17 aprile 2005

IL GIORNO IN CUI SI FECE BUIO

Lo chiamavano il Dente del demonio e mai un toponimo mi era parso più azzeccato. Uno sperone di roccia irto e sagomato da milioni di anni di erosione si ergeva nel cuore della vallata, corpo estraneo ed ostile all'ambiente circostante.
Sembrava effettivamente un molare estratto da fauci enormi e buttato lì da una divinità schizofrenica.
Tutto intorno i boschi sempreverde ammantavano le montagne mentre il Dente era spoglio e irraggiungibile, unito al resto del mondo da una mulattiera malferma, cordone ombelicale malato di un feto nato morto.
Se il Dente appariva già a prima vista un luogo inquietante ancora più alieno sembrava l'antico Monastero medievale che gli stava appollaiato sopra come un avvoltoio pronto a lanciarsi sulla sua preda inerme: si trattava di un massiccio edifico più volte rimaneggiato il cui nucleo originale era del IV secolo e che era più simile ad un possente maniero che ad un luogo di culto e contemplazione.
Mentre dal belvedere sulla Provinciale osservavo affascinato quel luogo, fonte di misticismo fin dalla preistoria, guardavo con affetto il notebock Toschiba che ammiccava dal sedile del passeggero della mia auto; in quel portatile c’erano racchiuse vent’anni di ricerche che mi avevano permesso di trovare la chiave di lettura di una caccia al tesoro che durava almeno dal I secolo.
Tutto era cominciavo durante la mia tesi di laurea in paleografia latina, quando studiando un antico papiro pompeiano mi ero imbattuto in un’annotazione in capitale rustica sul bordo sinistro del papiro. Stavo studiando una fotocopia di scarsa qualità e ci misi giorni a trascrivere l’iscrizione:

SIG[…] P[…]ONIS […] IN[…] – D[…]I

Si trattava di una frase senza senso e totalmente estranea all’argomento del mio studio così me ne dimenticai per quasi sette anni. Accadde però che, mentre studiavo l’alto medioevo italiano, mi venne in mano un antico rogito in calce al quale in un angolo, in scrittura carolina c’era una frase che, una volta trascritta, mi fece tremare i polsi:

SIGILLUM PLUTONIS IN LOCA INFERNA NOS CLAUDERE – CDII

Sebbene la versione pompeiana avesse numerose lacune era innegabile che si trattasse della stessa frase. Due cose assurde, però, mi colpirono immediatamente. I due documenti erano separati da almeno sei secoli: uno proveniva dalla Pompei Romana del I secolo l’altro da un scriptorium monastico dell’Italia settentrionale del VII secolo. La seconda cosa che mi lasciò perplesso erano le lettere poste alla fine della frase. Sul primo momento il D[…]I del papiro mi era parsa l’abbreviazione o la lacuna di qualcosa (avevo pensato a domini) ma le quattro lettere medievali erano sicuramente il numero 402. Mi balenò in mente la possibilità che anche la pare finale dell’annotazione medievale potesse essere un numero ma quale? E che senso aveva?
La risposta alle mie domande giunse pochi mesi dopo, durante il caldo agosto del 1993. Stavo cercando notizie su quella iscrizione che non avevo fino a quel momento trovato in nessun poema o opera latina. Rinvenni, però, un riferimento ad un’iscrizione analoga trovata sul muro di una chiesetta romanica sull’Appennino emiliano. Era stata utilizzata come basamento di una colonna, con l’epigrafe rivolta verso il terreno, quindi illeggibile finché un terremoto aveva fatto crollare parte della cripta mostrando la pietra di risulta. Andai a vedere la lapide, che in origine era probabilmente stata parte di un sarcofago, in cui vi era chiaramente scritto:

LOCA INFERNA NOS CLAUDERE – DVI

Ricordo che quasi piansi dall’emozione. Non solo la scritta era innegabilmente la stessa ma c’era il numero finale e questo confermava che anche la prima iscrizione doveva riportare il numero.
Nei successivi dieci anni trovai altre due iscrizioni. Una in calce a una copia dell’Apocalisse di San Giovanni, scritta a Costantinopoli e portata a Mosca dopo la conquista turca. Nel 2002 trovai quella che sarebbe stata l’ultima iscrizione, sempre in latino ma su una lettera scritta in inglese da Lord Clark Alfred McRiver IV alla sua amica di penna nel 1728. In totale avevo cinque iscrizioni, tutte con un numero alla fine.

