stava rinunciando all’impresa.
“Mi scusi?”
“Dica sorella…”
“Conosce il Sig. Flachi?”
“Certo. Un’ottima persona. Gli è successo qualcosa?”
Platania raccontò tutto l’accaduto, l’anziana signora mostrò sincera commozione.
“Povero vecchio…così solo…quindi adesso sta da voi?”
“Certo. Sono venuta per prendergli alcune cose. Sa dirmi a che piano abita?”
“Al quinto. Quando lo vede, gli dica che lo saluta la signora Ermide…”
“Certo. Lei abita vicino a lui?”
“Un piano più in alto.”
“Potrebbe farmi un favore?”
“Dica pure, Sorella”
“Può avvisare che si trova da noi. Se qualcuno dovesse cercarlo…”
“Ne dubito, ma comunque spargerò la voce. Ultimamente a parte il postino non lo cercava nessuno e anche quello si faceva sentire solo per recapitargli bollette…”
“Arrivederci”
“Dio la benedica…”
Per poco non l’ammazzarono mentre attraversava la strada. Insultò l’automobilista che come al solito fece finta di nulla e poi imboccò il vialetto che l’avrebbe portata all’unico ingresso sicuro al cortile della casa del suo amico. In pochi minuti fu davanti alla porta sul retro che, come si aspettava era aperta. Entrò, sempre con circospezione, e iniziò a salire le scale.
“Amico – pensò – potevi anche abitare più in basso, non ho più il fiato di un tempo…”
La casa del vecchio Flachi era molto ordinata. Era però ridondante di cimeli e paccottiglia varia. C’era per fino una foto di re Vittorio Emanuele con dedica. Vi erano soprattutto immagini di una donna, ai tempi in cui la sua bellezza era all’apice. Nemmeno una foto di lei da vecchia.
Suor Platania aveva la sensazione di violare un santuario. Prese in mano un’antica cornice di finto argento. La foto in bianco e nero mostrava un ragazzo dal fisico atletico, in divisa, abbracciato a una giovane dall’aria felice. Ai loro piedi un pastore tedesco stava accucciato scrutando un punto fuori dalla cornice.
Quel quadretto la colpì. Non aveva mai dubitato del fatto che Dio fosse l’unico giudice e che ogni sua decisione fosse giusta; in quel momento, però, il raffronto tra quello che la coppia della foto era stata e ciò che era adesso la vita del povero Sig. Flachi fece scorrere come un ombra sulla sua fede nella giustizia divina; sentì un impellente bisogno di uscire da quella casa che puzzava di morte…di uscire e andarsi subito a confessare. Prese dall’armadio vecchio e cigolante alcuni abiti e un pigiama che era ancora chiuso in una confezione regalo. Dentro vi era uno scontrino che portava la data del 1981.
“Forse è l’ultimo regalo che lei gli ha fatto”. Una lacrima di tristezza rigò la giovane pelle del viso di Suor Platania. Quella fastidiosa ombra si fece ancora più oscura e incombente.
Quando chiuse dietro di se la porta si sentì come appena svegliata da un incubo. Quando si voltò per andar via si arrestò impietrita. Un grosso cane spelacchiato e dall’aria malaticcia stava piazzato tra lei e le scale, mostrando una sbavante fila di denti. L’odio che fuoriusciva dagli occhi di quell’animale le ricordò i racconti della sua infanzia, coi lupi cattivi e i draghi. Per un attimo pensò di essere di fronte a Cerbero in carne e ossa.
“Bu…buono” azzardò, ma il cane non si mosse. “Come ti chiami?” chiese allungando la mano libera, per cercare di rassicurare la bestia. Intanto roteava la testa in cerca di una via d’uscita. Era al quinto piano e sia l’accesso alle scale che quello all’ascensore era bloccato dal suo avversario. L’altra porta del pianerottolo era desolatamente chiusa; non c’era anima viva, del resto a quell’ora la gente lavorava. Valutò la possibilità di rifugiarsi nell’appartamento del suo paziente, ma non sarebbe riuscita a riaprirne la porta in tempo. Il cane latrò violentemente e si scagliò verso il sacchetto che lei portava nella sinistra. Lo addentò con furia e lo ruppe, estraendo il pigiama e i pochi effetti del Sig. Flachi.
“E’ rabbioso” pensò.
Il cane, invece che strappare a morsi gli abiti, li depositò con dolcezza a terra e vi si accucciò sopra, ululando verso le scale, quasi chiamasse qualcuno.
Lentamente, Platania comprese: “Sara?”
Il cane abbaiò. “Sei tu, Sara, vero?”
Si avvicinò con cautela accarezzandone il pelo stopposo;
“Vuoi il tuo padrone, vero?”
Il cane emise qualche ringhio, poi però si rilassò e le leccò il viso. “Vieni con me, bella”
“Nemmeno per idea”. La Superiora aveva il tono di voce di chi non ammette repliche.
“Lo farà star meglio”. Platania sembrava recitare un Salmo, mentre tentava di convincere l’austera e non più giovanissima Consorella.
“Se tutti i poveracci che abbiamo qui portassero animali, Villa Charitatis diventerebbe uno zoo”
“Si potrebbero incontrare in giardino: il cane è randagio, di notte tornerebbe al suo vicolo.”
La Superiora addolcì lo sguardo. “E sia. Ma, dimmi, perché quel vecchio merita cure particolari?”
“Mio nonno ha fatto la campagna d’Africa, come lui. Forse se qualcuno lo avesse aiutato, sarebbe ritornato. Cristo, forse non ci insegna la carità verso i bisognosi?”
“Hai ragione, ma spesso siamo troppo induriti dalla vita per ricordarcene”.
“Madre Superiora?”
“C’è qualcos’altro che devi dirmi?”
“Si. Ho peccato”
“Cosa hai mai potuto fare, tu che sei tanto buona e generosa?”
“Oggi, vedendo la casa di quell’uomo, le sue cose, era come essere in un museo di desideri andati in fumo. In quel momento, al mia fede ha vacillato e mi sono chiesta come Dio possa illudere gli uomini così, e poi distruggere i loro sogni.”
“Non è Dio a illuderci. Nessuno è in grado di capire perché Egli agisca così, nemmeno il Papa, forse nemmeno i Santi. Noi, però dobbiamo accettare tutto quello che ci viene dato. Ricordo un’anziana signora che abitava nel mio paese, quando ero piccola, un bel po’ di anni fa. Era atea, una merce rara per quel tempo, e con astio ripeteva sempre: Il Signore decide e l’uomo si adegua. Questa frase, letta nel modo giusto ha un suo fondo di verità: ciò che Dio decide è sempre il meglio, l’uomo deve credere che sia così, anche se sul momento sembra un avvenimento triste, perché Lui vede più lontano, il suo Occhio non è distratto dal presente, ma è sempre concentrato sul futuro”.
Nel cortile Sara riabbracciò il suo amico. Parlarono del più e del meno e, mentre lui l’accarezzava, lei lo leccava gioioso, anche il male all’anca era scomparso.
Il Sig. Flachi era di nuovo felice: Sara era lì, la sua Sara.
Si alzò e camminò con lei, nonostante l’ingessatura. “Riportami il bastone”. Ora nulla gli avrebbe impedito di tornare a casa dall’Africa. Abbraccio Sara e Sara si avvinghiò a lui, latrando di gioia.
Fu così che, qualche ora dopo, Suor Platania li ritrovò. Abbracciati l’un l’altro nel rigido amplesso della morte. Il vecchio era steso per terra; forse era caduto e Sara gli si era accucciato accanto, per l’ultima volta.
Solo allora, la buona suora si accorse che il randagio, in realtà, era un maschio. Un maschio di nome Sara.
Il Signore decide e l’uomo si adegua disse tra se mentre, piangendo, correva a dare l’allarme.
AUTORE - GABRIELE
14 maggio 2007
FRANCIGENA - Novellario a.d 1107
07 maggio 2007
VACCHE MAGRE
Il catorcio che spaccia per la sua automobile tossicchia su e giù per le asperità della strada come un puledro tubercolotico che ha urgente bisogno di qualche mese in sanatorio.
Neanche un’anima in giro per quelle stramaledette montagne. Ha incrociato si e no cinque auto da quando si era messo in viaggio. Pedoni nemmeno a parlarne.
Raphael, che nella vita di tutti i giorni si fa chiamare più banalmente Raffaele, si è trasferito da quelle parti perché è un vampiro esistenzialista; perché ama la natura e il rumore terrificante della città diurna gli aveva regalato una specie di insonnia cronica; perché desidera ardentemente poter vivere in un qualcosa che somigli anche solo vagamente ad un castello, una maniero o almeno una casa di campagna… e non di meno perché i vampiri di tutte le città vicine gli hanno giurato un eternità di tormenti se mai si rifarà vivo. Anzi, non morto.
Tutta colpa di quel fottuto incidente con i pannelli solari. Insomma… lui aveva questa idea romantica che fosse il sole in quanto tale a ridurre in cenere i vampiri… come poteva anche solo immaginare che il materiale dei pannelli trattenesse parte della radiazione e che… beh, le conseguenze di queste cose, si sa, non sono belle.
Quindi eccolo lì Raphael, l’unico vampiro sulla faccia della terra con la forfora (inspiegabile data l’assenza di ricambio cellulare), a vagare per quei collinoni che solo chi ci vive si azzarda a chiamare montagne e rispondono al nome di Appennini. Dieci giorni che non mangia, un anno e mezzo che non scopa: lui pensa a questo periodo della sua non morte come delle vacche magre, solo una fase. Poi verranno quelle grasse, si spera, magari quando in città smetteranno di parlare di lui come se fosse il sosia cainita di Vanna Marchi.
Incappa per caso nella ragazza, quasi la investe.
E’ in piedi ferma sul ciglio della strada dietro una curva cieca, e già da questo si capisce subito che o è strafatta di qualche droga o è una spostata.
Quale che sia il caso per Raphael va bene comunque, questo la rende una preda facile, con un po’ di fortuna anche disponibile.
Inchioda una ventina di metri avanti a lei, cautamente fa retromarcia: fare un incidente in quel momento sarebbe alquanto seccante. Lei muove alcuni passi malfermi verso l’automobile, suggerendo un tasso alcolico ragguardevole.
-Ciao,- le dice Raphael –hai bisogno di un passaggio?-
-Grazie.- mormora lei con un filo di voce.
Raphael le apre la portiera temendo che da sola non possa farcela. Lei si accascia sul sedile del passeggero poi si volta verso di lui. –Potresti portarmi a casa?- mormora con un filo di voce.
Lui la guarda meglio e nota che è decisamente carina: occhi verdi, labbra carnose e pelle chiara. Un caschetto di capelli neri, complessivamente prosperosa.
-Non è lontano.- aggiunge lei guardandolo negli occhi con una strana, presumibilmente alcolica, intensità.
-Certo.- risponde lui –Devi solo indicarmi la strada.-
La casa appare agli occhi di Raphael da dietro un folto d’alberi, pochi metri dopo avere imboccato lo sterrato. Si trovano in una zone che non ha mai battuto, e ciò è strano perché fino a pochi istanti prima il vampiro riteneva di conoscere ogni singolo metro quadro di quei monti.
Procedono lentamente, perché la carreggiata è una tale distesa di buche enormi da sembrare meteorizzata. Già da una certa distanza Raphael si accorge che l’edificio se proprio non è diroccato presenta quantomeno chiari segni di disarmo, a partire dal cumulo di rottami di macchinari agricole che si trovano sul lato destro del piazzale antistante il cascinale.
-I tuoi genitori sono in casa?- indaga Raphael con tono equidistate, ha la netta impressione che nessuno che possa definirsi genitore potrebbe accettare di vivere in quel postaccio. Quasi certamente ha occupato quella casa disabitata dopo essere scappata di casa.
-Vivo sola.- mormora lei talmente piano che per Raphael, nonostante i suoi sensi acuti da vampiro, le parole sono più che altro un’impressione sonora.
Ora che è giunto nel piazzale altre cose balzano agli occhi del cainita, la casa porta in effetti alcuni inequivocabili segni del suo essere abitata. In primo luogo le persiane del primo piano: sono tutte ben chiuse e per quanto scrostate non sembrano poi così male in arnese, stesso discorso per la porta. Inoltre da due finestre del piano superiore degli striminziti gerani annaspano in vasi agganciati alla bell’e meglio al davanzale. C’è poi una stalla sulla sinistra della casa con un piccolo recinto il pieno di fieno che da lascia l’impressione di essere ancora utilizzata.
Raphael ferma la macchina.
-Eccoci arrivati.- dice.
-Grazie.- dice lei talmente piano che la sua voce si perde nel frinire delle cicale. E mentre lei gli rivolge un altro sguardo incredibilmente intenso, Rapahel viene quasi colto dalla tenerezza. Arriva a pensare che se solo fosse ancora vivo si potrebbe addirittura innamorare di quella onirica apparizione. In un rigurgito di cavalleria arriva a persino a formulare il pensiero che nonostante la fame potrebbe persino decidere di non approfittare del suo sangue e della sua (dubbia) virtù.
Ma è solo un brevissimo istante, anche perché in quello successivo contro ogni pronostico è lei stessa a chiedergli, timidamente: -Vuoi venire dentro un attimo?-
Rapahel senza esitare un millisecondo di più spegne la macchina e scende. Anche perché poi, riflette, sputare nel piatto quando il padrone di casa te lo offre non è nemmeno buona educazione.
L’aspetto dell’interno dell’edificio è coerente con l’impressione che se ne ricava esternamente. La porta principale si apre su un lungo corridoio le cui porte di sinistra sono chiuse a chiave mentre l’unica porta sulla destra da su una cucina.
-Ti va qualcosa da bere?- chiede la ragazza conducendolo dentro.
La cucina è spaziosa e presenta numerosi indizi del suo inutilizzo. Da una parte c’è un lavandino invaso dal calcare e un fornello a quattro fuochi macchiato per metà da una sostanza amorfa, presumibilmente grassosa, che in tempi immemorabili deve essersi bruciata in loco fuoriuscendo da una pentola. Sopra a questo paradigma di squallore ci sono dei mobiletti umidi il cui arcuarsi al centro rivela chiaramente, sotto un impiallacciatura bianca sbeccata, il cuore di truciolare. Dall’altra parte della stanza una vetrinetta imbarcata che, se fosse giunta a quei giorni in un migliore stato di conservazione, avrebbe potuto persino avere un valore antiquario. Le ante di vetro rivelano il suo essere semivuota e numerosi e regolari mucchietti di polvere di legno la identificano come dimora d’elezione dei tarli di casa. Al centro della stanza c’è un tavolo di legno grezzo con tre sedie e in un angolo un frigorifero pare essere l’unica cosa ancora in uso. Al fianco di quest’ultimo una tenda tirata davanti al vano di una porta rivela una stanza attigua.
-Qualcosa da bere? Volentieri.- risponde Raphael maledicendo il pensiero che tutto ciò che gli toccherà mandar giù per rendere più credibile quella prima parte del “corteggiamento”, poi nel suo stomaco andrà ad annacquare il sangue della sua vittima.
-Vino?- chiede la ragazza, ora che è a casa sua pare molto meno spaesata.
-Non avresti magari qualcosa di analcolico?- chiede Raphael sulle spine, da qualche anno a quella parte se beve alcolici prima di nutrirsi si sente poco bene, due volte ha addirittura finito per rimettere tutto quanto. Hai voglia far cicatrizzare per bene i morsi nel collo della vittima in modo che non ricordi più che cosa è successo, se poi vomiti il suo sangue sul pavimento nel suo appartamento. La prima volta che gli era capitato era stato proprio un bel casino, la seconda almeno era riuscito ad arrivare fino al cesso.
La ragazza lo guarda per un istante smarrita, come se la cosa la mettesse in grande difficoltà: “Mamma mia deve essere proprio alcolizzata all’ultimo stadio se non ha nemmeno qualcos’altro in casa.” Pensa Raphael.
-Anche acqua del rubinetto va bene.- dice per cercare di venirle incontro.
Lei annuisce e prende vita di colpo. Toglie nervosamente un bicchiere dalla credenza e, dopo un istante di esitazione, apre il rubinetto del lavandino. Un rombo lontano annuncia che la teoria dei vasi comunicanti e alcuni altri oscuri principi della fluidodinamica si mettono al lavoro su tubature ferme da un secolo. A poco a poco il rombo si avvicina diventando più acuto, finchè non esita in un filo di liquido melmoso color ruggine.
-Io di solito uso l’acqua del pozzo…- si giustifica la ragazza –Se hai molta sete te ne vado a prendere un po’.-
-Non importa.- dice Rapahel.