Nel giugno del tuo diciottesimo compleanno, poi, successe l’evento decisivo di tutta la faccenda. Andai a trovare un collega paleografo che si trovava ricoverato in una clinica per malati di mente. Ricordo che ero nervoso quando entrai nel reparto chiuso da una porta blindata con gli infermieri che mi scortavano come secondini.

Mentre uscivo dalla stanza del mio collega un altro paziente mi si avvicinò da dietro, così silenzioso che quando mi parlò sobbalzai.

“Vai al Monastero di San Michele ad Loca inferna in Dente demonis!” mi sibilò in un orecchio mentre mi infilava in tasca un biglietto scritto con un pennarello su un tovagliolo di carta:

SIGILLUM PLUTONIS NOS CLAUDERE IN LOCA INFERNA I

Mentre l’infermiere chiudeva la pesante porta del reparto, io tremavo di paura ed emozione.
Tra enciclopedie e internet non trovai molto su questo luogo che non sembrava promuovere il proprio turismo. C’era un antico monastero e una fonte di acqua solforosa e bollente. Il monastero sorgeva su una formazione granitica, resto di un meteorite che era caduto in mezzo alla valle in epoche remote e costituiva un corpo estraneo geologicamente parlando: secondo i geologi della Regione Emilia Romagna il meteorite cadendo aveva provocato una fenditura nella crosta terrestre da cui era poi sorta la fonte. Il nome tradizionale della formazione granitica era Dente del demonio. Plutone era il dio degli inferi e l’iconografia cristiana sull’inferno, come si nota leggendo Dante, aveva fatto tesoro dei simbolismi legati all’Ade antico: poteva essere una buona pista.
Cercando nei testi di storia tosco – emiliana notizie sul monastero trovai cose interessanti che rafforzarono la mia idea che qualcosa di strano ci dovesse essere.
Scoprì infatti che la fonte era venerata fin dal tempo degli Etruschi. I Romani vi avevano costruito un tempio dedicato a Proserpina sul quale era poi sorto iI monastero, poco dopo l'Editto di Costantino. L’Inquisizione era intervenuta più volte in quella zona per combattere riti iniziatici, stregoneria ed eresie.
In epoca arcaica si diceva che chi avesse bevuto l'acqua della fonte avrebbe acquistato il dono della preveggenza, ma anche che il fiume sotterraneo che aveva scavato un'intricata trama di grotte e gallerie sotto il Dente fosse uno degli affluenti sotterranei dell’Averno. Il Cristianesimo aveva sepolto quella credenza ma la tradizione popolare considerava quella fonte portatrice di sventura e i pastori rifiutavano di usarne l’acqua per far abbeverare le pecore.
Ovviamente decisi di non chiedere autorizzazioni alla Santa Sede o all’ordine monastico per fare ricerche nel monastero, ci sarebbe voluto troppo tempo. Decisi invece di fingermi un uomo in cerca di pace e meditazione e feci domanda per un periodo di ritiro spirituale che mi fu accolta.