-Aspetta, devo avere della coca cola nello stanzino.- e scompare attraverso la tenda che si trova di fianco al frigorifero.
La ragazza torna un istante dopo, prende due bicchieri e si appoggia sul tavolo per aprire il bottiglione di plastica. Sinistramente la bottiglia non emette il classico sibilo dovuto alla sua natura gassata, a livello inconscio Raphael registra che l’etichetta sembra essere di un tipo in disuso da almeno dieci anni.
Ma Raphael non ci bada, accosta il bicchiere alle labbra e beve un primo sorso microscopico. Fa cagare. Se prima aveva poca voglia di bere ora gli è proprio passata del tutto. La ragazza esita con il bicchiere in mano, c’è in istante di silenzio imbarazzato.
-Come mai vivi tutta sola in questa casa così grande?- chiede Raphael sfiorando vette di banalità quasi inarrivabili.
-Era la casa dei miei genitori.- risponde lei. Poi con un’espressione di leggera sofferenza butta giù il liquido tutto in una volta -Senti… - aggiunge ritrovando la timidezza del primo istante della loro conoscenza –Avresti voglia di venire a vedere la mia camera la piano di sopra?-
Raphael posa il bicchiere. Ha talmente tanta fame che nemmeno lo sfiora l’idea che questa conquista si sta rivelando fin troppo facile.
Le scale finiscono su un altro corridoio simmetrico al primo. Anche qui tutte le porte delle stanze sono chiuse tranne una. La stanza in cui la ragazza porta Raphael mostra più o meno lo stesso coefficiente di squallore della cucina al piano sottostante. La prima cosa che Raphael nota è che si trova nella stanza alla cui finestra sono appesi quei tristi gerani che aveva scorto dal cortile. Per il resto la stanza è quasi spoglia e abbastanza polverosa. In un angolo c’è un letto a una piazza e mezzo, sul fondo della stanza un armadio anni quaranta di quelli pensati per persone che avevano in tutto tre vestiti. Se non fosse già stato abbastanza chiaro ora è del tutto ovvio in quella stanza non c’è assolutamente nulla da vedere.
La ragazza bacia Raphael sul collo mentre ancora sta analizzando la stanza.
Qualche secondo dopo sono già seduti sul letto. Un minuto e hanno cominciato a spogliarsi a vicenda. Due e si sono messi in posizione orizzontale.
“E’ il momento” pensa Raphael, il momento per un primo piccolo morso. Un morso della cui natura lei non si accorgerà nemmeno, proverà solo un brivido una vertigine sensuale.
Dolcemente si avvicina al suo collo…
…rapida come un cobra la ragazza gli si attacca alla giugulare e comincia ad aspirare come una sanguisuga.
-Ehi! Che cazzo fai!? Staccati! HO DETTO STACCATI, CAZZO!- grida Rapahel e grazie alla sua forza da vampiro salta giù dal letto, le ragazza avvinghiata come un parassita. Le prende la testa e gliela rovescia all’indietro facendo uscire i denti di lei dal suo collo.
Lei lo guarda con occhi spiritati e dice: -Ma tu sei… anche tu sei… un vampiro!-
Lui la guarda incazzato. A quel punto lei ha quasi una crisi isterica.
-Ma non è possibile! E’ già la seconda volta che mi capita questo mese! Ma non c’è più nessuno di vivo in questa fottute montagne?-
Lui sospira. Lei dopo lo sfogo riprende le staffe, gli si avvicina e guarda i segni dei suoi denti sul collo di lui: -Mi spiace. Ti ho fatto male?-
-Ma figurati, e poi in fondo è colpa mia… una ragazza che fa l’autostop sbronza, mi porta a casa sua e mi vuole a tutti i costi scopare… avrei dovuto insospettirmi.-
Lei lo guarda con un faccia strana, arretra di un passo come accusando un colpo e gli rimette addosso. Raphael, basito, rimane impassibile. Lei si inginocchia, con un altro conato rimette il resto della coca cola: -Che schifo…- riesce a dire – Era avariata…-
“Questa qui è veramente un disastro.” Pensa Rapahel.
Un’ora dopo, dopo aver ripulito la stanza e fatto l’amore i due vampiri chiacchierano sdraiati nudi sul letto. Lei finalmente si è presentata come Kira o, per il mondo dei viventi, Chiara. Raphael è tutto sommato abbastanza soddisfatto, il pasto si è dileguato, ma almeno sta passando una bella nottata.
-Ma questa è davvero casa dei tuoi?- chiede Raphael.
-Era casa dei miei nonni, ma è abbandonata da almeno vent’anni.- risponde lei.
-Come mai sei venuta qui?-
-Il mio padre vampiro s’è beccato il frassino due ore dopo avermi iniziato: un regolamento di conti. Io ho capito subito che per i suoi adepti non era aria.-
-Beh un po’ si vede che sei stata lasciata a te stessa. Quant’è che sei dei nostri?-
-Un anno e mezzo. E tu?-
-Quarantatrè anni a ottobre.-
-Accipicchia. Comunque intendevo “Come mai bazzichi le montagne?”-
-Come te, per salvarmi il culo. Avevo una piccola attività di vendita di pannelli solari, sai com’è, a volte i vampiri hanno problemi con le infrastrutture e mi sembrava che rendersi indipendenti per l’energia elettrica potesse essere una buona idea. All’inizio ho incontrato una certa resistenza, tutti a chiedermi se non erano pericolosi eccetera eccetera, ma poi la cosa si era avviata abbastanza bene.-
-E poi che cosa è successo?-
-Un mio cliente, che faceva parte di una famiglia potente, è salito sul tetto immediatamente dopo il crepuscolo e ha avuto la malaugurata idea di saltare sui pannelli.-
-E’ rimasto ferito?-
-Incenerito. C’era vento e un suo lacchè ci ha rimesso pure una mano per cercare di salvare i resti del padrone. Non c’è riuscito.-
-Mamma mia che brutta fine.-
-Davvero. Come immaginerai ho pensato che fosse meglio tagliare l’angolo prima che qualcuno decidesse di venirmi a chiedere spiegazioni.-
Per un istante i due restano in silenzio, in lontananza si ode un muggito.
-Coltivi gerani?- chiede Raphael guardando oltre la finestra.
-Ci provo, ma mi sa che non ho più molto feeling con le cose vive, non capisco più bene le loro esigenze.- risponde Kira.
-Anche questa casa sarebbe molto bella se le dessi appena una sistemata. Hai il frigorifero… come fai ad avere la corrente?-
-Mi sono allacciata clandestinamente. Sono perita elettrotecnica.- risponde lei, poi timidamente aggiunge -Si sta facendo tardi, vuoi rimanere qui fino a domani notte? C’è molto spazio nella cantina dove dormo io.-
-Lo farei volentieri, ma sono dieci giorni che non mangio, ho bisogno di andare a cacciare almeno un animale.- dice lui.
-Ho una mucca nella stalla. L’ho rubata a un contadino che vive a quattro o cinque chilometri da qui. La tengo per i periodi brutti. Se ci stai attento un po’ ti puoi sfamare.-
Il bovino è una vecchia frisona dall’aria macilenta e, Rapahel pensa, sembra la rappresentazione vivente di quel periodo di vacche magre della sua vita.
E’ evidente che la scarsa comprensione per le creature viventi di Kira si estende anche all’animale.
A occhio e croce la vacca non sembra in grado di tollerare più di mezzo litro di drenaggio, Raphael decide si assestarsi sui 350 ml circa, il minimo indispensabile per placare il buco enorme che ha nello stomaco. Il sapore fa abbastanza schifo, ma è sempre meglio di quello selvatico di certi animali del bosco che in più sono pure pericolosi.
Poi ha l’illuminazione. Una delle sue idee balzane, tipo quella dei pannelli solari.
Forse se avesse abbastanza vacche potrebbe provare a selezionare una razza con un sangue dal gusto gradevole per un palato vampiro. Quanti problemi si risparmierebbe a quel punto la loro società.
Ci vorrebbe un sacco di tempo, certo, ma se non arriva fin lì qualche sicario lui ha praticamente tutta l’eternità. E poi lui e Kira già si piacciono, è evidente.
-Ascolta –le dice rialzandosi dal collo dell’animale –Mi è venuta un’idea.-
AUTORE - MAX
28 aprile 2007
LE LONTANE LUCI DI CASA
Poco male… non aveva voglia di tornare.