Ed ecco quindi che mi trovavo sul belvedere che guardava quella ostile massa di pietra, armato solo di un computer portatile, una buona dosa di faccia tosta. Più che Indiana Jones mi sentivo uno di quei personaggi dei racconti gotici che si avvicinano all’ignoto senza rendersi conto del pericolo: se avevo ragione erano secoli che quel luogo mandava messaggi in giro per l’Europa, non poteva che esserci pericolo ma io ero reso cieco dalla mia brama di sapere.
Quando il padre guardiano mi aprì le porte del Monastero per la prima volta da quando tutta questa faccenda era iniziata fui colto dal dubbio: il frate sembrava vecchio come la terra stessa e i suoi occhi traevano sapienza dalle radici stesse del mondo. Il portale del Monastero era adornato di bassorilievi con scene tratte dalla genesi e dall’apocalisse. Arte paleocristiana, romanica e gotica si fondevano in una cacofonia di stili che dava a quel pesante portone di bronzo l’aspetto di un accesso per un’altra dimensione. All’interno i porticati del chiostro erano affrescati di scene cupe che riproducevano versioni spurie dei miti classici sui titani e della cacciata dal paradiso terrestre.
Mi assegnarono una celletta la cui finestra, poco più di una feritoia mal chiusa da un battente in legno, dava su uno dei numerosi cortili interni di quella struttura impossibile.
Per alcuni giorni stetti tranquillo. Prendevo parte alle funzioni religiose e ai pranzi nel refettorio ormai troppo grande per i sette frati che erano ospitati nell’eremo. Alla fine della prima settimana iniziai a porre domande sull’Inquisizione e sulle grotte che si snodavano sotto il Monastero. Il Superiore era sempre molto evasivo ma c’era un novizio molto cordiale e con molta voglia di chiacchierare con cui mi intrattenevo spesso nell’orto.
Una mattina il ragazzo mi si avvicinò mentre nel chiosco fingevo di pregare osservavo gli affreschi consumati alle pareti, cercando di cogliere il senso di scene che sembravano state messe insieme a caso: arpie, titani e draghi combattevano contro angeli cristiani e dei romani in una sorta di guerra totale tra le forze dell’ordine e quelle del caos. In mezzo a ogni scena stava il Monastero difeso da legioni di Angeli e Dei ma assediato da innumerevoli armati di mostri e demoni tra i quali, questo mi stupì, militavano anche uomini.
“Mi devi aiutare” mi disse il ragazzo senza indugio.
Aveva il volto segnato dalla paura e gli occhi imploranti: “Cosa c’è che non va?”
“Vogliono uccidermi”
“Chi?!” dissi ridestandomi dal torpore della mattina.
“I frati!”
“Perché dovrebbero?” non ci potevo credere, era l’ultima cosa che mi sarei aspettato, anche se effettivamente era sensata.
“Perché io so il loro segreto e loro devono fare un sacrificio per placare i Demoni che abitano sotto questo posto”.
“Come fai ad essere sicuro?”
“Ho origliato alla porta del Superiore l’altra sera. Stanotte mi porteranno nelle catacombe qua sotto e mi sacrificheranno al Dio degli Inferi. Così per un altro po’ potranno ottenere potenza e ricchezza!”
“Mi sembra una follia!”
“Ha visto questo posto? Questo posto è folle”.
Effettivamente non aveva tutti i torti. “Chiamiamo la polizia…”