Fissò lo sguardo sul disco rosso fuoco che lentamente scendeva dietro ai contorni frastagliati delle cime dei monti. Sulle vette più alte era già caduta la prima neve.
Una folata di vento gli scompigliò i capelli e lui distolse lo sguardo dal sole.
La valle era già in ombra, le luci dei lampioni e delle case andavano lentamente accendendosi. Piccoli punti luminosi sotto di lui. Alzò lo sguardo: anche le stelle una ad una cominciavano a comparire. Piccoli punti luminosi sopra di lui.
I suoi occhi si posarono sulla sua moto: Kawasaki Ninja 1000 NZ-10R verde Kawa.
Anche lei sembrava fissare la valle e anche lei sembrava riflettere. Guardò il suo profilo sinuoso; avvicinandosi sentì il calore che emanava dal motore, era bellissima e forse… forse era l’unica a conoscerlo davvero.
“L’unica donna che non mi ha mai deluso…”
Le posò una mano sulla sella e l’accarezzò lentamente.
Quanta strada aveva percorso in sella ad una moto, insieme a quest’ultima arrivata e a tutte quelle che l’avevano preceduta. Quanti paesaggi meravigliosi avevano visto, quanto sole e quanti temporali. E poi, le emozioni che aveva provato, a volte persino la paura; nei suoi ricordi più belli le sue moto erano quasi sempre presenti.
… pensò che forse questo avrebbe dovuto farlo riflettere…
Lanciò un ultimo sguardo al sole che sempre più velocemente veniva inghiottito dai monti, i suoi occhi dai riflessi verdi catturarono l’ultimo raggio prima che il disco di fuoco scomparisse del tutto.
Era ora di tornare.
Si infilò il casco e montò in sella. Ubbidiente, come sempre, la sua Signora rispose al suo delicato comando e in un attimo lasciarono lo spiazzo panoramico.
Conosceva molto bene quella strada, l’aveva percorsa centinaia di volte; centinaia nei suoi trent’anni di vita. Conosceva ogni curva e ogni avvallamento, ogni difetto dell’asfalto, ogni albero e ogni centimetro di paesaggio.
A quell’ora non c’era mai nessuno, i turisti erano già scesi dalle vette e lungo quella salita non abitava quasi anima viva.
Decise che aveva voglia di divertirsi un po’… in fondo era domenica sera, lo attendevano una casa troppo grande e una donna che non amava più, domani sarebbe dovuto tornare al lavoro e sarebbe stata una settimana fitta di impegni. Invece ora c’erano solo lui e la sua Ninja; loro e la strada più bella di tutta la regione.
Diede gas e si preparò ad impostare la curva.
Il bosco sfrecciava al suo fianco, gli alti abeti formavano un muro compatto e impenetrabile.
Sopra la sua testa il cielo vestiva il suo manto più scuro e accendeva le sue mille lanterne d’oro: la notte si stava preparando a dare il benvenuto alla sua Regina.
E lui correva. Il cuore libero da ogni pensiero, il vento che allontanava da lui ogni problema: il tempo che passava, l’Amore non ancora trovato, gli errori commessi, le delusioni, le persone che non capivano… ora c’era solo la libertà, l’adrenalina, la vita che sentiva fluire in ogni centimetro della sua anima.
D’improvviso una luce strana attirò la sua attenzione, rallentò e accostò in un piccolo spiazzo a lato della strada. La valle sotto di lui sembrava già addormentata, si voltò verso la luce che aveva intravisto alle sue spalle e rimase per un istante con il fiato sospeso.
Quella era una notte di luna piena e lentamente l’astro candido si apprestava ad occupare il suo trono nel cielo.
Era stata una giornata strana quella.
Aveva ritrovato vecchi amici che non vedeva da molto tempo, vecchi amici tutti uniti dalla stessa passione per la moto. Amici che venivano da lontano, che vivevano vite diverse in paesi diversi, che avevano opinioni diverse e facevano lavori diversi… eppure… eppure ogni volta che si incontravano sembrava che tutto quello non avesse la minima importanza.
Tutte le differenze sparivano e rimanevano solo le persone, anime simili che godevano del solo fatto di essere lì insieme.
Era stata una bella giornata, l’autunno aveva messo a loro disposizione la sua tavolozza più bella tingendo il cielo di un cristallino celeste, i boschi d’oro e di rame scintillante e le colline del verde più fresco.
Il sole li aveva accompagnati lungo tutto il tragitto attraverso i sentieri di un’affascinante regione sospesa a metà fra i monti e il mare.
Si… era stata una bella giornata… e non aveva nessuna voglia di vederla finire…
«Parlami bella luna… dimmi dov’è la mia Principessa…»
Ma la Regina del cielo non diede segno di averlo sentito. Era troppo lontana forse; o non c’era risposta a quella sua domanda. Forse lui la sua Principessa l’aveva già incontrata e perduta.
Già… una volta lei era stata la sua Principessa e poi… cos’era successo? Perché il tempo impietoso li aveva allontanati tanto? Come avevano potuto permetterlo?
Nascose la testa fra le braccia incrociate sul serbatoio. La luce candida lo accarezzava lieve, come una mano gentile giunta a consolare quel pianto silenzioso.
Doveva tornare.
La sua Signora attese paziente che lui fosse pronto e poi lo riportò lungo la strada che lo avrebbe condotto di nuovo a casa.
«Ma ti rendi conto di che ore sono?»
Lui non rispose, appoggiò il casco e si slacciò la giacca.
«Mi stavo preoccupando, non mi avevi detto che saresti tornato così tardi!»
Sempre in silenzio lui si diresse in bagno e aprì l’acqua della doccia che cominciò a scorrere coprendo la voce di lei che continuava a rivolgergli rimproveri misti a richieste di spiegazioni.
«Sto parlando con te!»
Lei era entrata in bagno; lui si fermò un istante a fissarla: indossava una vestaglia e calzava le pantofole, i capelli erano leggermente in disordine; probabilmente si era addormentata sul divano mentre lo aspettava.
Non sapeva che dirle. Non avrebbe potuto dire nulla di giusto in quel momento; tanto era arrabbiata e non lo avrebbe ascoltato.
«Oh, vai al diavolo!» lei si girò di scatto uscendo, lui intravide i suoi pugni stretti e i suoi occhi leggermente lucidi; forse si era preoccupata davvero… Forse avrebbe dovuto fermarla, chiedere scusa…
Finì di spogliarsi e si infilò sotto al getto caldo della doccia.
L’acqua gli tolse di dosso il profumo del vento e il calore del sole di quella domenica e in cambio lo rivestì con un manto di stanchezza e malumore.
Andò in camera ma lei non era a letto, andò in cucina ma non era neppure lì, la trovò in sala, davanti alla televisione accesa.
«Vieni a dormire?»
Lei gli rivolse uno sguardo di fuoco, forse aveva capito male… ma lui sapeva che quello era il segnale che annunciava l’inizio di una sfuriata. Ora che lui le aveva concesso un istante di attenzione lei lo avrebbe seppellito con i suoi rimproveri e le sue lamentele.
E così accadde.
Lui rimase lì in piedi davanti a lei; cercò di rivederla come quando era la sua Principessa… ma le due immagini non ne volevano proprio sapere di sovrapporsi.
La sua voce gli dava fastidio, non avrebbe resistito molto, si preparò mentalmente a rispondere a tono a tutto quello che lei gli stava sputando addosso ma all’ultimo minuto decise di tacere.
La fissò ancora per un istante e poi uscì.
Tornò ad infilarsi la tuta, gli stivali e la giacca e, raccolto il casco, uscì di casa.
La Ninja non era ancora addormentata del tutto, il suo motore era ancora tiepido e in un attimo tornò a cantare per lui.
«Andiamocene di qui piccola mia»
Era rimasto calmo fino a quel momento, ma ora il suo malumore stava peggiorando velocemente. Si lanciò sulla strada che usciva dalla città, voleva solo fuggire lontano.
Il vento lo graffiava con i suoi piccoli denti di ghiaccio, la luna era ancora lassù, indifferente alla sua rabbia.
Era arrabbiato, si, era deluso… andassero tutti al diavolo, non aveva diritto anche lui ad essere felice?
Aumentò la velocità: anche se la strada era avvolta nell’oscurità lui conosceva ogni curva a memoria e la anticipava senza quasi mai frenare.
La sua Signora cantava nella notte, sfogando quel grido che la sua voce non riusciva a liberare.