“No. Tutti i villaggi della zona dipendono dal Monastero, tutti sono d’accordo con loro, chi credi che fornisca le vittime sacrificali ai frati: bambini abbandonati dai genitori, anziani, senza tetto…”
Era così terrorizzato e convincente che non mi passò mai per la mente che si fosse inventato tutto: “Fuggiamo?”.
“Ci inseguirebbero e la sua famiglia sarebbe in pericolo mortale”.
“Cosa possiamo fare, allora?”
“Mi segua”.
Mi guidò nel cortile interno centrale, quello al livello più basso, che popietra roccia conduceva ai sotterranei. Una pesante porta di bronzo chiudeva il passaggio, decorata con scene dell’Apocalisse.
“Lì sotto ci sono l’antico tempio romano e la sorgente sacra a Proserpina. Si dice che nel Medioevo i frati che non seguivano la regola venissero mandati qua sotto ad espiare e che nessuno tornasse: andavano ad inferna loca, da dove solcando il fiume sotterraneo si poteva giungere all’Averno e alla Palude Stige. Anche oggi succede qualcosa si simile, temo”.
“Come fai a sapere tutte queste cose?”
“Sono appassionato di storia come lei. So che lei è un uomo di scienza, un grande insegnante e che è l’unico a potermi aiutare: posso fidarmi solo di lei. Era un po’ che avevo capito quello che succedeva qui dentro ma era impossibile per me chiedere aiuto ai dirigenti dell’Ordine anche perché temo che l’Ordine sia marcio fino al midollo: non potrebbero fare certe cose altrimenti”.
“Cosa fanno qui?”
“Secondo gli Etruschi e i Romani l’acqua della fonte donava la chiaroveggenza, pare che molti oracoli si abbeverassero a questa fonte prima di iniziare a vaticinare. Esisterebbe una versione apocrifa dell’Eneide in cui Enea si sarebbe recato negli Inferi da qui e non dai Campi Flegrei. I frati hanno bisogno di ingraziarsi le divinità che controllano la fonte per conoscere il futuro ed intervenire su di esso. Ho potuto scoprire solo questo”.
“E le scritte sui documenti, quella specie di conto alla rovescia?”
“Non lo so. Ma io ho ricevuto una cartolina col numero due, quando sono stato assegnato a questo Monastero”.
“Io ho ricevuto il numero 1…potrei essere la prossima vittima!”
“Non ne dubito, questa è gente senza scrupoli”.
“Cosa possiamo fare?”
Il ragazzo estrasse una rivoltella e una torcia da sotto il saio. “Tenga questa. Stanotte ci seguirà nelle catacombe, per il rito verranno tutti e sette – i sette cavalieri dell’apocalisse – e mentre saranno occupati a sgozzarmi lei li ucciderà tutti. Poi apriremo il sigillo…”
“Il sigillo di Plutone?”
“Esatto. Ho scoperto che è una specie di grossa chiusa da diga. Aprendolo il fiume inonderà il Monastero e lo distruggerà: nessuno più verrà ucciso in questo posto!”
Il ragazzo sapeva troppe cose: come faceva? Cacciai quel dubbio in fondo alla mia mente e ancora oggi non so come feci a farmi convincere. Forse erano quegli occhi chiari e fragili come il vetro, forse il fatto che lo vedessi così giovane, quasi un figlio, in contrasto con la vetustà malsana di quel posto. Decisi di credergli del tutto e mi preparai a sterminare quei frati maledetti.