Ancora un tornante, sempre più in alto, verso la luna, verso il paradiso, lontano da quella valle buia, lontano da quella prigione che era diventata la sua vita.
Ogni errore si dovrebbe poter correggere.
La prossima curva era particolarmente stretta, lo ricordava bene, una volta era persino caduto, doveva rallentare… ma la sua mano sembrava non voler mollare la presa. Avrebbe potuto finire così: cancellare in un istante tutti gli errori, volare con la sua Signora oltre quella curva e finire come una stella cadente.
La curva si stava avvicinando velocemente e lui non aveva ancora cominciato a rallentare, preso d’improvviso da una follia che rischiava di portarlo troppo lontano.
Sentiva l’adrenalina esplodere nel suo petto, la morte si stava avvicinando a lunghe falcate, la fine dei suoi problemi… solo il silenzio e la libertà…
Poi, non chiamata, una voce esplose nelle sue orecchie; era solo un sussurro, ma a lui parve un boato «Sii prudente».
In un istante fu di nuovo catapultato nella realtà, vide la curva, richiamò i cavalli della moto e, a fatica, la convinse a voltare il capo verso la strada e non verso il vuoto.
La Ninja protestò e lui sentì le ruote slittare… la stava perdendo… ma non si diede per vinto, ogni suo muscolo concentrato nello spasmo, ogni briciolo della sua attenzione assorbito dal tentativo di rimanere in piedi.
E alla fine la sua Signora si fermò.
Era sull’erba, al limitare del bosco che pochi centimetri dopo si gettava nel vuoto della valle addormentata, un ginocchio per terra, l’altro piede ancora sul pedale del cambio, una mano a terra, un sasso fastidioso proprio sotto al palmo.
Era finita. Era ancora vivo. La moto non si era neppure graffiata A fatica si risollevò e sistemò la Ninja sul cavalletto.
Si tolse il casco e si deterse il sudore dalla fronte. Era ancora vivo.
Poi, mentre si riempiva i polmoni della fredda aria della notte fissando il nulla in cui aveva rischiato di sparire, gli tornò in mente la voce.
Quella voce che lo aveva salvato.
Frugò fra i ricordi per collegare un volto a quella voce sussurrata e, dopo diversi minuti vide due occhi e un sorriso.
Ma certo… era una delle motocicliste che aveva rivisto quel pomeriggio. Era seduta accanto a lui a pranzo e avevano parlato per tutto il tempo. Fra le varie battute lui le aveva accennato dei suoi problemi con la moglie, cambiando presto argomento perché quello era un giorno dedicato alla spensieratezza.
Al momento dei saluti lei lo aveva fissato con i suoi occhi scuri e gli aveva sussurrato «Sii prudente; se vuoi per stasera ti presto il mio angelo custode».
Avevano riso della battuta, ma in fondo al sorriso di lei forse c’era una nota di preoccupazione.
Sentì che qualcosa dentro di lui si stava rompendo: il muro dietro cui continuava a relegare i suoi sentimenti stava cedendo, ma questa volta non avrebbe combattuto per trattenerli. Si sedette e lasciò che il suo cuore fosse investito prima dal dolore, poi dalla stanchezza e infine da quello strano calore che il ricordo dell’amica motociclista e del suo angelo in prestito aveva suscitato in lui.
Era ancora vivo e forse non tutto nella sua vita era sbagliato.
Forse c’era ancora qualcosa che avrebbe potuto tentare per rimediare agli errori.
Forse avrebbe potuto provare a chiedere scusa, per una volta, e tornare a parlare con sua moglie.
Ora, su quel colle, sotto quella luna assonnata, vicino come non mai alla morte, aveva finalmente ritrovato la forza per combattere.
«Torna da lei ora, angelo custode. E dille grazie da parte mia»
AUTORE - SARA
16 aprile 2007
L'AQUILA
L’aquila planò sulla città devastata. Aveva fatto molta strada dalle montagne dell’Italia centrale per giungere in quel luogo, spinta solo dall’istinto. Mossa da un forza superiore che esulava dal concetto di coscienza, non provava sentimenti per le persone che morivano sotto di lei, non erano le prime che vedeva soffrire, né sarebbero state le ultime. Ciononostante, si attardò ad osservare dall’alto la capitale in rovina, mantenendosi librata nell’aria dove il fragore della battaglia giungeva solo attutito e non si percepivano i miasmi di una città in decomposizione. Quasi immobile nella brezza marina, assaporò un’ultima volta l’odore di quella città, imprimendo nella memoria i contorni aristocratici di un luogo che presto sarebbe diventato leggendario, chiuso allo sguardo degli uomini e relegato nella memoria di un passato mitico. La sua vista superiore le permise di osservare ogni vicolo e finestra di quella città, di cogliere il terrore dei civili che fuggivano al saccheggio e dei soldati che difendevano le posizioni con rassegnato coraggio, ben sapendo che era preferibile morire lì, con la spada in pugno, piuttosto che finire nelle mani dei vincitori. Mentre osservava la battaglia colse una figura che la colpì. Era per quell’uomo che era venuta. Combatteva con la stessa foga disperata dei suoi soldati. In più, però, era animato da un altra grande forza: la consapevolezza di essere l’Ultimo della sua stirpe. Lo vide battersi come un leone, menando fendenti sempre più stanchi, affondando i calzari nel fango, talmente imbrattati di sangue da coprire il loro color porpora. Lo vide attorniato da formidabili guerrieri armati fino ai denti e agghindati da elmi e corazze di foggia orientale. Osservò l’uomo, esausto, abbattere l’ennesimo avversario, affondandogli la tozza spada nel ventre. Ormai agiva per inerzia, in attesa che tutto finisse, che qualcuno lo colpisse e ponesse fine a un regno tormentato, nobilitato dall’eroico sacrificio finale. Il colpo venne, come spesso accade, per caso. Un affondo scoordinato, a causa della stanchezza, e l’uomo si sbilanciò fatalmente. L’aquila osservò impotente la scena, vista tante volte nella sua lunga esistenza. Vide l’avversario trafiggere il sovrano e la calca sommergerne il corpo, un tempo venerato. Immaginò la paura degli ultimi istanti – che provano tanto l’imperatore quanto l’ultimo degli schiavi – quasi vide con gli occhi del morente, che guizzavano disperati in mezzo alle gambe corazzate dei giannizzeri, mentre la città cristiana moriva avvolta dalle fiamme del saccheggio.Il rapace attese ancora, non poteva svolgere il suo compito in mezzo alla rissa. Quando i turchi superarono i cadaveri dei difensori, dilagando, finalmente l’aquila scese sul terreno lordo di sangue. Nonostante la sua vista acuta, faticò a riconoscere il cadavere dell’imperatore, avvinghiato a quello dei suoi uomini e dei suoi assassini, nell’abbraccio livellatore della morte. Lo individuò dalle effigi che aveva sui calzari, raffiguranti proprio l’aquila imperiale. Dolcemente, il rapace, si avvicinò alle mani dell’imperatore. La destra stringeva ancora la spada. Col becco, facendo attenzione a non ferirlo, gli sfilò l’anello col sigillo. Diede un ultimo sguardo alla capitale morente e si librò maestosa tra le volute di fumo in direzione del mare.Sotto di lei Costantino XI Paleologo giaceva trucidato in mezzo allo scempio della sua capitale. Gridando di disperazione al cielo, l’aquila si diresse verso il luogo in cui avrebbe custodito il sigillo finché l’istinto le avrebbe suggerito che, da qualche parte nel mondo, qualcuno sarebbe stato degno di indossarlo, rivendicando l’eredità di Roma e Bisanzio. Costantinopoli era morta e con essa le ultime vestigi del mondo antico. Nulla da quel fatale martedì 29 maggio 1453 sarebbe mai più stato come prima.
AUTORE - GABRIELE
02 aprile 2007
NUOVO E-BOOK
DIFFERENTI PROSPETTIVE
Una raccolta di racconti di Sara Bosi
NON PERDETELA!
Scaricate DIFFERENTI PROSPETTIVE
nella nostra sezione E-BOOK
Buona lettura a tutti ;-)
15 febbraio 2007
VERGINE 4.7 (beta version)
Anzi, ne era la copia perfetta. Avrei giurato che fosse lei, se non l’avessi saputa morta. Stessa figura alta e slanciata, stesso modo di vestire eccitante ma non eccessivamente vistoso, stessi boccoli biondissimi lunghi fino al sedere, stessi occhi cerulei.
Stronza come lei, ne ero sicuro.