La notte rimasi a vegliare come le spose del Vangelo. Non era possibile per me dormire, col revolver stretto nella destra e la torcia nella sinistra. La celletta mi appariva in quel momento lugubre come un braccio della morte.
A mezzanotte mi alzai, mi vestii col mio abito migliore – strano come gli uomini tentino di andare vestiti impeccabilmente anche all’appuntamento con la morte - e scesi la scala a chiocciola fino al cortile. Ogni passo durava un’eternità mentre trattenevo il respiro per non fare rumore. Quando giunsi al cortile centrale, quello che dava alle scale di pietra mi resi conto che le mie attenzioni erano inutili: una lugubre processione di frati incappucciati scendeva già la scalinata scavata nelle radici di pietra della montagna. In mezzo a loro nudo e legato con l’espressione rassegnata del condannato a morte camminava il ragazzo. Il gruppetto di macellai e la loro vittima si muovevano come in una realtà parallela, nessuno di loro era interessato a me.
Attesi che i frati fossero scesi nei meandri del Dente del demonio e li seguii osservando le scene di morte incise sulla pesante porta di bronzo, ora spalancata. Mi sembrava di entrare nella gola di un animale primordiale: i gradini di pietra che penetravano la montagna erano stati scavati decine di secoli prima.
Il corridoio in cui mi ritrovai era illuminato da torce. Mantenni una certa distanza dai frati ma ne osservavo le ombre proiettate nel mentre sentivo una litania giungermi alle orecchie ma non capivo le parole. Le pareti delle gallerie erano ricoperte di incisioni e pitture rupestri; raffiguravano mostri mitologici e scene di caccia in cui però erano gli uomini ad essere cacciati da mostruose creature alate simili ad arpie e da esseri senza volto che emergevano dalla terra stessa.
Ad ogni biforcazione tentavo di cogliere la direzione della litania dei frati per orientarmi, se mi fossi perso in quel dedalo sarei morto sicuramente. Sentivo distintamente scorrere intorno a me il fiume sotterraneo.
Dopo una curva a gomito della galleria mi arrestai di colpo nascondendomi dietro una stalattite. La fonte era lì, sgorgante da una fenditura della roccia. Ribolliva in una vasca che pareva antica come il mondo stesso e circondata da statue chiaramente romane raffiguranti esseri informi che combattevano con eroi. Il gruppo scultoreo era probabilmente tra i reperti archeologici più importanti al mondo ma nessuno ne aveva mai parlato!
Il ragazzo era stato legato, nudo, a una statua di Giove tonante. Tremava dalla paura mentre i frati salmodiavano in latino. Io dalla mia posizione potei carpire solo alcune parole ma una frase mi colpì:
“Tu sei Saturno, mangiatore dei tuoi figli. Noi ti ributteremo negli inferi da dove sei venuto”. Capì lentamente che stavano facendo una sorta di esorcismo. Puntai il revolver. Quando vidi balenare una lama in mano a un frate sparai. I colpi rimbombarono nelle viscere della terra con una violenza che non mi ero aspettato: non avevo mai preso un’arma ma uno dopo l’altro i frati caddero sotto i miei colpi, come se una mano divina guidasse la mia. Corsi al ragazzo che mi guardava con un’espressione terrorizzata e sollevata insieme. Lo liberai dalle corde d’oro cui era stato legato. Vidi la lama con cui l’avrebbero sgozzato: un coltello rituale dall’elsa d’oro a forma di saetta ma con una croce di perle in una commistione iconografia impressionante.
“Mi hai salvato – mi sorrise mentre lo coprivo con la mia giacca – ora completiamo l’opera”. Mi indicò, in mezzo alla vasca ribollente di acqua, una specie di grossa chiusa di metallo, riccamente cesellata per assumere la forma della testa di una gorgone urlante.
“Sei sicuro che sia la cosa giusta?” chiesi dubbioso.
“Si fidi di me, professore”. Fu il modo in cui lo disse, o forse furono i suoi occhi chiarissimi piantati nei miei, ma gli credetti.
“Va bene”.
“Deve farlo lei, è lei il numero uno”.
Entrai nella vasca immergendomi fino all’inguine nell’acqua calda. Il rumore della fonte sembrava il brontolio di un predatore addormentato. Pensavo che avrei fatto fatica ad aprire il chiavistello, forse chiuso da secoli, ma questo mi cedette nella mano con tale facilità che caddi nell’acqua. Il ragazzo rise di gusto, mentre guardava preoccupato i cadaveri dei frati, come se potessero tornare dalla tomba per ucciderlo. Mi rimisi in piedi, fradicio, e sollevai di un poco il portello dovendo fare, stavolta, un notevole sforzo per vincere la pressione dell’acqua.
Appena lo sollevai di alcune dita, però, esso si aprì da solo e l’acqua della fonte si ritrasse da esso come se fosse dotata di vita propria. Quello che vidi guardando dentro quel pozzo fu l’apoteosi di tutte le deformità, la summa di ogni fetore e la miscellanea di qualsiasi follia.
Solo in quel momento capii quello che avevo fatto e, girandomi, vidi il novizio non più un ragazzo ma un essere senza forma che mi guardava con un ghigno da felino.
“Grazie. Solo tu potevi, sono millenni che ti aspetto: ne sarebbe nato solo uno, l’unico sfuggito al controllo di Dio, l’unico senza anima, colui che avrebbe aperto il Siglillo di Plutone. Ora siamo liberi, vai e annuncia al mondo la mia venuta”.