Si chiamava Helga, proprio come lei. Decisi di ucciderla ancora prima che me la presentassero.
L’altra, la mia vecchia fiamma del liceo intendo, dovevo averla ammazzata troppo in fretta spingendola nella forgia durante la gita alle accaierie di Linz. Un errore che non avrei ripetuto.
Quanti ricordi mi tornavano alla mente… il suo naso all’insù, il suo culetto sodo che ondeggiava, il suo accento teutonico (veniva da Norimberga) mentre rispondeva, sempre correttamente, alle domande di tutti i professori. Aveva qualcosa di inumano, quasi divino.
Dunque, dal momento che la forgia era stato un sistema troppo rapido, questa volta avrei proceduto diversamente: sarei andato a vivere con lei. Pacificamente, per una decina d’anni. E poi un giorno, senza darle alcuna spiegazione, le avrei cavato quei fottuti occhi cerulei con un cucchiaino da gelato.
Uno di quelli a punta quadrata.
Avevo ricavato una nicchia dietro la cabina armadio. Era la mia piccola stanza segreta, ci tenevo i miei arnesi: una collezione faraonica di cucchiaini da gelato.
Il mio piano procedeva.
La nostra convivenza fu tranquilla, anche felice. Lei non era poi così stronza dopotutto.
Dopo dieci anni decisi di aspettarne altri dieci. Non ci stavo male in quella casa in fin dei conti.
E poi altri dieci. Ma alla fine, sebbene un po’ a malincuore, mi decisi. Perché io non sono di quelli che fanno un piano e poi non vi tengono fede: quello che è detto è detto.
Nel trentesimo anniversario della nostra vita insieme, una sera uscii all’improvviso dalla mia stanza segreta mentre lei dormiva. Mi ero costruito un vestito coi cucchiaini da gelato (il tempo per studiare anche il lato coreografico non mi era mancato) e ne brandivo due a scalpello d’argento massiccio.
-E’ ora della resa dei conti, maledetta stronza!- le dissi.
Lei, si sedette sul bordo del letto: -Scusami. – disse con invidiabile aplomb –Ma tu chi cazzo sei?-
-Come chi sono?- chiesi indispettito.
Lei guardò dall’alto in basso quel nano gobbo e deforme che ero diventato (d’altronde viveteci voi trent’anni in uno stanzino due per due ricavato dietro una cabina armadio…) e scosse il capo.
Ci rimasi male: credevo che si ricordasse di me.
Anche se ero molto cambiato, quando trent’anni prima un amico comune ci aveva presentati e ci eravamo scambiati quell’unico “Ciao”, c’erano state molte allusioni in quella mia parola, molti significati reconditi. Cose che non si dovrebbero dimenticare alla leggera.
-Chi pensi che fosse a tormentare le tue notti sussurrandoti all’orecchio storie spaventose?- sibilai cercando di darmi un tono.
-Veramente dormo da sempre con mascherina e tappi nelle orecchie.- mi spiazzò. D’accordo la mascherina: ma dei tappi non mi ero mai accorto.
-E quegli inquietanti rumori che venivano da dietro il tuo armadio, non ti sei mai chiesta da dove provenissero?-
-Pensavo fossero i vicini.-
Fottute teorie razionaliste! Al giorno d’oggi che cosa bisogna fare per spaventare qualcuno?
-E del fatto che la quantità di corn flakes che tieni in dispensa cala vistosamente ogni volta che sei al lavoro? Di questo almeno ti sarai accorta, spero!- ripiegai io, avevo dovuto pur nutrirmi in qualche modo in tutti quel tempo… e lei in casa teneva solo corn flakes!
-Oh si! Ecco perché succedeva, quello in effetti me lo sono sempre chiesta. Ero arrivata a pensare che evaporassero.-
-In che senso “evaporassero”?-
-Mah non lo so… per qualche strano fenomeno fisico… un po’ come quei biscotti al cioccolato che si sciolgono nel latte…-
-Ma che c’entra? Quelli sono fatti apposta! Hai mai visto una vivanda sublimare?-
Al chè seguì un istante di imbarazzo. La mia entrata in scena teatrale era rovinata e tra l’altro mi accorsi con una certa inquietudine di un dettaglio a cui non avevo mai posto attenzione: trent’anni di inattività e dieta a base di corn flakes avevano lasciato il segno su di me, e non parlo solo della pellagra. Era quasi certo che in un corpo a corpo avrei avuto la peggio.
-Ma aspetta… tu sei Mario, quello del liceo!- disse lei ad un tratto, il suo volto si illuminato dall’improvvisa rivelazione. –Sono Helga, non ti ricordi?-.
Ero confuso, non poteva essere lei, non l’Helga delle superiori.
-Non… non è possibile, quel giorno mentre eravamo in gita in Austria ti spinsi nella forgia, come puoi essere sopravvissuta?-
-In Austria? Non siamo mai stati in Austria… il nostro preside aveva tagliato i fondi per le gite, solo viaggi di un giorno. Abbiamo anche fatto sciopero per questo, non ricordi?- ribatté lei perplessa.
Di colpo avevo come un cerchio alla testa, ricordavo qualcosa sì… uno sciopero che aveva a che fare con le gite… eppure… l’acciaieria di Linz la ricordavo bene.
O avevo sognato tutto quella volta che mi ero pappato un quadrato intero di LSD?
-Stai cercando di confondermi, lo so. Ma non ci riuscirai. E comunque sono Piero non Mario!-
-Vabbè… Piero… Mario… dopo tutti questi anni, che cosa vuoi che importi. Comunque mi fa piacere rivederti, era un sacco di tempo che non incontravo più nessuno del liceo. Perché hai addosso tutti quei cucchiaini?-
La sua imbecillità rinfocolò di colpo il mio animo, facendomi accantonare momentaneamente tutte le contraddizioni di quella vicenda: -Per cavarti quegli stupidi occhi dalle orbite, brutta troia!- gridai lanciandomi verso di lei.
Fulminea mi colpì con un poderoso calcio nelle palle, facendomi volare all’indietro di un metro e mezzo buono.
Considerando che avevo preparato quel momento per gli ultimi trent’anni, (anche di più se quella era la stessa Helga del liceo) il risultato si stava rivelando parecchio sotto le attese.
Lei mi aiutò ad alzarmi e poi a sedere sul letto: -Ti ho fatto molto male?- mi chiese.
-Mhhh.- risposi io. Poi fulmineamente presi una decisione, poteva anche essere un po’ rincitrullita, ma alla fine che cosa mi aveva fatto di così grave? E poi se l’avessi uccisa dove sarei andato a vivere e di che cosa mi sarei nutrito? Dopo trent’anni certamente tutti mi credevano morto, e anche quando sapevano che ero vivo non è che gliene sbattesse un cazzo a nessuno. E poi lei era ancora così bella, doveva avere almeno sessant’anni e sembrava che non fosse invecchiata nemmeno di un giorno. A parte di capelli, che erano diventati grigi.
Io sono uno che di solito le porta a termine le cose, ma quella volta avrei fatto un’eccezione. Mi tolsi il mio vestito di cucchiaini e mollai anche quelli argentati.
-Hai cambiato idea?- mi chiese lei.
-Si.-
-Come mai?-
-Vedi il fatto è che al liceo io…-
-Mi amavi?-
-No, ma avrei tanto voluto scoparti.-
-Beh, avresti potuto cominciare rivolgendomi qualche volta la parola…-
-Ero timido.-
-Pazienza, è andata così.-
Ne seguì un altro istante di silenzio imbarazzato. Avrei voluto raccontarle tante cose, affascinarla parlandole di mille avventure, ma negli ultimi tempi non mi era accaduto molto di rilevante. Per cui ripiegai su un approccio più diretto.
-Senti…già che ho rotto il ghiaccio, lo so che non sono proprio più una bellezza, ma non è che ti andrebbe…-
-Cosa?-
-Ma si dai… hai capito no?-
-Di scopare?- fece lei scandalizzata.
-Era solo… così… una proposta.- glissai.
Lei squadrò la mia figura con malcelato disgusto.
-Va beh, dai. D’accordo.- rispose contro ogni pronostico.
Iniziai eccitatissimo a baciarla in ogni parte del corpo… ad odorare i suoi capelli… a toccarla nelle sue parti più intime… a strofinarmi sulla sua pelle scoprendola levigata e liscia come metallo.
Mi fermai con un nodo alla gola: -Ma tu sei… sei… cioè non hai…-
-Si. Sono di metallo.- mi interruppe lei con una leggera aria di sufficienza, ora non sembrava più così rimbecillita –E’ per quello che quella volta a Linz sono sopravvissuta alla forgia. Tra l’altro lascia che te lo dica: come metodo di corteggiamento è abbastanza fallimentare. E poi comunque tu hai vissuto trent’anni dietro la mia cabina armadio, se questo ti sembra normale…-
-No vabbè d’accordo, sei di metallo, questo per me non è un problema. – mi affrettai a mettere in chiaro -Tra l’altro spiega una quantità di cose, ad esempio perché a casa tua non c’era mai niente da mangiare… anzi semmai ora mi chiedo perché avessi i corn flakes.-
-Li compravo per te. Pensi davvero che no lo sapessi che eri lì dietro? A proposito com’è che ti è venuta tutta questa voglia di chiacchierare? Mi vuoi scopare oppure no?-
-Si, certo…- risposi riprendendo i preliminari –Quello che volevo dire prima però è che tu… sei ancora vergine!-
-Già… proprio così.-
-Ma come è possibile… una ragazza bella ragazza come te…- dissi cominciando ad ansimare.
-Non ha mai trovato l’uomo giusto…-
-E io… sono… l’uomo giusto?-
-Non lo so… vediamo che sai fare…- anche lei per l’eccitazione cominciava a sospirare.
-Mah… scusa se te lo chiedo… tu sei… come dire… artificiale?-
-Non avevi detto… che non era… un problema?-
-Non lo è… era così… per sapere…-
Ormai sbuffavamo come mantici: era il momento più bello della mia vita.
-Mai sentito… parlare… della vergine… di Norimberga…?-
-Non era… quella cassa… con le punte dentro…-
-Esatto… sono… la nuova… versione…-
-E’ per questo… che non… invecchi…?-
-Esatto… passati… i cinquanta… mi sono… venuti… i capelli… grigi… e basta…-
-E… le punte…?-
-Che punte…?-
-Che senso ha… una vergine… di Norimberga… senza punte…?-
-Ho solo… una tenaglia…-
-E dove…-
-Lì giù…-
-Lì… dove…?-
Ero pronto a penetrarla, nulla a quel punto poteva più farmi paura.
-Lì giù… dove ti stai… infilando… adesso… ma tranquillo… la comando io… a volte… perdo il controllo… solo… se mi eccito… troppOOOOH… AAAAAAH! SIIIIIIII!!!!-
-AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!!!!!!!!!-
AUTORE - MAX
29 gennaio 2007
DICIOTT'ANNI
La sospirata dama-prigioniera-nel-castello-incantato in questione era la florida e legittima consorte di un discusso lontano parente, che le più elementari convenienze – prospera ancor’oggi la famosa matrona, chissà se tonificata dalle antiche brezze – ci vietano di nominare a tutte lettere.
Diguazzò non poco, la procace parentessa lontana, nel proverbiale brodo di – ( … ) – giuggiole, nel vedere il povero Carminello a tal punto arroventato, e poiché nella remota provincia insulare le distrazioni per una onesta – diciamo così – donna maritata non sono mai una di troppo, ella si ripromise di trarne un certo svago, almeno per qualche poco, secondo che prudenza consentisse.
– Mio giovane e focoso amico, – diceva la maliarda – tu mi ami, benissimo, e voglio crederti, ma io che ci posso fare?
– Come..! Lo sai bene cosa puoi farci…
– Beh, bah, in effetti credo di poter indovinare cosa ti aspetti da me, diavoletto, ma… se mio marito ci sorprendesse?
– Noi faremo in modo che non sappia nulla. Non ci sorprenderà. Chi è mai lui per mettere becco – disse proprio così, storpiando la pronuncia con una smorfia di disgusto – nel nostro meraviglioso amore, dal quale dobbiamo aspettarci le gioie più grandi, quelle che lui non potrà mai darti? Non saprà mai nulla, a meno che non lo informi tu.
– Sisì, faremo in modo, faremo in modo… come no: è sempre la solita storia. Si fa in modo, si fa in modo, e poi si viene pizzicati lo stesso. Ma lo sai, se ci scoprisse, cosa sarebbe capace di fare?
– Una scenata..?
– Macché! Quello, testa calda com’è, ci sfracella la testa con l’accetta..! Una volta, a uno che, secondo lui, faceva un po’ troppo lo spiritoso, lo ferì gravemente ad un braccio, ma questo perché arrivò a scappare, se no lo affettava come un salame… È capace, sai..? Certe volte penso che quando si sveglia con la luna di traverso, sarebbe capace di schiacciarmi la testa dentro una porta, solo per vedere che cosa n’esce. Hai capito, Minù? – era questo il modo di accendergli il fornello dei bollori conformi alla circostanza…
Comunque si arrivò a un’ intesa.
Ogni sera, dopo cena, il marito alla sua poltrona si appisolava e pian piano finiva per cedere al tenace sequestro di Morfeo. Si distendevano così per la signora nuove possibilità di relativa, sufficiente libertà d’azione.
– Ma, ma, eh caro il mio pulcino, c’è un piccolo problemino: – disse la seduttrice almanaccando allegre complicazioni con cui cavarsi un po’ di supplementare capriccio – è necessario che tu mi avvisi della tua presenza, quando verrai a trovarmi… è troppo geloso mio marito. Madonna Benedetta del Carmine! Al minimo sospetto, quello è capacissimo di impiantare un quarantotto! Bisognerebbe inventarsi qualche cosetta… Vediamo…che ne so… Tu la sapresti fare l’imitazione del cavallo che nitrisce? Che animali stupendi… – faceva lei inuzzolita da segrete e inconfessabili febbri perverse – così pieni di sensibilità, di intelligenza, di slancio, di energia!
– Per la verità non sono troppo allenato, senti un po’ se può andare: iihiihhiii…ihnhiihiii..! – fece Carmine, imitando la bestia prescritta senza troppo successo, effettivamente.
– Ma nooo, non così…ti sembra un cavallo questo? A me pare piuttosto il lamento pietoso di uno affetto da una tristissima stipsi in piena crisi dolorosa!
E via!
Lo spasso era appena cominciato.
– Oh, devi ben allenarti piccino mio. Che è nitrire questo? No, no, senti, facciamo così: impratichisciti ben benino. Poi, quando tu finalmente mi arriverai ad essere un vero cavallo, – ( … ) – vieni sotto la finestra, verso le novemmezza-dieci, mi fai sentire un nitrito degno di questo nome, ma bello eh? potente, convincente, e poi chissà…
Figurarsi – prego – quale non fu l’esaltazione dello smanioso Carmine, che aveva intravisto da uno spiraglio un angelico stuolo di cantori i quali, modulando all’unisono eufonici gospels, gli schiudevano le soglie del paradiso.
L’apprendistato imitatorio ebbe così inizio.
Se n’andava in aperta campagna in cerca di cavalli professionisti, di giumente esemplari, di puledri eccellenti da tampinare, spaventandoli e tormentandoli con la delirante brama di penetrare la nobil’arte del nitrito.
Tutto il tempo gli fluiva innanzi cadenzato da accorati, supplichevoli, impetuosi, travolgenti nitriti.
***
Talvolta – malauguratamente – si lasciò sorprendere da qualche ascoltatore improvvisato:
– Coraggio! – gli facevano i pietosi.
– Brutto il morbo, eh? – gli facevano i cinici canzonatori.
– Checcè, Zorro, hai perduto la scecca ? – gli facevano gli sbeffeggiatori mordaci.
– Talé talé, arrivò Blèkk Stàllion, ’u cavaddu ’ri Gringu ’u sceriffu! – gli facevano i soliti bei tipi ameni.
E pazienza.
Che potevano capire, del resto, dell’aureo precetto dell’Arte come imitazione della natura?
***
Venne dunque il giorno in cui Carmine sentì nelle sue vene scorrere – ormai padrone men che assoluto del metodo Stanislawsky – genuino sangue di destriero – o si dirà piuttosto – autentica linfa di stallone…
***
Una sera, col cuore che gli rintoccava il Corpus Domini, si appostò sotto le finestre dell’intransigente accalappiatrice di giovani corsieri insanguati, e spandé il suo appello ardente:
– Iinhihiiiüh, înnhiihiüh!
– Iiiühînn!
– Ihih!
– Î..!
Avrebbe intenerito i cuori più accidiosi, turbato gli animi più coriacei, spruzzando il bollente suo richiamo.