La ragazza si muoveva con circospezione. Intorno a lei la città era un terribile cimitero di cemento ed acciaio contorto, oppresso da un cielo sempre crepuscolare. La foschia saliva dalla terra umida e la cenere portata da brezze malsane penetrava le narici assieme a miasmi mortiferi. Era madida di sudore ma allo stesso tempo percorsa da brividi profondi.
Lì, nel perimetro del rifugio, circondata da amuleti e reliquie, la ragazza era al sicuro. Ciononostante lanciava sguardi preoccupati al cielo che sembrava sanguinare e alla terra che ribolliva: il nemico calava dall’alto ed emergeva dalle radici marce della terra stessa.
Dietro di lei le mura del rifugio, davanti la morte in ogni sua manifestazione e l’eterna notte degli uomini. Si era recata lì per riflettere e grossi lacrimoni le rigavano il visto stanco e sporco, mentre stringeva con rabbia la lettera di suo padre.

..Quando leggerai queste poche righe, figlia mio, io sarò già morto. Voglio raccontarti come tuo padre ha decretato la fine del genere umano. Non lo faccio per chiedere il tuo perdono o quello dei nostri simili ma solo perché tu sappia. Voglio che tu sappia che tuo padre non era un pazzo o un criminale ma solo un uomo di scienza che ha spinto la ricerca della verità fino alle estreme conseguenze: Dio abbia pietà della mia anima.

Erano passati vent’anni da quello che gli uomini chiamavano il Giorno in cui fu buio: da quando il sole si era nascosto impaurito dietro la coperta di una sera perenne. Vent’anni da quando la fogna della Creazione era stata scoperchiata e tutti i rifiuti che Dio vi aveva imprigionato erano straripati calpestando ogni cosa.
La terra era stata infettata da Creature che appartenevano agli incubi più ancestrali degli uomini e che la coscienza comune aveva tentato di dimenticare, sublimandoli nei propri miti.
Era iniziata una lotta senza quartiere in un mondo in cui il tessuto della realtà si era consumato e strappato in più punti.
Gli uomini stavano perdendo.

Fece a pezzettini la lettera di suo padre, che si era suicidato due giorni prima, e lasciò che il vento li rapisse. “Non ti potrò mai perdonare – urlò alla desolazione che aveva davanti – mi dispiace”.
All’orizzonte apparve una creatura alata ed informe, come una ferita sanguinante nel cielo. Si lanciò in picchiata verso qualche preda lanciando un grido simile al rumore di un rastrello su una lavagna. Iniziò a cadere pioggia fangosa.

“Che tu sia maledetto!” imprecò varcando la porta del rifugio mentre la guardia, appena un ragazzino, le faceva un saluto incerto.

AUTORE - GABRIELE

5 commenti:

Eliselle ha detto...

Una bellissima idea, scritta davvero bene. Potrebbe nascerci un romanzo (ci hai già pensato?).

Sensazione di angoscia mentre leggevo.

Anonimo ha detto...

Effettivamente l'idea mi era venuta, ma mi blocca un po' la necessità di rispolverare il latino!

Sara ha detto...

concordo con gli altri.
complimenti per la ricercatezza ;)

Anonimo ha detto...

Bella la storia, specialmente mi sono piaciute le descrizioni della prima parte. Un paio di cose non mi convincono del tutto, una è la facilità con cui il protagonista si fa coinvolgere nell'ammazzamento dei sette frati... l'altra cosa è che questi frati non si capisce cosa volessero fare del loro luciferino novizio. Volevano ucciderlo? Era tutto premeditato? Non è detto che sia una cosa che si debba sapere, ma io l'ho percepita un po' come una mancanza. Secondo me con un paio di pagine di "approfondimento" sarebbe perfetto.

Anonimo ha detto...

Effettivamente tre quattro pagine in più erano previste ma mi stava venendo troppo lungo e macchinoso quindi ho tagliuzzato qua e là. Risultato: per i frati un deus ex machina lo ha spinto ad agire (Il demonio, Dio stesso per punire gli uomini? Non ne ho idea); nella mia idea, poi, i frati volevano fare un sacrificio che tenesse ancora chiuso il sigillo ma forse la cosa non è chiarissima. A sabato.