Avrebbe.
Invece nella casa nulla si mosse; la giumenta, accorreva mica, al segnale.
– … Î!
– …
Fuori questione che si mostrasse, l’eccentrica.
***
Carmine la incontrò due giorni dopo – riconoscendo da lontano l’oggetto delle sue bramosie, sebbene tutte le Veneri si somiglino, viste da dietro – spalmata di non si sa che lubrificante, mollemente sdraiata sulla finissima rena della spiaggia.
Per l’occasione, sul vecchio Mediterraneo spasimava una certa brezzolina, difficile a distinguersi, a meno di compenetrarsi con essa per mezzo di quella facoltà che si manifesta quando una pausa dalla schizofrenia del “quotidiano” rende partecipi dell’armonia con le cose della natura. Ma ritorniamo al dramma principale.
***
– “ ?” – fece Carmine con espressivo gesto di mano.
– Ma certo, gioia mia, ti ho sentito benissimo l’altra sera! – dichiarò la malandrina a scottapelo – E tu, tu quello me lo chiami imitare il verso del cavallo? Figurati che mio marito s’è svegliato di colpo e ha cominciato a guardarsi in giro tutto sospettoso e pazzo! No caro, devi proprio esercitarti un poco meglio… Così è troooppo scarso. Io mi aspetto qualcosa di meglio da te…eh..! Scusa…
Fu così che Carmine, con il veleno in circolo e la rabbia che gli mangiava gli occhietti, prese dunque la strada dei pascoli e passò ancora giorni a simulare con gran schiamazzo i clamori del purosangue.
***
Nitriva per macchie, radure e boscaglie, ora sconsolato, ora – è il caso di dire – spronato verso sospirati traguardi di fiabesca voluttà.
Trafalcando e trottignando, in una di queste notti selvatiche, ebbe a considerare, con l’animo oscillante tra l’umano e l’equino il suo singolare caso. Una nube di tristezza gli avvolse l’anima. Nel silenzio profumato un usignolo cantava, e sembrava accordare la sua voce con quella di fontane fresche e lontane. L’aria soave e gentile, un’aria da portar sospiri, passava mormorando, e di lontano, tra immobili carrubi, uno stagno luccicava.
Lentamente scese fino al pantano, le rane che stavano sull’orlo, importunate dal curioso centauro, saltarono nell’acqua adducendo un leggero brivido nel cristallo addormentato. C’era lì una panchina di pietra e sedette. La notte e la luna erano propizie al sogno, e poté immergersi in una contemplazione simile all’estasi. Confusi ricordi d’altri tempi e d’altri amori si levarono nella sua memoria. Tutto il passato risorgeva come una gran tristezza e un gran rimorso. La sua giovinezza gli appariva un mare di solitudine e di tormento, sempre avvolto nella notte.
***
Era un poco folle la sua anima e non funzionava troppo bene… così credeva di avere maligni demoni dentro il cervello che stavano lì unicamente per dargli tormento e dolore.
Qualcosa c’era davvero che gli mugghiava furente in corpo, ed era una bestia ribelle a tutti i buoni consigli che gli amici gli fornirebbero, mossi da compatimento oppure sentenziosità, magari a fin di bene. Un cattivo presentimento sospingeva Carmine verso nuovi tormenti nel momento in cui placava il suo cuore con un soffio di lieve speranza.
Di certo una condizione, ancor più delle altre, affliggeva la sua persona: egli era intellettivamente sviluppato, ma rimasto fiacco nella crescita emotiva. Il cervello era quello di un uomo, ma l’animo quello di un ragazzo al quale una guida e una protezione erano certamente necessarie.
Pensava semplicemente – anche se semplicemente gli era interdetto dal suo tribolato carattere – che la vita continuasse senza posa a godersela con lui adoperando la malvagità avversatrice più raffinata e perseverante. Gli sembrava che ogni vano esperimento di risollevare la sua sorte infelice si risolvesse prima o poi unicamente nel forzato ritorno colà da dove si era mosso, e che tuttavia una specie di maledizione operasse in modo da sospingerlo verso rinnovata angoscia.
Nuovi roveti insidiosi, sentiva, gli graffiavano la carne.
Ancora, nell’atto di pronunziare dentro di sè alcuni discorsi, ritrovava idee che non sapeva di possedere, e che non immaginava che e come fossero germogliate. Non riusciva a comprendere insomma come gli fossero pervenute quelle idee così compiute, adulte ormai, indipendenti quasi e con una ragion d’essere autonoma, autosufficiente.
«Si potrebbe ad un certo punto scoprire» – si sorprese a pensare – «che quello che si desidera non è invero il meglio per sé, anzi ciò che si è sospirato in realtà è ciò che non si vuole, ma la soluzione più malferma, aleatoria, e le conseguenze sono le più difficili da controllare. Chi ad esempio si logora fantasticando d’acquisire ricchezza, potrebbe scoprire che una tale ‘fortuna’, piovuta repentinamente dal cielo, si rivelerebbe, una volta discesa nella vita vera, una fonte imprevedibile di malanni e di iatture.»
«La mia vita» – considerava – «assomiglia al viaggio di un aquilone fissato saldamente da un filo, al quale è data la possibilità di librarsi in aria. Allo stesso tempo quel filo realizza la sua schiavitù e la sua prigione terrestre, nonostante costituisca per l’aquilone la sua protezione, la sua salvezza, dal momento che il tenace vincolo gli impedisce di andare a precipitare tra rami d’albero o peggio, e consumare così l’esistenza d’aquilone da vero aquilone. Forse l’obbligata salvezza, rendendo intatto l’aquilone non lo risarcisce di felicità poiché reprime la sua natura libera e priva di coscienza.
Forse, se l’aquilone potesse dare la preferenza, chiederebbe troncato quel filo che gli impedisce di andare a scomparire come un aquilone. Forse, la grazia del suo volo è ritenuta tale soltanto da chi quel volo osserva, non dall’aquilone stesso… perché l’aquilone… è imprigionato.»
***
Leggere nubi bianche erravano intorno alla luna, e la seguivano nel suo corso fantastico e vagabondo. Spinte da un soffio invisibile la coprirono e la campagna fu immersa nell’ombra. Lo stagno non brillava più tra gli inerti carrubi, di cui solo la cima rimase illuminata. S’alzò allora una brezza che trascorse destando un lungo sussurro in tutto il recinto e portò sino a Carmine l’aroma di rose sfogliate. Sentieri d’alberi secolari, fondi e silenziosi, sembravano cammini ideali che invitassero all’oblio, tra freschi vapori che spargevano nell’aria l’erbe umili che prosperavano nascoste come taciute virtù.
***
Proseguirono giorni scombinati e notti sregolate, rincorrendo miraggi antropomorfi e animalesche fantasticherie.
Ma tant’è.
***
– Stavolta, – certificò il bravo e logorato giovane – credo di esserci. Qui si fa l’Italia o si muore!
La stessa sera s’installava al suo posto di “piccola vedetta lombarda” e innalzava alle stelle perplesse il guaito dello stallone immalinconito.
– Iinhihiiiüh, înnhiihiüh! Nnhiihiiiiü!
– Iiniiiüh, înnhiihiüh! Hiiiü!
La casa del babau restava chiusa, insensibile alle chiamate impazienti.
Due giorni più tardi, ebbro d’audacia e con l’intestino in malora, un Carmine sull’orlo della dementia precox si abbatté a casa della signora * , sapendo il marito richiesto altrove.
– Cheddìci? Ma davvero? Ma tu guarda… – faceva quella canaglia in giarrettiere, facendo capolino da una nube vaporosa di lavanda d’immodesta fragranza – quindi eri tu, pazzerello, che nitrivi l’altra sera per strada? O Madonnina Benedetta del Carmine..! T’assicuro che quel grido era così perfettamente imitato che ho creduto si trattasse di un vero cavallo… Ma cose cose!
E aggiunse:
– Ma scusa, non per criticare, ma tu, non possiedi il senso delle sfumature?
Fu allora che Carmine de’ Canegiari capì che la donna lo prendeva – ma di molto! – a bicecio.
Offeso, torturato dalla più oppressiva libidine, si avventò su di lei, offrendo, questa famosa volta, un’eccellente imitazione dell’urlo della scimmia soffiatrice del Borneo.
Che non è neanche buona educazione.
AUTORE - PATONSIO
15 gennaio 2007
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Buona lettura a tutti ;-)